Socchiudo gli occhi.
Ho alzato lo sguardo osservando un cielo azzurro di fine primavera, respirando l’imminente arrivo delle temperature quasi estive.
L’immagine di me stessa a diciassette anni mi vuole ricordare con quella sfacciataggine che solo a quell’età si può avere dipinta in volto, con tra le dita una sigaretta fumata noiosamente nell’attesa che quella domenica svolti in qualcosa di interessante invece che scivolare nel dimenticatoio della memoria. Ma a diciassette anni io non fumo ancora, inizierò poi e smetterò pure, tutto racchiuso in venticinque anni, e rinfrescata dall’aria che entra dal finestrino del maggiolone ondeggiando i miei capelli lunghi osservo scorrere la città.
Non è più tempo della discoteca nel pomeriggio, al Cellophane la stagione volge al termine preparandosi a quella estiva, ma nessuno ha voglia di ballare, non con quel caldo, non chiudendosi ancora dopo essere stati costretti per tutto l’inverno.
Il tepore del sole, il bellissimo tedio del perdere tempo senza sensi di colpa.
All’improvviso il piazzale dello stadio, qualche Fiat Tipo e Uno, qualche berlina squadrata, tante Panda, c’è anche un Ape verde scuro.
Il Romeo Neri ha, nella sua facciata d’entrata, tutta l’architettura razionalista che comunemente viene chiamata fascista tipica del periodo nel quale è stato eretto, quel lontano 1934 che lo vedeva chiamarsi Littorio per diventare a guerra finita Comunale e, infine, Romeo Neri come lo conosciamo oggi, dedicato al primo ginnasta riminese che partecipò a un’Olimpiade. Nella parete con la scritta biglietteria due delle tre finestrelle davanti alle quali tre corridoi divisi da altrettante balaustre sono chiuse. Nella terza, aperta, un signore canuto legge il giornale, annoiato dal pomeriggio sonnacchioso e dai due, tre urlacci del poco pubblico pagante che arrivano dall’eco delle tribune vuote. Strabuzza gli occhi a una notizia eclatante, si aggiusta gli occhiali e la cordicella che li tiene legati alle asticelle oscilla.
Quando mi avvicino li lascia pendere sul petto e il biglietto d’ingresso per la tribuna distinti che stacca dalla risma è il numero 43, al modico prezzo di 16.000 lire.
Annoiata come il signore alla biglietteria quel giorno, la mia giornata lavorativa è finita o almeno sento il bisogno di staccare: niente di meglio che preparare le verdure e un bel bicchiere di vino. È troppo presto per il Tg delle 20 e allora alle 19 c’è il Tg3 e poi il TgR.
Quando al TgR l’assessore alla cultura di Pesaro annuncia la straordinaria candidatura di Pesaro a Capitale della Cultura italiana 2024 mando subito un vocale a un’amica pesarese. Di solito gli anni che precedono la scelta sono pieni di eventi e possibilità, proprio per preparare la città a futuri investimenti e riconoscimenti. Mi risponde scettica: il binomio Pesaro/Cultura è una delle cose più lontane che esistano, per tutte le volte che per trovarne un po’ è dovuta traslare in altri comuni, inclusa la vicina Fano.
Qualche settimana dopo un’altra amica mi manda lo screenshot della pagina del “Corriere di Romagna” che nel titolo annuncia alla stessa competizione anche la città di Rimini. Avevo letto qualche commento degli intellettuali riminesi nei giorni successivi ma non avevo capito se erano commenti a caso o se relativi a una vera e propria candidatura: l’articolo invece la certifica.
La rivalità tra Rimini e Pesaro è qualcosa di così atavico che quasi si perde nelle origini: c’entra indubbiamente la casata dei Malatesta e il regno del Montefeltro per cui nemmeno a perderci tempo. Ci si mal sopporta da secoli, nell’era moderna del secolo scorso la suddetta è arrivata al culmine un po’ in tutte le categorie: il mare è più bello a Pesaro ma la spiaggia è più bella a Rimini, il castello è più bello a Rimini ma a Pesaro ci sono mura e rocca che non hanno nulla da invidiare, nel basket la Scavolini dell’epoca d’oro se la batteva bene con la Marr e nel calcio il Rimini di Bellavista ha giocato contro la Juventus in Serie B mentre la Vis ha sempre galleggiato nei campionati minori, Rimini ha avuto Fellini e le discoteche, i pesaresi non ce li vogliamo ‘che ci bastano i sammarinesi, insomma c’era sempre un motivo per polemizzare. Motivi futilissimi per altro, dettati da confini nei quali oggi, un oggi globalizzato, cedono tutti i provincialismi possibili.
Nemmeno i colori si differiscono rendendo spesso ridicola questa rivalità: il Rimini ha la casacca a scacchi bianchi e rossi, la Vis la maglia a righe biancorosse, ma la vera presa in giro sono i numeri di entrambe le squadre, quel blu che li rende più visibili.
L’ennesimo derby in questo nuovo decennio sorprendentemente arriva dalla cultura, aspetto che in effetti, da riminese, posso confermare che ha spesso lasciato a desiderare.
Le tribune erano blocchi di cemento grezzo che l’amministrazione non aveva nessuna intenzione di rendere più graziosi e comodi. Più di un decennio dopo ci sarebbe stato un Presidente visionario che avrebbe cambiato volto e storia ai colori biancorossi dei delfini riminesi e a rendere quelle tribune passerelle, appuntamenti e ricordi. Ma nel 1992 in quel caldo giorno di maggio, io e il mio compagno dell’epoca salivamo i gradoni della tribuna in mezzo a un piccolo e nutrito gruppo di anziani, molto ligi alle bestemmie e allo sputo facile.
Il turpiloquio che ascoltai quel giorno è ancora qualcosa che porto dentro di me, non perché non fossi completamente presa dal Milan, ma dal fatto che mi domandavo se quella tigna l’avrei avuta anche io da anziana. Non serve nemmeno che arrivi ad avere tutti i capelli bianchi, bastano le tempie imbiancate dei 45 per rispondere: no, non l’avrei avuta, al contrario, l’avrei persa un giorno di agosto, con van Basten vestito d’una camicia rosa e un improbabile giubbotto di renna su jeans azzurro chiari che faceva il giro di campo al Meazza salutando il suo (e il mio) addio al calcio.
L’andata era stata giocata al Tonino Benelli in una domenica fredda e nebbiosa. Era l’8 dicembre 1991 e l’Italia del 1991 era il paese nel quale la Banda della Uno bianca terrorizzava la regione Emilia Romagna, il PCI si era sciolto nel febbraio dello stesso anno mettendo fine a una storia più che cinquantennale, le avvisaglie della Guerra “silenziosa”, quella dei Balcani dell’ex Jugoslavia, era questione di mesi, l’URSS si sgretolava piano piano mentre ogni giorno di agosto ogni paese dichiarava la propria indipendenza ed era l’Italia nella quale, nemmeno quindici giorni prima di quell’8 dicembre, se ne andava Freddy Mercury per AIDS, la prima vera pandemia della mia vita.
Diciamo che se non si stava come d’autunno sugli alberi le foglie, si stava come un aprile all’Hotel Raphael nel mezzo di un lancio di monetine e tutte le presunte certezze crollavano nel tintinnio a terra di quelle stesse monetine sul ciottolato.
Ecco perché ci si attaccava a derby come Rimini – Vis Pesaro, le poche, vere, sane certezze e sciocche rivalità.
La partita al Benelli vedeva vincere il Rimini con una rete di Tani, le cronache del tempo raccontano di una partita monotona, del trend di risultati favorevoli al Rimini, di quelli negativi per la Vis e che la partita non aveva narrato niente che in teoria non si sapesse già dal fischio d’inizio.
Il ritorno invece non solo vedeva me sugli spalti in mezzo ad anziani umarell bestemmiatori, non solo un bel sole di maggio al posto del cielo dicembrino, ma vedeva anche il tutto rovesciato: Rimini messo malissimo e Vis invece in buona forma, tanto da segnare un gol per tempo e portarsi a casa il derby fuori casa. Che poi è quello che ricordo, una partita noiosissima con un Rimini inconcludente e una Vis non messa meglio ma efficace nelle occasioni sotto rete. Ma si vociferava che il Rimini fosse ogni stagione una squadra abbastanza buona per la categoria, forse anche per quella superiore, la agognata C1, ma salire in alto costa e, si diceva, che la società faceva in modo di far fare un buon girone d’andata, mettere punti in cascina, e poi vendere tutti e arrivare alle partite decisive spompati e privi dei giocatori migliori. O almeno, questo era quello che si origliava al Bar Sport tra una briscola e una Tassoni.
Ricordo i miei jeans col taglio a sigaretta azzurro chiari, le mie scarpe di trame intrecciate (com’eravamo così novecenteschi, scarpe estive che prendevano il posto di quelle invernali mentre oggi quasi la stagionalità del guardaroba non esiste più), la mia maglietta a nido d’ape color crema, un fascio di capelli lunghi e mossi e una pelle talmente tonica in volto che a immaginarmi così giovane quasi non ci credo di esserlo davvero mai stata.
Non esiste più nulla di allora.
Non più certo gli umarell bestemmiatori, pace all’anima loro.
Il Rimini galleggia in Serie D giocando contro squadre come il Real Forte dei Marmi Querceta, la Vis gioca la Serie C girone B in compagnia di antiche glorie come Modena e compagini come Carpi che ha accarezzato la A, Ravenna, Arezzo, Feralpisalò e che vede nuovi derby regionali con Fano e più a sud Sambenedettese, Fermana e Matelica.
Anche le città sono diversissime dagli anni Novanta: ora sono cittadine turistiche di richiamo, ricche, qualche evento dal passaggio o traguardo del Giro d’Italia a vari sport nei propri palazzetti (il focolaio di covid-19 a Pesaro nella prima ondata fu causato proprio dalle Final Eight di basket dal 13 al 16 febbraio 2020) e curiosamente tra i tanti monumenti di chiara origine romana che accomuna ancora di più le due città, un paio di opere dello stesso artista.
La si scorgeva in fondo all’inquadratura della televisione, nel rettilineo del traguardo di Pesaro dell’ottava tappa del Giro d’Italia 2019, laggiù, che ergeva nella piazza che guarda il mare, Piazzale della Libertà, una palla di bronzo fuso chiamata ufficialmente Sfera Grande. Un triangolo invece, sempre di bronzo fuso, La Grande Prua, anch’essa appoggiata su uno specchio d’acqua all’entrata del cimitero di Rimini, sotto le tombe di Federico Fellini e Giulietta Masina (sembrerebbe con l’aggiunta di quella di Sergio Zavoli) immortalata quasi sempre nelle fotografie.
Due città, due opere, un unico scultore: Arnaldo Pomodoro.
Anche io ho qualche anno in più e di derby Rimini – Vis Pesaro non ne ho più visti allo stadio. Ma so che quello della cultura sarà decisamente meno noioso di quel lontano giorno di sole maggese.
Rimini 1975, disegnatrice di fumetti, fumettara, illustratrice. Pubblica dal 1999. Qualche titolo: la fanzine “Hai mai notato la forma delle mele?”, le graphic novel Io e te su Naboo e Cinquecento milioni di stelle, il fumetto sociale Dalla parte giusta della storia, il reportage a fumetti scritto dalla giornalista Elena Basso Cile. Da Allende alla nuova Costituzione: quanto costa fare una rivoluzione?.