Ne stanno parlando un po’ tutti, è il social del momento e tutti coloro che hanno un IPhone lo stanno provando: è Clubhouse e, a detta di chi lo sta usando, è una droga.
Nel fine settimana tra il 30 e il 31 gennaio c’è il botto delle iscrizioni: le room si riempiono di gente che parla e più persone si seguono, più stanze appaiono, e in queste ci si può inserire e, eventualmente, parlare.
L’aspetto che intriga maggiormente è avere la possibilità di parlare con personaggi (intellettuali, creativi, giornalisti) dell’entertainment italiano, parametro che annulla apparentemente le distanze: se su Facebook il personaggio famoso aveva la pagina, se su Twitter poteva non rispondere al follow e se su Instagram il tag non funzionava comunque, Clubhouse dà la sensazione che tutti siano sullo stesso piano. Sarà l’anno pandemico, ma non avevo mai sentito un periodo nel quale si era tutti così uguali, dai balconi all’arcobaleno dell’ “Andrà tutto bene”. Clubhouse si infila in una curva che, come ogni nuova cosa, è pericolosissima, perché ancora priva di regole e, soprattutto, di giurisprudenza.
In tutto questo però, la vita fuori va avanti come, soprattutto, il calcio, dal campionato alle coppe. Per fortuna, aggiungerei.
Sabato 30 gennaio è la giornata nella quale giocano Milan, Juventus e Inter.
Io ho Clubhouse da due giorni ma non ho ancora avuto modo e voglia di capire bene come funziona. Ci provo sabato sera.
“Il Nero e l’Azzurro” è un blog che scopro seguendo Michele Dalai che su Radio2 ha un programma splendido, “Ettore”, e che nel 2013 scrive un libro dal titolo Contro il Tiqui Taca: Come ho imparato a detestare il Barcellona, in un momento storico nel quale i radical chic del pallone esaltano Pep Guardiola e il tiki taka che in quegli anni, tra il 2008 e il 2012, porta la Spagna a vincere due Europei e un Mondiale.
Nipote di Oreste del Buono, i geni non mentono e anche Michele è uno che ci sa fare con un unico difetto per me che tifo Milan: è interista. Il problema è che Michele è un bel tipo, intelligente, bella parlantina, sagace e i suoi scritti appassionati a tinte nerazzurre sono bellissimi. Con lui, una ciurma di “bauscia”, come si definiscono loro, tutti maschi e tutti intellettuali della bella Milano. Penso: è come piace a me scrivere di calcio. Penso: avessimo anche noi del Milan un blog bello così. Ça va sans dire, magari c’è, ma non l’ho mai trovato così, anche solo ironico. Noi milanisti abbiamo tutti quella sindrome da “Invincibili”, i trofei che ha vinto quel Milan hanno forgiato la nostra tempra e, anche se abbiamo vissuto anni difficili, siamo sempre il Milan. Proprio per questo c’è uno snobismo addirittura inappropriato, da Contessa Miseria consoliana, perché, quando hai una storia così grande, ritrovarsi anni dopo con Jeremy Menez e Zapata capitano ha il fascino della decadenza. E così, in uno specchio, non ti ci vuoi proprio vedere. Almeno gli interisti hanno fatto il triplete, hanno vinto alla stragrande, magari meno di quello che avrebbero meritato, ma che diamine!, come hanno vinto!
Seguo “Il Nero e l’Azzurro” dal 2016, praticamente dal loro esordio e li seguo tuttora.
Sabato sera si gioca Inter – Benevento. Mi collego dopo cena. La trasmette Dazn.
Non è ovviamente una partita “di cartello”, al contrario i nerazzurri dovrebbero vincerla facile e rimanere sulla scia del Milan capolista e vincente a Bologna.
Capire Clubhouse è una prova di tentativi e i bauscia ci provano. Il risultato è una forma di divano collettivo di voci che si sovrappongono e che commentano la qualunque: non c’è moderazione, non c’è un filo conduttore, si va a braccio e sembra la partita che vedi al bar quando anche il vecchietto che scataraccia per terra e che insulti quotidianamente diventa il tuo migliore amico.
Vince facile l’Inter che scende in campo con Eriksen, Ranocchia e Perisic che nelle gerarchie di Antonio Conte sono praticamente l’ultima scelta delle ultime scelte. Eppure Eriksen è un giocatorino che al Tottenham di Pochettino (una di quelle squadre che entrano a far parte della storia del calcio romantico anche se non hanno vinto niente) ha dimostrato il suo valore; Ranocchia quando c’era da essere presente, nel bene e nel male, il suo contributo lo ha dato; Perisic magari ha quella pigrizia dei bravi ma d’altronde è il destino degli ex jugoslavi, quella dell’“umìrati ulepòti”, morire nella bellezza (mantra anche del Napoli sarriano): peccato che la bellezza Perisic l’abbia fatta solo intravedere.
I nerazzurri scendono sull’erba del Meazza vestiti con la terza maglia, la casacca che ricorda il famoso modello della stagione 1997/98 con la quale il 6 maggio vinsero la Coppa Uefa contro la Lazio, quella a righe verticali grigie e nere e i numeri gialli sulla schiena. Al King Sport, un negozio sportivo di Senigallia, ne ho accarezzato il tessuto, ne ho soppesato l’intensità del nero e dell’azzurro nei dettagli, e ho, come l’anno precedente con la maglia color verde acqua, vinto la battaglia dell’acquisto non comprandola.
Vince facile l’Inter che segna nei primi 10 minuti e continua poi, aiutata anche dalla maldestra difesa da oratorio di un Benevento che tutto sommato sta facendo bene in campionato.
Il Clubhouse del sabato sera finisce con i saluti dei pochi partecipanti, io ero una delle poche infiltrate.
Torno su Clubhouse martedì nella stanza de “Il Nero e l’Azzurro” per il turno di Coppa Italia, semifinale d’andata con la Juventus. La notifica dell’imminente room mi arriva qualche ora prima.
Quando mi collego la room è già piena, il social sta sfondando giorno dopo giorno e gli imbarazzi di appena quattro giorni prima sono evaporati. O meglio, i bauscia rimangono i soliti amiconi da divano e birra, la partita per altro è decisamente più impegnativa e decisamente importante. Ma l’Inter fa l’Inter e Handanovic fa il “Buonafede”, appellativo affibbiatogli da Pierluigi Pardo durante “Tutti convocati” in un cross over calcio – politica essendo i giorni della caduta del governo da parte di Renzi d’Arabia.
I primi giorni, nell’iperbole di analisi che Clubhouse sollevava (quanto sarebbe durato, che tipo di bolla avrebbe provocato, che struttura avrebbe avuto e se l’avrebbe mai avuta), mi domandavo in che modo le room sul calcio sarebbero state concepite: fondamentalmente sembrava che Clubhouse sostituisse i commenti e gli hashtag su Twitter, ma quelli sono fuorvianti (c’è chi cerca solo il cuoricino e il retweet o vuole fare il simpatico) o che sostituisse il non poter essere insieme allo stadio o al bar con la chiacchiera anche scema.
Inoltre andava in conflitto con le già tante trasmissioni esistenti in televisione o in radio (penso a Radio Sportiva o alle radio della capitale che si dedicano alla Roma) nel senso molto semplice che ci sono professionisti che lo fanno con maggiore competenza di tanti ascoltatori (italiani popolo di C.T., e ultimamente di virologi e di politologi): come avrebbe potuto un social come questo parlare di calcio senza sembrare un Appello del martedì con i Mughini e i Mosca dei poveri?
Poi è arrivato Massimo Caputi (ex telecronista di Telemontecarlo, oggi La7, che commentava le partite con il mai dimenticato Giacomo Bulgarelli) che, contro ogni logica di Clubhouse che invece di base dovrebbe incentivare l’interazione, ha riproposto la struttura del suo podcast “Il calcio non è un giuoco” invitando i suoi colleghi, Adriano Bacconi in primis, mantenendo le distanze dall’ascoltatore comune, non accettando manine alzate e però parlando di calcio come in radio, con una scaletta e un mestiere inequivocabili.
La qual cosa va proprio in conflitto con le regole base di Clubhouse. Alimento il dubbio: era la prima prova per Caputi su Clubhouse e magari dalla prossima puntata (schedulata e in promemoria ovviamente) fa interagire chi è nella room, o forse no, e in quel caso mi domando allora che senso abbia una stanza simile se tanto posso ascoltare la stessa cosa in podcast, in radio o in streaming.
Vengo sbugiardata alla seconda puntata: c’è interazione e Caputi invita gli ascoltatori, li fa parlare e al contrario l’atmosfera è più rilassata, gli interventi (a parte un tifoso barese che dà del pezzo di merda a un giocatore) sono interessanti e nella maggior parte dei casi la gente è emozionata e molto educata. E poi stanno nei tempi, Caputi è bravo e ha già deciso che, da moderatore, si può anche sforare di cinque minuti ma poi ci si saluta.
È venerdì sera. Giocano inter e Fiorentina nell’anticipo del venerdì sera. La partita è muta, ho silenziato Caressa e Bergomi perché ultimamente le telecronache del duo mi infastidiscono.
Alla terza partita dell’Inter in meno di una settimana “Il Nero e l’Azzurro” ha desistito su Clubhouse.
Annotta.
Sul mare di Chiavari la linea dell’acqua ha una luce fluorescente nel contrasto delle nuvole all’orizzonte della giornata di pioggia.
I fari del Comunale si sono accesi sul campo della Virtus Entella. Chissà se la squadra si sta allenando in vista della trasferta con la Reggiana.
Nello scrivere l’articolo l’algoritmo dell’app musicale mi porta ad avere una compilation con gli Ash, gli Smashing Pumpkins, i Radiohead, i Joy Division, i Blink 182 (e i gruppi formatasi dal loro scioglimento, i +44 e gli Angels and Airwaves), i Placebo, tutta roba che ascoltavo quando i social non c’erano, quando avevo vent’anni e quando i vecchi cari Bar Sport erano i Clubhouse di oggi.
Persino Facebook e Twitter sembrano vecchi, stantii, anche solo nelle notifiche della campanella che oscilla. Il contrasto tra la musica negli auricolari – una musica che mi trasporta in un altro mondo, non solo quello dei ricordi ma proprio in una dimensione parallela nella quale tutto è davvero possibile e non solo fantastico – e questa nuova vita interattiva e digitale appare quasi spiazzante, come le scene di guerra o di sparatorie con la musica classica come colonna sonora.
Il saluto e l’attenzione che Clubhouse invece ha suscitato sembra così moderno e chissà che non sia l’ennesima illusione.
Come un bel calcio di rigore.
Tirato bene, ma alto (cit. “I rassegnati”, Tommaso Labbate, Rizzoli).
Rimini 1975, disegnatrice di fumetti, fumettara, illustratrice. Pubblica dal 1999. Qualche titolo: la fanzine “Hai mai notato la forma delle mele?”, le graphic novel Io e te su Naboo e Cinquecento milioni di stelle, il fumetto sociale Dalla parte giusta della storia, il reportage a fumetti scritto dalla giornalista Elena Basso Cile. Da Allende alla nuova Costituzione: quanto costa fare una rivoluzione?.