Articolo apparso in Claire Bretécher. Il disegno del fumetto, a cura di Daniel Arasse, Firenze, Institut français de Florence,1983.
«Interrogé par une télévision étrangère sur la chronique politique qui pouvait le mieux représenter le Nouvel Observateur, j’ai répondu sans hésiter: la page remplie chaque semaine par les dessins de Claire Bretécher…». Così esordisce Jean Daniel introducendo il secondo volume dei Frustrati; qualche riga più sotto precisa: «C’est que je n’ai pas une conception “politicienne” de la politique». Questa frase, che un tempo sarebbe stata “asteriscata” come contraddictio in adjecto, è oggi perfettamente sensata. Lo è almeno dal 1968, epoca in cui il privato ha cominciato a essere considerato (a torto o a ragione) il vero politico.
I filosofi, come loro consuetudine, hanno registrato e persino teorizzato questo slittamento semantico. Nello stesso periodo in cui cominciano a essere pubblicate le tavole dei Frustrati (delle quali mi accingo al occuparmi), e cioè una ventina d’anni fa, escono i libri di Foucault e di Deleuze e Guattari (che sono soltanto la punta emergente di un iceberg ideologico più massiccio), dove appaiono slogan del tipo: «microfisica del potere», «micropolitica», «rivoluzione molecolare», e via dicendo. Foucault dice che il potere deve essere considerato assai più diffuso, e strutturalmente acentrico, di quanto non ritenga la sociologia tradizionale: un potere che passa per i rapporti privati (e prima, magari, per i confessionali), che agisce ovunque e esercitato da chiunque. Contemporaneamente Deleuze e Guattari sostengono che la rivoluzione, ovvero la lotta contro il potere, deve essere, per aver successo e non sfociare infine in nuova repressione, «molecolare» e «schizofrenica», anch’essa mobile, diffusa, non localizzata. Giustamente Baudrillard mette in guardia contro questa coincidenza dei modi del potere e del nonpotere. Ma non si tratta qui di stabilire da che parte sta la ragione, quanto di riconoscere l’emergenza di un paradigma (nel senso di Kuhn) all’interno delle scienze sociali.
In questa rivoluzione epistemologia le scienze umane anglosassoni avevano in realtà preceduto la metafisica francese. Per cominciare c’erano stati gli studi di pragmatica sugli atti linguistici (linea Wittgenstein–Austin–Searle) che bene o male avevano fornito modelli abbastanza esplicativi dei rapporti comunicativi quotidiani, del ruolo del contesta extralinguistico, insomma dell’uso concreto delle espressioni linguistiche. Un secondo corpus di studi, detti ancora di “pragmatica” ma in un senso leggermente diverso, riguarda invece lo studio delle “malattie mentali” intese come disturbi della comunicazione: mi riferisco ai lavori della “scuola”di Palo Alto (California), riunita attorno a Gregory Bateson, e alle applicazioni del suo metodo, per esempio quelle dell’ “antipsichiatria”(Laing-Esterson). Infine si può individuare un terzo blocco di ricerche, quelle propriamente sociologiche di Ervin Goffman o dell’ “etnometodologia” (Harold Garfinkel) sull’intenzione faccia a faccia, sulle maschere in pubblico, sull’etichetta e soprattutto sul fenomeno della riflessività, sui cui torneremo e che per ora definiamo: «Un enunciato non “trasmette” soltanto una certa informazione ma contemporaneamente crea un contesto nel quale l’informazione stessa può apparire». Tutti questi approcci hanno qualcosa in comune: non solo l’oggetto (e cioè gli atti minimi della quotidianità, «la risciacquatura della vita sociale» – the slop of social life — come dice Goffman), ma anche il metodo, che consiste nell’attenzione al rapporto tra messaggio e contesto e ai suoi paradossi. Scopo di questa piccola analisi dei Frustrati sarebbe dimostrare che anche Claire Bretécher va inserita, in un eventuale futuro libro di storia sull’idea di sociale nell’ultimo decennio, in questa bibliografia. Che la loro autrice abbia letto o no Bateson, Goffman e Foucault, la raccolta completa dei Frustrati resta una ricca casistica di psicopatologie della vita quotidiana, analizzate con finezza scientifica oltre che con crudele umorismo.
Secondo Bateson, la schizofrenia consisterebbe nell’incapacità di distinguere tra livelli logici (tra linguaggio e metalinguaggio, letterale e metaforico, serio e scherzoso). Quest’incapacità sarebbe l’automatizzazione di un procedimento di difesa atto a scongiurare i doppi vincoli cui il soggetto è stato ripetutamente sottoposto. «Doppio vincolo» (double bind) è l’ingiunzione contraddittoria che non permette la sua esecuzione. Per esempio la frase «sii spontaneo!» lega doppio colui a cui è stata rivolta poiché chi si comporta «spontaneamente» eseguendo un ordine, di fatto sarà tutt’altro che spontaneo. Un altro esempio canonico è quello della madre che lavando i piatti e piangendo dice alla figlia: «esci, esci pure… vai a divertirti, è giusto alla tua età». In questo caso il messaggio verbale (digitale) è contraddetto da un messaggio d’altra natura (analogico) meno esplicito ma altrettanto forte: le lacrime, che significano.- «non devi uscire perché se no mi addolori». Il doppio vincolo è insomma il ricatto sentimentale, nel quale si scopre però una forma logica verosimilmente correlata casualmente con quella della schizofrenia. Ecco come Laing e Esterson (Normalità e follia nella famiglia) spiegano, sulla scorta dell’intuizione di Bateson, un caso di psicosi:
«Trovandosi in pieno entro questa situazione fatta di giudizi contraddittori, di incoerenze, di conflitti molteplici e complicati, alcuni riconosciuti, altri no, ed essendo nell’impossibilità di vedere la situazione globalmente, dall’esterno, come possiamo fare noi, Ruby non era in grado di formarsi un quadro coerente della relazione che aveva con se stessa e con gli altri, né delle relazioni che gli altri avevano tra loro e con lei.»
Il doppio vincolo occupa un posto importante anche nel repertorio dei rapporti che intercorrono tra i personaggi della Bretécher. Una tavola contenuta nel primo volume dei Frustrati (p. 61) mostra in azione una madre, ovvero l’agente schizofrenogeno per eccellenza nella teoria di Bateson (il quale concede che il doppio vincolo «non sia senz’altro inflitto dalla sola madre, ma che possa praticarlo la madre o da sola o in qualche modo insieme col padre o coi fratelli»). Il doppio vincolo descritto in questa pagina è da manuale: l’ultima battuta della madre contraddice il messaggio globale delle precedenti e vanifica ogni sforzo di obbedienza della bambina (la quale, per sovrappiù, ma forse non a caso, è grassa, bruttina e occhialuta). Un altro esempio da manuale è contenuto nel terzo volume (pp. 50-57). Si tratta di una storia di otto pagine lungo le quali una ragazza, anch’essa bruttina, di nome Chandelle è costretta a «tenir la chandelle» all’amica Marylène. Analizziamone nei dettagli poche vignette. Nelle prime tre Chandelle sempre più infastidita dalla situazione medita la decisione di andarsene. Di fatto la situazione funziona come un messaggio («sei di troppo») e Chandelle non fa che ubbidire. Ma, nella quarta vignetta, ecco l’ingiunzione contraddittoria e con essa il doppio vincolo. Chandelle è costretta a restare. Per di più la costrizione viene fatta passare per una concessione, il che equivale a un altro doppio vincolo. Infine Marylène chiede a Chandelle di dire se per caso non si senta urtata (choquée). E la frase è ancora un doppio vincolo perché da una parte chiede di dire la verità (ovvero una risposta affermativa), dall’altra seppur implicitamente urtata perderebbe la faccia, così risponde. «Choquée Moi? Ha, ha!». Ma lo dice con una specie di ghigno di dolore, perdendo effettivamente la faccia e contraddicendo gestualmente il suo messaggio verbale (il che non è più un doppio vincolo ma, data la sua condizione di vittima, un sintomo patologico). (Le problematiche inerenti al «non perdere la faccia», trattata di passaggio in questa storia dei Frustrati, sono invece uno dei perni del lavoro di Goffman).
Vediamo ancora qualche esempio. A p. 17 del primo volume un borghese illuminato dopo aver deprecato per dieci vignette i «vecchi valori giudeo-cristiani» afferma che per Natale andrà a trovare i genitori: «Il y a une petite messe de minuit adorable dans un vieille église fantastique avec un vrai vieux curé… nous ne raterions ca pour rien au monde…». Un’altra tavola (vol. 5, p. 12) mostra un tipico conflitto di coppia. Lui è muto, depresso e si rifiuta di rispondere a qualsiasi domanda, lei si preoccupa, piange, prende tranquillizzanti. Infine lei domanda: «pourquoi tu ne veux pas me dire ce que tu as?», e lui risponde.- «parce que je ne veux pas te miner avec mes problèmes». Quest’ultima frase dice il contrario di ciò che il suo emittente fa. Ancora un doppio vincolo. Secondo Watzlawick, Beavin e Jackson (Pragmatica della comunicazione umana), esso nasce da:
«una proprietà del comportamento che difficilmente potrebbe essere più fondamentale e proprio perché è troppo ovvia viene spesso trascurata: il comportamento non ha un suo opposto. In altre parole, non esiste un qualcosa che sia un non comportamento o, per dirla anche più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento. Ora, se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare.»
A p. 37 del quinto volume dei Frustrati un intellettuale di sinistra seduto in poltrona fa un lungo discorso sulla necessità del rifluto dei mass media. L’ultima vignetta svela che si tratta di una trasmissione televisiva. In questo caso il messaggio verbale è contraddetto dal contesto in cui occorre.
Oltre agli enunciati non ci sono soltanto i gesti e i silenzi a comunicare: anche il contesto è un messaggio, anzi un metamessaggio capace di attribuire senso al messaggio primario. Chiedere un fiammifero ad uno sconosciuto nel fumoir di un teatro è diverso dal chiederlo in un luogo di appuntamenti equivoci. Goffman, riprendendo il concetto di «inquadramento psicologico» di Bateson, parla di frame, intendendo con questo termine il «sistema di premesse, di istruzioni necessarie per decifrare, per dare significato a un flusso di eventi». Il dramma dei frustrati è quello di muoversi e comunicare in un frame che regolarmente cambia il significato delle loro azioni e delle loro parole. Ma, e qui interviene il fenomeno della riflessività cui si è accennato più sopra, non si deve pensare ad ogni frame come ad un’entità fissa e imposta dall’alto. Certo, molti frame sono di questo tipo: la caserma, la scuola, il cimitero, in generale le cosiddette “istituzioni totali”. Nel caso delle interazioni private, familiari o amichevoli, però «i messaggi palesi che sono stati scambiati entrano a far parte del particolare contesto interpersonale e pongono le loro limitazioni all’interazione successiva». In altre parole, nessuno è innocente.
Secondo Bateson perché si possa parlare in senso proprio di doppio vincolo è necessario che le ingiunzioni contraddittorie che lo costituiscono siano sostenute «da punizioni o da segnali che minacciano la sopravvivenza». È quello che accade in un rapporto madre-figlio, dove la madre ha sul figlio un potere di vita e di morte. Se si accetta questa definizione restrittiva non tutti i doppi vincoli che riempiono la nostra vita e le pagine dei Frustrati lo sono in senso proprio. Tuttavia vale la pena di notare come la forma logica del messaggio contraddittorio sia generalizzata. Per quanto riguarda la vita, ognuno pensi alla propria; quanto alle pagine dei Frustrati cito Daniele Barbieri, che nel suo articolo in questo volumetto definisce così la loro struttura tipica: «una tesi viene costruita e confermata dalla sequenza di vignette e puntualmente smentita dall’ultima». I Frustrati sono tali perché impigliati in una rete di ambiguità, d’ipocrisie, di contraddizioni: vittime e carnefici, comunque patetici, in una socialità essenzialmente nevrotica perché ovunque doppiovincolante.
La scuola di Palo Alto ha prodotto anche altre ipotesi, oltre a quella (che resta comunque cruciale) del doppiovincolo. Per esempio quella che in conflitti di relazione, e in special modo i problemi coniugali, abbiamo come radice un disaccordo nella “punteggiatura” di una stessa sequenza di eventi. Watzlawick & C. ipotizzano che:
«una coppia abbia un problema coniugale di cui ciascun coniuge è responsabile al 50%: lui chiudendosi passivamente in se stesso e lei brontolando e criticando. Quando spiegano le loro frustrazioni, l’uomo dichiara che chiudersi in se stesso è la sua unica difesa contro il brontolare della moglie, mentre lei etichetta questa spiegazione come una distorsione grossolana e volontaria di quanto “realmente” accade nel loro matrimonio: vale a dire che lei critica il marito a causa della sua passività. Se li sfrondiamo di tutti gli elementi effimeri e fortuiti, i loro litigi si riducono allo scambio monotono dei messaggi “Io mi chiudo in me stesso perché tu brontoli” e “Io brontolo perché tu ti chiudi in te stesso “. (…) Se vogliamo rappresentarla con un diagramma (partendo arbitrariamente da un punto qualsiasi) la loro interazione presenta in qualche modo un andamento di questo tipo:
Il marito percepisce soltanto le triadi 2-3-4, 4-5-6, 6-7-8, ecc. in cui il suo comportamento (freccia non tratteggiata) è ‘semplicemente’ una risposta al comportamento della moglie (freccia tratteggiata). La moglie invece punteggia la sequenza di eventi nelle triadi 1-2-3, 3-4-5, 5-6-7, ecc. e vede se stessa soltanto nell’atto di reagire al comportamento del marito (ma non di determinarlo). Claire Bretécher non ci risparmia situazioni del genere, per esempio a p. 37 del primo volume, dove due coniugi si accusano a vicenda di fare il muso: ognuno dei due sostiene di essere la vittima, nessuno dei due è disposto ad ammettere la sua almeno parziale colpevolezza.
A p. 52 del primo volume dei Frustrati due donne meditano sull’educazione ricevuta nel termini dell’antipsichiatria: «quand je vois comment ma mère m’a elevée je me dis que si je ne suis pas schizophrène c’est un véritable miracle…»; «ma mère a vraiment fait tout ce qu’il fallait pour que je sois autistique…»; «et bien sur ma mère en rajoutait dans l’abnégation de facon à me culpabiliser un maximum… ma mère pleurait quand je me disputais avec mon frère…», ecc. Bateson non è citato, ma si parla di Family Life, il film di Kenneth Loach ispirato ai lavori di Laing, e dello psicanalista “infantile” Bruno Bettelheim. La conclusione è «normalement on devrait tre anormales!». Cosa rara nella serie dei Frustrati, questa battuta conclusiva è detta con un sorriso. Sembra proprio che Claire Bretécher voglia prendere le distanze da psichiatria et similia. Ma questa presa di distanza è motivata da fattori metodologici. Se si applica il principio della riflessività, un messaggio non solo riceve senso dal suo contesto (frame) ma contribuisce a modificarlo. Ciò si può dire non solo dei messaggi quotidiani, ma anche delle teorie intese come messaggi. Il fatto che tutti conoscano ormai i principi della psicanalisi tende probabilmente a falsifìcare questi principi: la psicanalisi non solo tenta di spiegare il mondo, ma di fatto lo trasforma rendendo sempre più difficile la spiegazione. Una sorta di “principio di indeterminazione” per le scienze umane. Karl Popper ha parlato di “effetto Edipo “, in riferimento al fatto che le sventure di Edipo derivano da una profezia sbagliata in linea di principio ma capace di modificare il contesto e così di realizzare se stessa. Forse i frustrati che si stupiscono del fatto di non essere schizofrenici e che comunque ne parlano, non sono schizofrenici proprio grazie alle loro conoscenze di psichiatria, alla loro capacità di parlarne. In un’altra tavola (vol 2, p. 37) due genitori preoccupati per l’educazione del loro bambino aspettano con ansia il momento in cui potranno, finalmente mandarlo dallo psicanalista. Si può ragionevolmente presumere che questo bambino, in età adulta, diventerà un autentico nevrotico e proprio a causa del suo prematuro incontro col discorso psicanalistico.
Torniamo alla tavola con le due ragazze meravigliate di non essere schizofreniche. Da una parte, e giustamente, Claire Bretécher sta sdrammatizzando, dall’altra resta il dubbio che in realtà, con la geniale cattiveria che la contraddistingue, voglia sostenere che una «normale nevrosi» è assai peggio (più squallida, almeno, più frustrante) di una vera schizofrenia. Non partecipa in fondo la schizofrenia, nell’immaginario letterario e scientifico del ‘900, del mitico e finanche del divino? Non sarà il doppio vincolo più subdolo minacciare (promettere) ma di fatto non concedere la Santa Schizofrenia? Costringere a parlarne (così com’è avvenuto per la sessualità, secondo Foucault) ma per controllarla, incanalarla, scongiurarla? Ma a questa questione i Frustrati non danno risposta, e neanche io, francamente, sono in grado di darvela.