duetto di Arabella Urania Strange e Paolo Interdonato
Originariamente apparso su “Fumettologica” il 27 maggio 2014, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Harlan Ellison. Lo scrittore è morto il 27 giugno 2018. Lo abbiamo amato molto.
Ricordo perfettamente la prima volta che ho letto Non ho bocca e devo urlare: avevo quattordici anni, ero solitaria, frustrata, mi piaceva la musica che non piaceva a nessuno dei miei compagni di scuola, mi piacevano i ragazzi che invece piacevano a tutte e non mi consideravano, avevo dei vestiti squallidi ereditati dai parenti. E poi ero incazzata. Sempre, in modo indistinto. Quando quel giorno ho alzato gli occhi dall’ultima frase, ho pensato: wow. WOW!
Il libro che avevo tra le mani era grosso e pesante, si intitolava Asimov presenta i premi Hugo 1955-1965 ed era una raccolta di racconti scritti dalle uniche persone che, come avevo capito anni prima grazie all’abbonamento a “Urania” di mia madre, riuscivano davvero a immaginare la realtà: gli scrittori di fantascienza.
Allora, avevo un problema: quando trovavo un libro che mi piaceva, dovevo finirlo. Poi, se era davvero bello, lo riaprivo e ricominciavo da capo.
Quel libro, fantastico, aveva un migliaio di pagine: per giorni invece di fare qualsiasi altra cosa – studiare, mangiare, frequentare altri esseri senzienti, appassire di fronte alla televisione – l’ho letto, e riletto.
E quando sono arrivata a Non ho bocca e devo urlare mi sono ritrovata ribaltata sulla schiena come un granchio dentro un’onda entusiasta e fragorosa. Per qualche momento sono rimasta a godermi quel capovolgimento, mentre nel cervello mi sfrecciavano migliaia di implicazioni, finali alternativi, conseguenze. E una rivelazione: il tipo che mi aveva raccontato quella storia era arrabbiato quanto me. Forse.
Qualche centinaio di pagine prima avevo letto «Pentiti Arlecchino!» disse l’Uomo del Tic-Tac. Mi aveva lasciato un trillo fastidioso ed eccitante nelle orecchie. Per me che non facevo politica e non sapevo che, in quel momento, a cinquecento metri da casa, i miei futuri amici avevano occupato un posto e ci facevano suonare gruppi punk tutte le sere, per me che ero cresciuta nel culto della Legge e dell’Autorità, la ribellione era ancora tutta dentro la testa. L’arlecchino, insorgente solitario che lanciava dolci gelatine colorate per bloccare la catena produttiva, mi aveva fatto battere il cuore fortissimo. La sua cattura mi faceva venir voglia di strappare la pagina molto più del finale di 1984. Il suo progetto era più comprensibile delle Brigate Rosse e del rapimento Moro che, proprio in quei giorni, facevano da sottofondo televisivo alle cene delle famiglie italiane.
Ancora non mi ero accorta che l’aveva scritto lo stesso autore: i nomi, allora come ora, erano irrilevanti rispetto alle storie e, un attimo dopo aver sorriso leggendo le presentazioni di Asimov, me li scordavo.
Così continuando a leggere per ore e ore, sono arrivata a La bestia che gridava amore al cuore del mondo.
Quel racconto l’ho riletto subito due o tre volte. Era psichedelico, straziante, magico, e io, cazzo!, non lo capivo del tutto. Non riuscivo a inseguire quel cervello complicato ed esuberante che dava per scontate così tante cose e che mi abbandonava di continuo alla libera associazione, al salto logico, mescolando i piani del racconto, i livelli temporali e, soprattutto, il Bene e il Male.
Però a quel punto mi ero accorta che per la terza volta, introducendo un racconto, Asimov faceva battute sulla risibile altezza di un tipetto ringhioso che vinceva una grande quantità di premi Hugo. Sono tornata all’indice e BAM! L’autore di quei tre racconti bellissimi, brevi, multicolori e tumultuosi era sempre lui, Harlan Ellison.
I tre racconti di Ellison erano calci tirati, con determinazione, alla mia pancia di quattordicenne. Mi era chiaro, fin da allora, che quello scrittore viveva un profondo dualismo interiore. Era una miscela di intelligenza e rancore, di odio e di amore. Era così consapevole della propria individualità da non riuscire a guardare l’umanità senza essere commosso e insieme inferocito. E questa spinta immorale, nella sua scrittura, mi portava a identificarmi nei suoi personaggi. In tutti. Potevo essere al contempo il prigioniero deforme di AM, quello senza bocca che deve e non può urlare, e AM, il computer carceriere, che odia gli umani perché lo hanno reso, involontariamente e irrimediabilmente, senziente.
[Il racconto più bello della raccolta però era di un altro autore: Il tempo considerato come una spirale di pietre semipreziose scritto da Samuel R. Delany. Conteneva due terzi dell’immaginario che, ancora adesso, mi rende felice. Ma di questo ti parlo un’altra volta.]
A giudicare dalle ultime foto e dai filmati che si possono rintracciare in rete, Harlan Ellison era un anziano signore dal ventre prominente e dai capelli bianchi un po’ diradati che si muoveva lentamente. Alcune cose però non erano cambiate: continuava a indossare improbabili occhiali scuri da bullo di periferia anche al chiuso, aveva una passione per le t-shirt ed era ancora incredibilmente rissoso.
Guarda un video in cui compare. Guardalo conquistare il palcoscenico, incedendo con passo da regnante. Muove quel corpo invecchiato male come se fosse il padrone del mondo, come un dio costretto tra gli uomini. L’illusione si spegne non appena si avvicina a qualcuno: in quel momento diventa evidente che è bassissimo. Poi afferra un microfono, incomincia a parlare e, di nuovo, giganteggia. Ha una voce colorata che sfuma dai toni profondi a quelli queruli e acidi, quasi fosse stato a scuola da George Carlin. Ellison, però, non arriva a coprire la gamma di emozioni dello stand up comedian: gli mancano l’affetto e l’empatia. Polemista straordinario, è capace di sostenere accesi scontri verbali con chiunque, non ha paura di giocare sporco con le magie della retorica. Insomma, pensi, è proprio uno stronzo.
Ha scatenato decine di zuffe, che spesso sono culminate in processi, su qualsiasi tema: dall’ateismo alla diffamazione, dal plagio all’abuso sessuale, dallo scontro fisico con i critici alla censura preventiva di libri che avrebbero dovuto raccontare frammenti della sua vita…
Un metro e mezzo di carne feroce, spesso violenta, che ha cambiato l’idea di fantascienza, facendosi notare dai colleghi fin dalla più tenera età.
Isaac Asimov, ricordando il giovane Ellison, racconta:
«Sapevamo tutti che era speciale. Sapevamo tutti che sarebbe arrivato in alto. Il problema era che cosa fare di lui nel frattempo. Allora non lo avevamo ancora capito ma, in seguito, lo avremmo scoperto.
L’anno scorso, durante una convention, è apparso un sedicenne magro, brusco e molto sicuro di sé. In parecchi ci siamo scambiati occhiate impaurite e uno ha sentenziato: — Ecco un altro Harlan Ellison! – A quel punto, qualcuno, di cui non farò il nome se non per dire che era Robert Silverberg, ha proposto: — Ammazziamolo subito.»
Ed è necessario sottolineare che Asimov era uno dei migliori amici di Harlan Ellison. Figurati cosa ne pensavano i nemici.
Ellison è stato, per le narrazioni di genere, uno scrittore importante e rivoluzionario e, ancora di più, un innovatore, capace di segnare il suo tempo come pochi altri. Nel 1967 è un trentatreenne che ha già vinto alcuni premi prestigiosi: un “Writers Guild of America” per la sceneggiatura di un episodio di The Outer Limits e un paio di premi di settore – un Nebula e un Hugo – entrambi per «Pentiti, Arlecchino!», un racconto intriso di disobbedienza civile (per il quale ha, ovviamente, litigato per un presunto plagio). Successivamente, di premi ne vincerà molti altri, forse più di qualsiasi altro scrittore di fantascienza. Ma il 1967 è anche l’anno in cui curerà «la più significativa e controversa raccolta di racconti»: Dangerous Visions, visioni pericolose, appunto.
L’antologia ospita tutti gli autori anglofoni più importanti della fantascienza degli anni Sessanta del millennio scorso e, grazie alla selezione accurata operata da Ellison nell’accostare scrittori distanti ma ugualmente raffinati, ridefinisce il modo in cui i lettori guardano al genere. Trentatré racconti che sembrano indicare l’arrivo di una New Wave della fantascienza, capace di uno sguardo più attento alla società e alle relazioni tra gli individui e tra i corpi, con speciale riguardo al sesso.
Quegli scrittori arrivano anche da noi, alla spicciolata, su riviste, antologie o nelle collane di fantascienza. Perché i lettori italiani possano leggere Dangerous Visions, però, si deve aspettare l’edizione Mondadori del 1991, che, in anni in cui la fantascienza si è già tinta di cyberpunk, passa inosservata e va presto ad alimentare l’infausta macchina del macero.
Dangerous Visions è il progetto ambizioso di uno scrittore consapevole e dotato di un’autostima fuori misura. L’editore Doubleday stanzia per l’antologia un budget importante, ma Ellison vuole costruire un libro monumentale e, per far questo, è disposto a pagare molto bene gli autori. Decide perciò di contribuire personalmente alle spese, assicurandosi un controllo maggiore sulla pubblicazione e sulla spartizione delle royalties.
L’esuberanza di Ellison lo ha portato a collaborare anche con il cinema e la televisione, col solito strascico di cause civili e di accuse di plagio e distorsione della sua opera. Famosa è la polemica con Gene Roddenberry che aveva parzialmente modificato lo script di Uccidere per amore, che da molti è considerato il migliore tra i 79 episodi della serie classica di Star Trek.
Naturalmente anche il fumetto ha raccontato i mondi di Ellison: ma gli esiti sono stati altalenanti.
La pubblicazione più recente è Sette contro il caos, edito nel 2013 negli USA da DC Comics e in uscita l’anno dopo per RW Edizioni. Scritto dallo stesso Ellison e disegnato da Paul Chadwick, il fumetto nasce dalla collaborazione tra due autori importanti che, a giudicare da questa prova, sono invecchiati male. L’attacco delle vicende narrate mostra la consueta consapevolezza dello scrittore nella costruzione di mondi possibili, popolati da ribelli mossi dall’usuale spirito di disobbedienza civile. Il racconto però incespica – e poi cade malamente – in un linguaggio datato, capace di produrre effetti di comicità involontaria nella sua roboante volontà di rimanere legato alle forme della fantascienza classica. I personaggi faticano a mantenere una parvenza di credibilità mentre affermano: «La tua arma a energia è inutile in un campo materializzato con traslazioni multiple di vettori»; oppure «la mia razza […] ha impresso la sua gloria sull’universo, ma per ragioni che non vi riguardano si è estinta a eccezione di me».
Paul Chadwick, autore che ho amato sulle pagine di Concrete, si confronta con quel linguaggio ampolloso e perentorio e, per ragioni che forse non mi riguardano, costruisce alcune delle pagine meno fumettistiche della storia del fumetto.
Per cercare un lavoro di Ellison adattato a fumetti di ben altro livello bisogna risalire fino a Vic & Blood, in cui si sente forte la zampata del disegnatore, Richard Corben. Il materiale narrativo di partenza è costituito dai racconti della serie A boy and his dog, da cui è stato tratto anche un film del 1975, diretto da L.Q. Jones e interpretato da un giovane Don Johnson.
Corben alle prese con il racconto post-apocalittico costruisce pagine dominate dal nero, su cui stende i suoi colori tridimensionali che fanno esplodere mostri, bestie pelose, umani laceri determinati a sopravvivere e, per la gioia dei lettori testosteronici, le consuete prorompenti forme femminili.
In Italia quella storia è uscita nello stesso anno di Dangerous Visions, il 1991, per gli Editori del Grifo e poi non è stata più ristampata. Tocca cercarla sulle bancarelle, ma questa, per fortuna, si trova.
Ray Bradbury ha compiuto novant’anni il 22 agosto del 2010, due anni prima di morire. In quell’occasione, ha iniziato a girare in rete un video della comica americana Rachel Bloom che è un’esplicita, gioiosa dichiarazione d’amore. Quella ragazza decisamente sexy nella classica divisa da High School non lascia spazio a fraintendimenti cantando: «Fuck me, Ray Bradbury / The greatest sci fi writer in history / Oh fuck me Ray Bradbury». È un video esilarante, anche solo per lo schiaffone tirato alla compagna di scuola con la maglietta con scritto Vonnegut. Che, in quella scuola, sarei stata io.
Bradbury è stato un grande scrittore e un uomo mite e gentile che, per tutta la vita, ha coltivato amicizie solide e durature dentro e fuori l’ambiente della fantascienza e che, per oltre cinquant’anni, è stato sposato con un’unica donna.
Harlan Ellison se ne è andato, a 84 anni, il 28 giugno 2018. Difficile immaginare che se ne sia andato «gently into that good night», per usare le parole di Dylan Thomas. È stato per tutta la vita un uomo litigioso ed egocentrico, che si è sposato cinque volte senza mai smettere di essere, a detta di Asimov, un formidabile womanizer. Il suo ottantesimo compleanno non ha suscitato un entusiasmo analogo a quello del compleanno di Bradbury: ottant’anni di insulti, risse e processi tendono ad attenuare il fascino di un gigante. Ma che quell’uomo piccoletto e furibondo sia stato un gigante non è in discussione. «Rage, rage against the dying of the light».