Protagonista: “la donna della casa” nel finale de La casa delle belle addormentate di Yasunari Kawabata.
Ha detto (rivolta a Eguchi, protagonista del romanzo):
«Riposi con comodo. Di ragazze ce n’è un’altra, no?»
Stavolta la prendo mooolto lunga, per spiegarti cosa voleva davvero dire.
La casa delle belle addormentate ha una trama lineare, quasi esile. Eguchi, 67 anni, viene a sapere dell’esistenza, a Tokyo, di una casa di appuntamenti retta da regole bizzarre. I suoi clienti, tutti anziani come lui, possono godere di un unico piacere: dormire accompagnati da ragazze bellissime, già addormentate da un potente sonnifero. Svegliarle è impossibile, i clienti possono solo osservarle, evitando qualsiasi altra interazione. Alla fine anch’essi devono assumere dei sonniferi per addormentarsi e, la mattina successiva, dovranno andarsene prima che la loro “compagna di sonno” si svegli.
Eguchi inizialmente è semplicemente incuriosito, quasi scettico. Una cosa da provare una volta nella vita, sembra pensare (o tentare di convincersi). Invece tornerà altre volte e scoprirà che per lui il vero piacere dell’esperienza sta nel rivivere ricordi assopiti, prodotti dalla vicinanza con quei corpi giovani, persino dall’ascoltarne il respiro o l’odore della pelle. E finirà con l’essere sempre più dipendente dalle visite alla casa, da quella sessualità incompiuta che lo immerge in una diversa dimensione del piacere e della nostalgia. Perché, in fondo, la nostalgia è solo la consapevolezza d’essere stato felice.
L’ultima visita si chiude però nel dramma. Nella stanza l’uomo trova la compagnia di due fanciulle, e alla mattina s’accorge che una delle due (“la ragazza dalla pelle bruna”) non respira. Eguchi chiama subito la “donna della casa”, che all’inizio prova a negare l’accaduto, poi prova a tranquillizzarlo con quella frase gelida e inconsapevolmente crudele.
È Kawabata stesso a precisare che «nulla aveva mai colpito Eguchi quanto quel “di ragazze ce n’è un’altra, no?”». E lo stesso autore ha voluto lasciare senza nome la vittima (“la ragazza dalla pelle bruna”, appunto) e la donna che sovrintende la casa (“la donna della casa”).
Quella frase sposta la narrazione, la precipita in una realtà molto cruda. La dolcezza dei ricordi, le tazze di tè, il profumo della pelle delle ragazze, le camelie fiorite… Insomma, tutta quella patinata perfezione “molto giappo” del resto del romanzo, sospesa fra sogno e realtà, crolla su un cadavere in cui il protagonista specchia il proprio futuro. E per te, lettore, non va meglio. Perché in quel momento ti ricordi che per tutto il romanzo le ragazze incontrate da Eguchi erano come bambole, tranquillamente sostituibili l’una con l’altra, perse in uno stato di sonno inattaccabile, già simile alla morte.
Ora dirai: «che c’entra col porno o col pop? Tutto il libro non era né pop né porno!»
Va bene, confesso: lo presi, anni fa, sperando in qualche prurito, ma lo si può inserire nel genere erotico già con molte forzature, figurati nel porno, se questo è davvero rappresentazione esplicita di atti sessuali. Il suo acquisto da parte mia fu un equivoco erotico, al massimo.
La morte, invece, è molto pop, non c’è dubbio. E il fascino/disagio che suscita il solo pensarla è vicino al fascino/disagio del porno. La frase della “donna della casa” è un colpo da maestro di Kawabata per svelare l’illusione del senso di pace ovattata che attraversa le pagine precedenti: la morte arrivata per “la ragazza dalla pelle bruna” non tarderà a presentarsi al vecchio Eguchi.
Eccoci dunque al momento più atteso della rubrica del Tradrittore, alla rivelazione di ciò che “la donna della casa”, nel finale del romanzo, intendeva…
Voleva dire:
«Non pensi alla morte, signor Eguchi. Non a quella della sua giovane accompagnatrice, che non la riguarda, e nemmeno alla sua. Guardando quelle fanciulle lei vede la vita, ricorda attimi felici. Non è il caso di pensare che quegli attimi sono solo rovi aggrappati a macerie.»
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.