Quel «tarlo mai sincero» che, come canta Francesco Guccini, sarebbe l’esercizio del nostro pensare, nasce (se dobbiamo credere a Sigmund Freud, ma perché non credergli?) nel momento esatto in cui ci rendiamo conto di avere dei bisogni e dobbiamo trovare il modo di soddisfarli.
Il pensiero è quell’attività rappresentativa con cui diamo forma e immagine, percepibili dalla nostra coscienza, a questi bisogni per cercare poi il modo di soddisfarli. Purtroppo le condizioni ambientali dei sistemi sociali che l’umanità si è costruita, in quasi tutti i tempi e luoghi, sono tali da rendere –spesso, se non sempre – impossibile l’immediato soddisfacimento del bisogno. La nostra necessità (Freud la chiama: principio di piacere) si scontra con il principio di realtà, causandoci un movimento psichico che, sempre Freud chiama frustrazione.
La nostra capacità di metabolizzare questa frustrazione, che ci viene insegnata fin da neonati, è uno dei pilastri su cui si regge questo mondo (che ci piace dire sbagliato, ma che, visto che tutto sommato è l’unico che l’umanità è riuscita a costruire, secondo il pessimismo freudiano forse era anche l’unico possibile).
Attraverso una precisa sintesi di letteratura, musica ed elementi pittorici, il regista Manoel de Oliveira, ha dato con il suo cinema (soprattutto nella tetralogia dedicata all’amore frustrato) un disegno di questo pessimismo. C’è un suo bellissimo film, girato nel 2009 quando è ormai centenario, Singolarità di una ragazza bionda, in cui questa impossibilità di soddisfare il nostro più vivo desiderio (quello di Macario di sposare la bionda Luisa) è raccontata con un pessimismo così doloroso, che per giorni, usciti dalla sala, ci ha messo di malumore.
Malumore dovuto non al bellissimo film del maestro portoghese, ma al fatto che ci ha fatto tornare in mente un brutto film di vent’anni prima, dove tutta questa frustrazione ci veniva raccontata metatestualmente attraverso lo sguardo di Michele Apicella che assiste alla sequenza finale del Dottor Zivago: quella in cui Zivago, credendo di riconoscere per strada l’oggetto del suo desiderio, la biondissima Lara, muore prima di riuscire a raggiungerla. La biondezza di Julie Christie è accecante, e di solito ci fa piangere. Ma lo sguardo morettiano, paradossalmente rispetto alle intenzioni del regista, ci fa da schermo, neutralizzandone tutta la baluginante potenza. Ecco la causa del malumore. Non ci piace che la nostra frustrazione sia così borghesemente neutralizzata. Vogliamo piangerne, o riderne, con tutta la consapevolezza che questo comporta.
Quindi, bando alla tristezza.
Infatti, capita che questo disagio della civiltà, alle volte riesca anche a divertirci. Può sembrare paradossale, ma è proprio così. Prendi, per esempio, l’opera di una delle più grandi autrici francesi di fumetto, bionda (come la Luisa d’Oliveira o come Julie Christie) e che proprio nel 2009, quando esce quel film (è solo una coincidenza, ma ci piace, rilevarla) interrompe la propria attività: sì, è proprio lei, Claire Bretécher (a cui stiamo dedicando questa settimana di QUASI).
Pubblicati settimanalmente, dal 1973 al 1981, su “Le Nouvel Observateur” i suoi Frustrati (più esplicito di così!), raccontano, con un sottilissimo lavoro sul linguaggio e un uso della reiterazione iconica (che meriterebbe studi più approfonditi delle solite tirate sociologiche), attraverso le aspirazioni anticonformiste continuamente frustrate dal principio di realtà del loro conformismo, la vita della classe media francese degli anni Settanta. Grazie al suo sguardo, che di tutta l’opera è il principale motore, è riuscita a comunicare un senso di universalità alle sue cronache e soprattutto a farcene quanto meno sorridere. Instillandoci, tavolo dopo tavola, la certezza che stiamo ridendo di qualcosa che ci riguarda da vicino. La nostra frustrante alienazione.
Nella sorprendente (ma nemmeno tanto, a pensarci) pochezza dei “commossi” omaggi delle fumettare e fumettari italici e dei piagnucolosi “saluti” dei critici di mestiere a Claire Bretécher che abbiamo letto l’anno scorso (ha ragione JC Menu, non le arrivava manco alla caviglia tutta ‘sta gente!), cerchiamo dei nomi che abbiano avuto la stessa capacità di trasformare il proprio sguardo, alimentato dalla consapevolezza di esserne contemporaneamente soggetto e l’oggetto, in una risata. Ci interroghiamo, vogliamo nomi da mettere sul tavolo. Arrivano alla rinfusa e alla spicciolata quelli di A parte Gérard Lauzier, Feiffer, Ettore Scola (in particolare C’eravamo tanto amati e La terrazza, usciti più o meno in concomitanza con la prima e l’ultima uscita dei Frustrati), ci spingiamo fino a Daniel Clowes ed Ellen DeGeneres. Ognuno dei nomi che ci siamo rimbalzati addosso si è dimostrato inadeguato per quel confronto. Troppo cinismo o troppo amore, troppa complicità con i propri personaggi o assoluta sovrapposizione. Lo sguardo di Bretécher non esprimeva giudizi: un po’ commozione e tantissimo distacco, mai e poi mai disprezzo. È questo il motore di quella comicità assoluta e priva di tormentoni, calembour, torte in faccia e ammiccamenti.
È un anello: urge ritornare alla canzone con cui abbiamo aperto, solo per accumulare nuove frustrazioni quando scopriamo che la comicità di Bretécher non «veste da parata» ma neanche «veste una risata».
Questo strano anello è composto da:
- Francesco Guccini, Canzone di notte n.2 in Via Paolo Fabbri 43, 1976.
- Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Bollati e Boringhieri, 1971.
- Manoel de Oliveira, Singolarità di una ragazza bionda, 2009.
- Nanni Moretti, Palombella Rossa, 1989.
- David Lean, Il dottor Zivago, 1965.
- Claire Bretécher, Les Frustrés, edité par l’auteiur, 1996.
- Ettore Scola, C’eravamo tanto amati, 1974.
- Ettore Scola, La terrazza, 1980.
Accompagna la lettura di questo anello, come noi ne abbiamo accompagnato la composizione, con tutti i calici di Bourgogne aligoté 2019 di Antoine Lienhardt che ritieni opportuni a estinguere la tua sete.