Qual è il dito più lungo della tua mano?

Francesco Barilli | Il tradrittore |

Protagonista: un giudice, nel 1997.

Ha detto:

«Per quell’uomo nessuna pena poteva essere peggiore di quella che si era già inflitta da sé.»

Voleva dire:

«Nessun colpevole può essere assolto dal tribunale della sua coscienza.» (aforisma di Giovenale)


Nel 1997 sono stato giudice popolare in Corte d’assise a Milano, per circa sette mesi. In quel ruolo seguii tre processi per omicidio. Di quel periodo ricordo i miei “colleghi con la fascia tricolore”, ma soprattutto l’atteggiamento del presidente e del giudice a latere. Non davano l’impressione di provare fastidio verso la nostra incompetenza, la nostra ignoranza in materia legale. Al contrario, forse a loro volta stimolati da un gruppo che sembrava avere voglia di conoscere e capire, i due componenti togati del collegio fecero di tutto per renderci partecipi a pieno titolo di cosa significasse “amministrare la giustizia”.
Per un anarchico come me questo non bastò a farmi cambiare idea sulla giustizia dei tribunali, ma fu sufficiente a rendere l’esperienza stimolante. Quei due magistrati erano uomini onesti, rigorosi, equilibrati. Uno di loro, durante una pausa davanti a un caffè, mi raccontò un aneddoto.
Ecco le sue parole, per come la mia memoria può ricostruirle. Vorrei tanto che pure tu le conoscessi senza mie interferenze.

Un uomo aveva ucciso il figlio della compagna, gettandolo dal balcone come perversa forma di vendetta verso la donna. Prima lo aveva narcotizzato, (qualcosa nel caffelatte, mi sembra) e poi lo aveva lanciato nel vuoto. Si era professato innocente, sostenendo la tesi di un tragico incidente. Il fatto risale a qualche anno fa, io era ancora pubblico ministero. Convinto della sua colpevolezza, avevo chiesto l’ergastolo, ma il tipo era stato assolto in primo grado per insufficienza di prove.
Prima del processo d’appello, l’uomo aveva chiesto di incontrarmi, invitandomi nella sua abitazione. Era una cosa totalmente irrituale, non avrei dovuto accettare, ma qualcosa mi aveva dato da pensare. Al telefono, la voce del presunto omicida (“presunto” per correttezza deontologica e procedurale, non certo nella mia opinione) era intervallata da respiri profondi. L’uomo non sembrava semplicemente vicino alle lacrime, non era un’emozione definita a dettare quei sospiri, ma qualcosa che poteva essere definito più propriamente “fatica”. Insomma, come pubblico ministero, ma anche come uomo pragmatico, sapevo quanto quella proposta fosse strana, e per me accettarla era scorretto, persino pericoloso. Ma sentivo che si trattava di un’occasione unica per risolvere il caso di un omicidio, tanto più odioso e atroce perché la vittima era un bambino.
Quando entrai nel suo appartamento potevo aspettarmi molte cose, tranne ciò che davvero trovai. Con un pennarello rosso, l’uomo aveva scritto la sua confessione direttamente sulla parete davanti all’ingresso. Cominciava con “io sottoscritto, nel pieno possesso delle mie capacità mentali…” e proseguiva con un italiano asciutto ed essenziale. Proprio come piace a noi magistrati: i fatti nudi e crudi, con indicazione di orari e modalità, senza concessioni a commenti o sentimenti. Che quell’uomo fosse stato «nel pieno possesso delle proprie capacità mentali» mentre scriveva poteva essere dubbio, ma sull’attendibilità del racconto avrei scommesso tutto: le cose erano andate così, l’avevo sempre saputo. L’avevo sostenuto nel primo processo, dove mi era sembrato giusto chiedere l’ergastolo (pena da cui sono moralmente distante) per l’assassino di un bimbo di soli nove anni.

Torniamo a noi.
Il pm in appello chiese e ottenne una pena molto minore, proprio a seguito della confessione. Chiese anche che al colpevole fossero riconosciute non so quali attenuanti e si interessò affinché in carcere gli fosse garantita assistenza psicologica (ora non ricordo: cose del genere). Mi raccontò che tutto questo provocò un forte risentimento nei suoi confronti da parte dei familiari della vittima.
Non rammento neppure a quanto ammontasse la pena. Sono passati diversi anni dal racconto del magistrato, rendendo i particolari vaghi nella memoria. Insomma, tanti dettagli mi sfuggono e anche se li ricordassi nitidamente li avrei cambiati per mille motivi. Il non rendere quella vicenda eventualmente riconoscibile è uno di questi, ormai non il più importante.
Gli domandai perché avesse deciso, dopo la confessione, di chiedere una pena ridotta. Volevo sapere se si trattasse solo di un tecnicismo (una piena confessione, avevo imparato proprio durante l’esperienza in Corte d’assise, è sempre elemento a favore dell’imputato) o se ci fossero altri motivi, come immaginavo.
«L’ho fatto perché per quell’uomo nessuna pena poteva essere peggiore di quella che si era già inflitta da sé», rispose. In sostanza, avrei scoperto più tardi, una rilettura personale e forse persino inconsapevole di una frase di Giovenale: «Questo è il primo dei castighi: nessun colpevole può essere assolto dal tribunale della sua coscienza.»

L’episodio è rimasto nascosto nella mia memoria fino a quando ho saputo che argomento della settimana era “sentieri interrotti”. In realtà non so se possa essere inscritto appieno nel tema, forse cercavo solo una scusa per farlo uscire. Però mi ha sempre colpito. Perché parla davvero di percorsi spezzati. Quello del bambino, certo, ma pure quello della madre e dell’assassino. E la scelta del Giudice, che all’epoca del fatto rivestiva il ruolo di pm, mi sembra tuttora dimostrazione di un’umanità che, nell’occasione, non si preoccupò di dimostrare che il proprio dito più lungo fosse l’indice accusatore, riconoscendo la propria impotenza di fronte a fatti più grandi di noi.

P.S.: il titolo è tratto, molto liberamente, da un verso di Sogno numero 2 di Fabrizio De André da Storia di un impiegato.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)