Il formato, nel fumetto, è tutto. La scelta della carta e della legatura, il peso della copertina, le dimensioni della pagina, la qualità della stampa, la lucentezza degli inchiostri, … Elementi materici e concreti, che percepiamo con i sensi, cambiano l’approccio del lettore al racconto. Certo, questo è vero per tutto ciò che viene veicolato dalla carta stampata e, nel 1945, imbattersi in Per chi suona la campana a puntate sul “Politecnico” garantiva un’esperienza radicalmente diversa dalla lettura del medesimo romanzo uscito in volume per Mondadori: quel formato da quotidiano (lo stesso de “L’Unità”) e la brevità dei capitoli costringevano il lettore del settimanale di Vittorini a posture e aspettative completamente diverse da quelle di chi aveva tra le mani il libro.
Ho incontrato per la prima volta Sammy Harkham sul finire del 2004. Era sulla copertina del settimo numero di “Black”, una rivista indistinguibile da un libro, edita da Coconino, che amavo molto. Il volume proponeva la consueta infilata di bellezza inattesa: articoli su Edward Gorey, Tim Burton e Seth, fumetti di Leila Marzocchi, Michelangelo Setola, Massimo Giacon, Elfo, Alberto Pagliaro e Alessio D’Uva, David B., Yoshihiro Tatsumi, Sergio Ponchione e Giacomo Nanni, addirittura un’illustrazione bellissima (in quarta di copertina) di Antonio Marinoni che avrei ritrovato diversi anni dopo in un picture book che considererei un capolavoro, se solo l’editore avesse avuto il coraggio di mandare le immagini a spasso da sole, senza sentire il bisogno di farle accompagnare da un sacco di parole che raccontavano una storiella ridondante.
In mezzo a tutto quel bendidio c’era Poor Sailor, un fumetto bellissimo bisbigliato da Sammy Harkham, un autore di cui – come la maggior parte dei lettori – non avevo mai sentito parlare.
Igort, che era il direttore editoriale della casa editrice e della rivista, nella nota introduttiva spiegava di aver scovato quella storia tra le pagine di un oggetto cartaceo stranissimo: un tomo antologico, privo del titolo e dei nomi degli autori, in cui spiccava quel gioiello. Il volume era il quarto numero di “Kramers Ergot”, l’autoproduzione di Harkham, che, dopo tre albetti, aveva deciso di abbandonare il formato “comic book” per atterrare su un modulo diverso da tutto quello che avrebbe circondato le sue pubblicazioni. Igort, presentando la sua scoperta, scriveva: «Sammy racconta storie semplici e toccanti, ma nelle vignette, così spoglie quasi goffe, c’è la sapienza antica di chi ha compreso che in un quadratino di carta si può far crescere la vita».
Leggere Poor Sailor, che è una storia piena di dolore e di morte, dava proprio quell’impressione: un racconto gigantesco che avanzava a piccoli passi felpati, riducendo tutto all’essenziale. Nessuna ridondanza e nessuna concessione al lettore. Se si fosse distratto solo per un attimo, avrebbe perso sensazioni vitali per godere appieno della narrazione.
Non ho mai sfogliato il quarto numero di “Kramers Ergot” – non ricordo di aver mai sfogliato alcun numero di quella rivista, a voler essere onesto – e non ho idea di che forma avesse Poor Sailor su quelle pagine. Su “Black” era proposto con una gabbia di quattro vignette quadrate raccolte al centro del foglio e contrapposte al quadratino nero, posto sul bordo inferiore, in cui spiccava il numero della pagina. Un sacco di bianco in cui perdersi, come nel mare del povero marinaio.
Quante emozioni. Quante lacrime. Quante riletture.
Nel gennaio del 2006 sono ad Angoulême in occasione del festival del fumetto. Ricordo tre momenti felicissimi di quella gita.
Georges Wolinski, che l’anno prima aveva vinto il “Grand Prix de la ville d’Angoulême”, era stato insignito – come di consueto – della presidenza annuale del festival. Mettendo a frutto quella carica, aveva deciso che si dedicasse una mostra a Guido Buzzelli. Non so dire se mi abbiano emozionato più le pagine straordinarie esposte o lo sguardo commosso di Wolinski che ho rubato incrociandolo casualmente di fronte a quelle meraviglie.
Mentre Michele Ginevra e io passeggiavamo per la città, ci siamo imbattuti in una galleria che, al di fuori della programmazione ufficiale del festival, ospitava una mostra straordinariamente ricca e articolata di pagine e disegni di George Pichard. Mentre guardavo, con un’ammirazione che, per anni, Michele ha definito “imbarazzante”, gli originali di Bornéo Joe, una bella signora mi si è avvicinata e mi ha chiesto, in francese, se mi piacessero. Ho risposto, in italiano, qualcosa che suonava come «Caspita! Sono meravigliosi!». Mi ha teso la mano con un largo sorriso «Danie Dubos, quelle pagine le ho scritte e colorate io.»
Infine, mentre giravo per uno stand dedicato agli editori più piccoli (non ricordo quale, mi pare fosse nello stesso spazio in cui erano raccolte le autoproduzioni), su un banchetto ho visto un librino quadrato. Conoscevo quel titolo e quell’autore: Poor Sailor di S.A. Harkham. Ho preso in mano l’oggetto – copertina rigida, legatura a filo, carta avoriata uso mano ad alta grammatura, bicromia lievissima e mai invasiva, stampa ottima – e non l’ho più lasciato.
Lo sto sfogliando anche in questo momento. È la stessa storia pubblicata sul settimo numero di “Black”, solo in inglese e riprodotta con un solo quadretto per pagina. La costruzione di Harkham per sottrazione, viene privata, in questa edizione, anche della struttura ritmica che si ottiene giustapponendo le vignette sulla pagina. I quadretti, tutti uguali, scandiscono la storia, una pagina alla volta. Quel fumetto ha trovato la forma perfetta e l’emozione che ancora avevo addosso per la lettura di quella storia si intensifica. Tutte le volte che richiudo quel libro, mi resta addosso una tristezza profonda in cui è bello acciambellarsi. L’emozione che porta al pianto agisce con meccanismi simili allo scoppio ilare. Una barzelletta fa ridere la prima volta che la si sente – se fa ridere – perché gioca con la sorpresa. Le lacrime sgorgano da un dolore inaspettato: è difficile piangere la seconda volta per la stessa storia, per lo stesso dolore. Quando succede, vuol dire che quella storia sta parlando di te e che quel dolore è il tuo. Alla fine, sono costretto ad ammetterlo: il povero marinaio sono io.
L’edizione successiva di Poor Sailor è in un volume che raccoglie i fumetti brevi di Sammy Harkham. Il libro si chiama Everything Together: Collected Stories e l’ho comprato appena è uscito, senza attendere l’edizione italiana (Golem Stories, pubblicata pochi mesi dopo l’edizione inglese). Ritrovare la storia che amo montata nuovamente con quattro vignette per tavola, su un volume con pagine più grandi di quelle di “Black”, mi causa disagio. Non riesco a guardarla. Quel libro mi crea fastidio e, per tenere a bada le mie idiosincrasie, l’ho infilato in una scatola e portato nel box in cui tengo i libri che, per questioni di spazio, non riesco a tenere a casa. Continuo ad accarezzare la copertina del librino quadrotto.
Duccio Boscoli è un narratore di classe. Costruisce, per Feltrinelli, alcune delle grafiche di copertina più interessanti dell’editoria italiana e ha fatto qualche fumetto. Già, è un fumettista un po’ riluttante: quando ti racconta il suo rapporto con il fumetto ti dice che a lui disegnare non piace mica tanto. Forse posa, ma non credo. Pur non piacendogli, disegna. Evidentemente, perché gli serve. Dopo anni che non vedevo un suo fumetto, un post su Facebook mi dice che è uscito Loretino: Marcia funebre per un pappagallo. Mi fido di Duccio e acquisto il libro prima possibile perché ce ne sono solo trecento copie e ho paura che, in tempi di pandemia, spariscano in fretta. Dopo un paio di settimane, il piego di libri arriva nella mia cassetta della posta.
Un librino piccolo, quadrotto, con copertina con bandelle, legatura a filo, carta uso mano ad alta grammatura, un uso di retini grigi che mi fa sospettare di essere di fronte a una bicromia lievissima e mai invasiva, stampa ottima. Poi leggo questa storia, costruita per sottrazione, un quadretto per pagina, con un ritmo interno preciso, da grande narratore. Una storia piena di dolore e di morte, fin dalla copertina. In quarta di copertina c’è una frase di Igort che mi sembra il proseguimento di quello che aveva scritto diciassette anni prima a proposito di Sammy Harkham: «Loretino è un piccolo gioiello di arte sequenziale, che usa in maniera spartana ed equilibrata il medium fumetto. Un libro bello e preciso, meraviglioso.» E alla fine ti lascia lo stesso sconforto insonne di Poor Sailor.
Quando li sistemo tra le mensole di casa, i libri cercano altri libri cui poter stare accanto. L’ordine alfabetico a volte è un traditore che ti costringe a tenere Guido Buzzelli accanto ad Al Capp, Dr. Seuss a Philippe Druillet, e Joann Sfar a Bill Sienkiewicz. Ma c’è un altro modo. Il formato, nel fumetto, è tutto. Ora, la mia bellissima edizione di Poor Sailor ha un compagno di mensola per trovare conforto nella tristezza e nella solitudine.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).