Probabilmente la mia personalissima antipatia per Martin Heidegger è dettata, in buona misura, dal fatto che dormo. Eh, ridi, ridi! Certo, non lo nego: sono un po’ tardonetto e le mie reazioni cognitive sono spesso intorpidite dalla stanchezza che mi causa una giornata di noioso lavoro e dalle sostanze con cui mi rendo sopportabile quella noia reificante; ma in questo caso intendevo proprio la funzione fisiologica del riposarsi con il sonno. In questa accezione, dormire ho sempre saputo farlo molto bene.
Dormo bene e di gusto, tutte le notti, per quanto grande sia la mia spossatezza, nonostante gli abusi etilico-gastronomici della cena, qualunque sia il problema che dovrò affrontare la mattina dopo.
«Ninna nanna, pija sonno / che se dormi nun vedrai / tante infamie e tanti guai / che succedeno ner monno / fra le spade e li fucili / de li popoli civili», scriveva Trilussa nell’ottobre del 1914. E io credo di essermi sempre attenuto a questo consiglio. Concedermi almeno una manciata di ore al giorno per, come diceva Luciano Bianciardi chiudendo la Vita Agra, non esserci più, è un diritto al quale non rinuncio. Mai.
Il sonno per me non è solo una fuga, è un godimento… anzi, meglio, proprio in quanto via di fuga è uno dei tre godimenti con i quali riesco a sottrarmi a una vita fatta di veglia e lavoro. Non so se Heidegger soffrisse d’insonnia. So che era ossessionato dalla veglia. «Il cittadino che dorme non è solo apatico e alogico, ma anche apolitico e anomico». Ora, a parte il fatto che apatico, alogico e apolitico sono, spero anche a tuo avviso, categorie eticamente più tollerabili di quel che era Heidegger: un cazzo di fottuto nazista di merda; anomico io lo sono eccome.
Aspetta, cosa? Tutti i tuoi amici anarchici ripetono fino a seccarsi le fauci che un anarchico non può essere anomico. Non bisogna far confusione, per carità! Anarchia non significa mancanza di regole, anzi! Essere anarchici significa sentire dentro di sé il più alto principio etico e non avere bisogno di norme codificate, perché le norme etiche, quelle che distinguerebbero ontologicamente l’umanità dal mondo animale, fanno parte del nostro bagaglio genetico.
Spiace dirlo, ma se il principe Pëtr Alekseevič Kropotkin è stato un grandissimo geografo e un buono storico, le sue teorie biologiche (‘sta mania degli anarchici di avere un’idea su ogni cosa!) mischiate a un’etica kantiana d’accatto, non hanno mai avuto nessun riscontro nella realtà.
Io sono… cioè, credo di essere… anarchico, e dentro di me ho solo un odio senza requie per tutte le regole (persino quelle degli scacchi, figurati: mai capito perché non posso spazzare via tutto con una manata e dichiarare unilateralmente la mia vittoria), che però rispetto vigliaccamente: andare, camminare, lavorare e quel cazzo di cavallo che muove due avanti o indietro e uno a destra o sinistra. Altro che legge morale, altro che spinta biologica al mutuo soccorso, ho l’inferno dentro di me! E nessun cielo stellato sopra di me. Io vivo in città, nella città più inquinata del paese, che è anche però – in un’ottica internazionalista – in quanto città il luogo (che non cambierei con nessun altro luogo lungo tutto lo stivale) che mi ha insegnato a gestire quell’inferno e che il mutuo soccorso non è una legge biologica, quanto una necessità sociale. E questo l’ho imparato perché nel cielo della città in cui vivo le stelle non si vedono mai, e bisogna farsi luce a vicenda.
Per vedere le stelle, occorre andar per boschi, là dove, oltre alla chioma degli alberi, il cielo è limpido.
Heidegger dice che amava i boschi e i loro sentieri. In realtà si era ritirato nella Foresta Nera per mettersi in salvo dopo la caduta del nazismo, e nascosto tra gli alberi, dal pusillanime che era, ci resterà fino al 1949, quando Karl Jasper (perfettamente al corrente delle compromissioni del vecchio Martin con il nazismo, ma soprattutto nonostante quello che il nazismo aveva fatto passare a lui) lo richiamerà all’insegnamento accademico.
Con il suo ritorno all’università, Heidegger riprende anche a pubblicare. Per uscire dal sottobosco in cui si era rifugiato e mostrarsi alla luce del sole, deve dare un’imbiancata al suo pensiero, cancellarne alcune conseguenze in sintonia con il vecchio ordine suprematista. L’idea, ammettiamolo, è geniale: non parlavo degli uomini, parlavo del loro linguaggio.
Qualcosa esiste, dice Martin e io te lo riassumo proprio alla brutto dio, solo in quanto è il correlato di un atto che ne pone l’esistenza. Se esistesse qualcosa che non si manifestasse in un atto intenzionale di cui nessuno sappia nulla, sarebbe un’assurdità. Una cosa fa parte del mondo solo nel momento in cui di essa siamo in grado di interpretarne la funzione pratica attraverso una serie di rimandi. Nei saggi dei Sentieri Interrotti, e in particolare nel secondo: L’epoca dell’immagine del mondo, Heidegger aggiunge il particolare che l’atto che fonda l’esistenza di un ente è il linguaggio. Quando vogliamo dare un giudizio su quell’ente non possiamo affidarci alla percezione, ma alla pratica: cioè alla struttura linguistica di continui rimandi che costituisce il mondo storicamente determinato.
Beh, dirai, cosa ci trovi di sbagliato in una simile episteme? Perché un simile sistema funziona solo se lo liberi da ogni metafisica, cosa che il vile Heidegger non ha mai voluto fare. Se, come diceva, il linguaggio è la casa dell’Essere, noi non siamo però dotati di un linguaggio adeguato per dirlo. Figurati, questo linguaggio gli mancherà persino per scrivere la terza parte di Essere e tempo, che resterà un’opera incompiuta.
Ecco, a me ‘sta cosa, che l’unico che ha il linguaggio per dire il mondo è una specie di dio, che noi non possiamo conoscere, mi sembra una scusa utile per non dire niente sul mondo di merda che grazie alla cinica viltà di tutti gli heidegger che ne abitano le università, resterà sempre un mondo di merda. In poche parole, per Heidegger l’uomo non è colui che dice il mondo, ma è il giocattolo dell’Essere.
Matthias Schulteiss l’unica cosa che ha in comune con Heidegger è il fatto di essere tedesco. Non so se lo abbia letto o meno, ma quando realizza Talk Dirty, nel 1991, pone con forza, attraverso il linguaggio della pornografia – probabilmente il più adatto (Heidegger non poteva prenderlo in considerazione) – e delle immagini, l’idea che siano gli uomini e le donne a giocare con l’Essere, risolvendo se stessi nella propria esistenza.
In un tempo futuro indeterminato, in cima a una gru che, come una cattedrale gotica, si staglia nera contro il livido cielo di un porto commerciale, un uomo e una donna praticano sesso estremo fino allo sfinimento. Poi, poco a poco, arriva il sonno. Mentre l’uomo dorme, la donna scende dalla gru e ne risale accompagnata da un terzo personaggio, che si rivelerà essere una sua amica transgender.
Da questo momento comincia la seconda parte del fumetto, in cui attraverso una struttura pornografica tra le più esplicite che io abbia mai guardato, i tre perdono ogni possibilità di essere interpretati come essenze determinate. Non sono più Esseri, ma Eventi che si succedono nel tempo scandito dalle vignette.
Povero Heidegger, avesse letto fumetti, si sarebbe accorto che se non un linguaggio (sono convinto che il fumetto non lo sia) una scrittura (sono altrettanto convinto che il fumetto sia esattamente questo) per dire l’Essere e addirittura e finalmente liberarsene, c’è eccome. Magari riusciva pure a conclude il suo Essere e tempo.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.