Uguaglianza

Peppe Liberti | Più per meno diviso |

Studente prima a Oxford e poi a Cambridge, studioso di storia e manoscritti antichi, matematico e medico, Robert Recorde era un tipo tutto d’un pezzo, talmente integro che Edward Seymour, duca di Somerset e Lord protettore d’Inghilterra dopo la morte di Enrico VIII, gli aveva affidato nel 1549 il controllo della zecca di Bristol. Quando Seymour venne deposto da John Dudley, quella testa calda del primo conte di Pembroke, William Herbert, pretese i soldi per finanziare i mercenari tedeschi e italiani impegnati a reprimere la rivolta del “prayer book” in Cornovaglia ma non ottenne nulla, Recorde non aveva intenzione di scucire un denaro se non su ordine del Re. Non si piegò e così lo spezzarono, sollevandolo dall’incarico e chiudendo la zecca. Edoardo VI, che doveva volergli un gran bene – aveva curato i suoi genitori del resto – provò a tenerlo lontano dai guai e lo mandò a gestire le miniere e la zecca d’Irlanda, a Dublino. «Sempre meglio che la prigione», deve aver pensato Robert, «magari questa volta starò più attento». Non lo fu affatto. L’impresa si dimostrò fallimentare e lui non poté far altro che chiudere la zecca, abbandonare le miniere e tornarsene col capo chino a Londra. Il conte di Pembroke, che ancora non aveva dimenticato l’affronto di qualche anno prima, era lì che aspettava il momento giusto per colpire, tramando nell’ombra come il perfetto cattivo dei drammi di Shakespeare, il poeta che avrebbe avuto un William Herbert, il terzo conte di Pembroke, come protettore, per dire quanto è curiosa la storia.
L’occasione giusta arrivò con l’ascesa al trono di «Bloody Mary», intesa come Maria I Tudor e non come cocktail, di cui Pembroke divenne consigliere fidato. Recorde,  che ambiva a riconquistare la sua posizione a corte, ne approfittò per far causa a Pembroke per diffamazione ma ovviamente la perse. Fu condannato a pagare mille sterline, una cifra pari all’importo che avrebbe dovuto ricevere per i suoi servizi in Irlanda e che mai gli era stata versata. Finirà così in prigione e lì, nel 1558, morirà lasciando pochi spiccioli di eredità ai suoi nove figli.

La vera passione di Recorde, quando in vita gli era permesso esercitarla, era l’insegnamento, altro che gestire miniere o denari. Quasi tutti i suoi libri erano scritti in forma di dialogo tra maestro e allievo, veri e propri corsi di matematica, studi a disposizione di tutti, non solo degli uomini colti e dunque in inglese, non in latino o greco come era d’abitudine. In The Whetstone of Witte, la pietra per affilare l’intelletto, pubblicato nel 1557, il libro in cui appare per la prima volta il simbolo =, s’era persino inventato una parola, Zenzizenzizenzic, per rappresentare l’ottava potenza di un numero, il quadrato di un quadrato al quadrato. Il ragionamento che lo aveva portato a questo strambo risultato è lo stesso che aveva condotto il Pacioli a camminare sul cece, inteso come quarta potenza dell’incognita e non come legume. La radice della parola, presa in prestito dal tedesco, è zenzic, in italiano censo, e dunque, come censo, rappresenta il quadrato di un numero. Il quadrato di un quadrato allora è zenzizenzic, il quadrato di un quadrato di un quadrato zenzizenzizenzic, et voilà, ad nauseam.

Nei libri sacri della matematica, i più diffusi all’epoca, l’uguaglianza era espressa per lo più a parole, in latino (aequales) o in tedesco (gleich) o sincopata (ae per esempio). Un centinaio di anni prima della pietra di Recorde però, proprio Regiomontanus, che tanto amava la retorica, aveva introdotto un segno semplicissimo, una linea orizzontale –, gradita persino al principe della sincope Pacioli, che l’aveva fatta sua. Ora sì, certo, una linea connette, stabilisce una relazione ma non dice nulla su quale ne sia la natura, serve qualcosa di più chiaro, che la specifichi meglio. Ci pensa nel 1521 Francesco Ghaligai e nella sua Pratica d’arithmetica afferma che una non basta, che potrà di certo servire a separare i fattori ma niente di più. Se vogliamo affermare che due fattori sono uguali dobbiamo essere decisi, di linee ce ne vogliono tre, così: – – – . Non è una scelta che si possa ricordare, non ci si può costruire una storia, una metafora. «Ecco, ci sono», deve aver pensato Recorde, «perché non i gemelli?» E s’inventa due linee parallele, una sopra e una sotto, le Gemowe lines (dal latino gèminus, che è in numero di due, come Artemide e Apollo): «… per evitare la tediosa ripetizione di queste parole: “è uguale a”, metterò (come uso spesso nel lavoro) una coppia di parallele (o righe gemelle) di pari lunghezza (così =) perché non ci sono due cose che possono essere più uguali». Difficile inventare di meglio ma malgrado ciò nessuno, per almeno un secolo, le userà se non nella corrispondenza privata.All’alba del 1558 il povero Recorde inizierà a sperimentare tra quattro umide mura un diverso tipo d’uguaglianza. «Mai una soddisfazione», deve aver pensato.

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