Le porte degli hotel sono squarci nel nostro quotidiano che ci proiettano in altri mondi. Sia chiaro: le nuove realtà che si palesano non sono necessariamente migliori. Però sono nuove: hanno caratteristiche e regolamenti diversi da quelli cui siamo abituati. In un albergo si vive un’inusuale dimensione spaziale e identitaria, con orari cui adeguarsi, spazi comuni – ascensori, hall, bar, sale da colazione e da pranzo, fino alla palestra, la sauna, la piscina… – da condividere con un vicinato precario e, proprio per questo, potenzialmente meno attento ai delicati equilibri che garantiscono la convivenza nel lungo periodo. Una notte in albergo può regalarci disagi e imbarazzi che fino a quel momento non avremmo considerato possibili: la rumorosissima macchina del ghiaccio accanto alla nostra camera, una comitiva di tifosi scozzesi che bercia nel cuore della notte in corridoio, una coppia troppo focosa in un ascensore che si apre inaspettatamente, un uomo d’affari giapponese che scoperchia una zuppa espressa riempiendo la sala delle colazioni di un odore acre di glutammato che rende difficile ingerire il nostro croissant raffermo e acidulo… (Queste situazioni le abbiamo vissute tutte in prima persona, tranne la coppia che, però, ha documentato il proprio operato così estensivamente su YouPorn da poterla considerare reale.)
Ah… le porte degli hotel. Il modo in cui si aprono racconta la categoria della struttura anche più del numero di stelle riportate nell’insegna. Se c’è un signore in divisa che ti apre la porta, ci sono due possibilità: o frequenti così spesso le patrie galere da chiamarle vezzosamente “albergo”, o hai accesso a posti che noi non possiamo permetterci. Se la porta scorre o gira come un carosello quando la fotocellula ti intercetta, stai probabilmente entrando in un albergo di catena, un posto le cui stanze, tutte uguali, aderiscono a un rigido format, e potresti essere a Lisbona, Tokio, Pavia o Melbourne, senza apprezzare significative differenze. Se invece hai tirato un portone pesante e lo tieni aperto mentre fai passare a fatica il trolley, sei in uno di quei posti che frequentiamo con grande soddisfazione anche noi. Varcata la soglia ti dirigi verso la reception e lì il concierge ti saluta, a volte bonario a volte freddo, ma sempre con grande professionalità, e ti chiede a che nome è la prenotazione. Una volta espletate le pratiche di registrazione, quando finalmente hai le chiavi in mano (di solito una tessera magnetica che userai anche per attivare l’illuminazione della stanza), puoi considerarti ammesso al nonluogo. Da quel momento potrai godere dei pregi e dei difetti di quel posto assurdo e così spesso malfrequentato.
Cosa c’entra, a questo punto, l’amore con il portiere? A parte la coppia in ascensore, dici. Be’, lo sai… Le stanze d’albergo possono essere alcove, luoghi in cui ci si rifugia per trovare una dimensione altra in cui il mondo esterno non può e non deve mettere becco. Uno spazio, costruito attorno a un letto, nel quale riservare attenzione esclusiva all’armonia dei corpi, al piacere, alla tenerezza. Non sempre le relazioni che s’infiammano nelle stanze di un hotel possono essere esibite con tranquillità in strada. Non tutti capirebbero, approverebbero, tollererebbero: la società, la bigotteria, le convenzioni, la tradizione, i nazisti schifosi e, qualche volta, anche i coniugi potrebbero reagire male. Allora ci si affida allo sguardo, a volte bonario a volte freddo, ma sempre professionale, del concierge. Per lui l’amore non ha misteri. Solo un numero di stanza.
Buona domenica.