Protagonista: Edie Sedgwick.
Ha detto:
«Warhol riuscì davvero a fottere la vita di un sacco di gente.»
Voleva dire:
«Maledizione, Andy! Non avevo capito quanto fosse vero e crudele quel tuo aforisma sul quarto d’ora di notorietà!»
Questo pezzo c’entra qualcosa anche con Claire Bretécher. Su Claire non ho scritto nulla, di lei sapevo troppo poco. Mia ignoranza di cui mi dispiaccio, s’intende. Ma nella settimana di Claire mi è venuta in mente Edie Sedgwick. Uguale, speculare, diversa… Strani incroci della memoria e del pensiero, tutto qui.
Bellissima, magra, capelli corti come Claire. Edie però era fragile (di Claire, per quanto ho imparato, certamente non lo si poteva dire) e sostanzialmente priva di talento, non fosse quello di sprigionare un fascino inspiegabile quanto innegabile. L’arte di Claire stava nell’acutezza del suo sguardo, Edie sembrava avere lo sguardo di una gattina smarrita. Però anche lei era un’artista. Di più: lei stessa era un’opera d’arte. La sua vita, il suo corpo, il suo apparire erano la sua arte. Sicuramente era una cicala. Insomma, il destino ha fatto sì che quel pensiero vago, apparso nella mia mente nella settimana-Bretécher, potesse trovare ora una giusta collocazione…
Va bene, l’ammetto, Edie con Claire decisamente non c’entra una cippa. Semplicemente, il caso ci ha messo una pezza sotto forma del tema settimanale e ora parlo di lei. Di una breve vita curiosamente inframmezzata da incidenti col fuoco (finirà ustionata in un paio d’occasioni) e tragedie familiari.
Dolcissima e capricciosa, aspra e detestabile, incline a scatti di rabbia e generosità. In una parola, instabile. Tutti quelli che la ricordano, però, concordano nel dire che nei suoi momenti migliori era capace di farsi amare. La sensazione è che sapesse entrarti nel sangue per non uscirne più. Come un virus. E, come un virus, ti accorgevi che poteva farti male. O comunque tu facevi di tutto per cacciarla via, per sopravvivere.
Nata ricchissima, appena le è possibile decide di fuggire dal padre, uno stronzo dal machismo esasperato e urticante persino per quei tempi, e vola a New York, cominciando a spendere e spandere in cene e party. Attentissima al look, capelli corti, sopracciglia folte e nerissime, gioielli vistosi, è comunque il suo sguardo a bucare l’immaginario e rimanere come segno distintivo di tutte le sue incarnazioni. Quegli occhi grandi e scurissimi, lo sguardo liquido ma intenso, non lasciano indifferenti. Così come il sorriso o le fossette. Dannate fossette… Te l’ho già detto, mi prendono: ti dissi di Mary Jane, o forse è colpa di Autogrill… Sì, per me la ragazza dietro il banco che fa invaghire Guccini ha le forme, o almeno il sorriso, di Edie…
Vediamo di farla breve. Entra nel giro di Andy Warhol, nella sua Factory, e mi sa che queste sono le uniche cose certe che sai, anzi, che sappiamo. Nel senso che tutto il resto della sua vita è un casino. La droga, il sesso a cui si abbandona quasi in uno stato di dipendenza… Oddio, è un casino anche la relazione con Warhol, un affetto feroce e puro al tempo stesso, un’amicizia perfetta (fra i due non possono esserci pulsioni erotiche; è un rapporto asessuato, potremmo dire, ma non per questo privo di una strana e feroce gelosia) che si brucia (ecco ancora il fuoco, ma in metafora) in pochi mesi lasciando cenere e dolore alle spalle. Forse semplicemente entrambi sono interessati solo ad alimentare il proprio mito. Edie però lo fa in modo puro, Andy no. La gratitudine per lui è come il successo nel suo aforisma: quindici minuti e poi basta.
Poi c’è la relazione, altrettanto diversamente breve e altrettanto diversamente incasinata, con Bob Dylan. Secondo alcuni, è proprio lei la ragazza ricca caduta in disgrazia di Like a rolling stone, secondo una stupida classifica la canzone più bella di tutti i tempi. In realtà la canzone (che non sarà “la più bella”, ma fottutamente bella sì) è registrata tra il 15 e 16 giugno del 1965 e sinceramente non so se/quanto a quell’epoca Dylan conoscesse già la Sedgwick. Mi pare addirittura improbabile che in quel momento potesse immaginare per lei, ancora nelle grazie di Warhol, un destino tanto amaro. E non sporcherò questo articolo con ricerche documentali da inchiesta alternativa: non è il caso, non è importante.
È vero, però, che leggendo il testo ti si ghiaccia il sangue. Dylan si rivolge a una ragazza, questo è sicuro, di cui descrive la parabola discendente. E’ bella, elegante, di buone scuole. Molti l’hanno avvertita della brutta piega che sta per prendere la sua esistenza, ma lei continua a vivere sull’orlo del disastro. Ora non ha più nulla, è sola come una pietra che rotola. Difficile non vederci Edie:
«Once upon a time you dressed so fine
You threw the bums a dime in your prime, didn’t you?
People’d call, say “Beware doll, you’re bound to fall”
…
How does it feel
To be on your own
with no direction home
Like a complete unknown
like a rolling stone?»
Comunque sia, finito il quarto d’ora della celebrità la famiglia chiude il rubinetto da cui escono i verdoni. Che se li spendeva per un paio d’anni ma si faceva fotografare da “Vogue” (e magari poi si faceva impalmare da un qualche vip, antesignana di un velinismo oltre oceano) era tutto ok. «Ma se dobbiamo solo cacciare grano e tu lo spendi, Edie, puoi anche attaccarti al cazzo». Questo il succo del messaggio della famiglia, e questo è più o meno quanto Edie fa. Attaccarsi a quello, dico. E a ogni tipo si sostanza che le passi accanto. E’ più o meno in questo periodo che si inseriscono, ti dicevo, quei rischiosi incendi da cui esce sostanzialmente illesa.
Sono altri i motivi per cui finisce all’ospedale. La famiglia la fa ricoverare più volte, viene sottoposta anche a elettroshock. Ne esce più storta di prima. Il suo ultimo film, Ciao! Manhattan, è un delirio totale. Il personaggio principale è Edie nella parte di un suo alter ego (Susan) che però non è per nulla alter: è solo un altro ego, Edie come se non fosse Edie. Dipendenze, fama, ascesa e caduta, disfacimento di eccessi candidi e angoscianti. Ciao! Manhattan finirà postumo e le sarà dedicato. Che tristezza. Vederlo è un’esperienza paragonabile a guardarsi in loop una scena tragica catturata per caso dagli schermi, la morte di un pugile o di un pilota di Formula 1 o un’antilope sbranata da un branco di iene. Qualcosa che non si dovrebbe guardare, ma si guarda lo stesso. Solo che le iene siamo noi. Edie recita sghemba, non si sa neppure se segue un copione, dimentica le battute, sicuramente è strafatta e parla sconnessa dalla trama, da se stessa, da tutto.
Si sposa nel luglio 1971. Nelle foto di nozze ha un fascino goffo e virginale. Le fossette, ora, sembrano quelle della figlia di un facoltoso allevatore negli sconfinati campi del Kentucky. Per dire, eh, che manco so se nel Kentucky ci sono fattorie, ma mi hai inteso. Ma lei non è vergine, lo stronzo del padre è già crepato (bene) e non siamo neanche nel Kentucky. Almeno credo…
Nel frattempo, Andy Warhol è definitivamente incarnato nel proprio mito. In un’intervista gli chiedono che fine abbia fatto Edie. Lui: «Non so dove sia. Insomma, non siamo mai stati molto intimi. Ci ha lasciati tempo fa. Ma io non l’ho mai conosciuta molto bene». Lui ha saputo cristallizzare il proprio quarto d’ora di fama nell’eternità, o in quella parvenza di eternità a cui possono ambire gli esseri umani. Per la vecchia amica Edie, invece, il tempo corre veloce verso il limbo, è solo un cappio che si stringe.
Lei di tragedie ne ha già viste. Due fratelli morti giovani, uno in un incidente e l’altro suicida, stroncato dalla disapprovazione del padre per la sua omosessualità. Troppi funerali precoci, per una ragazza giovane come lei. Sono le uniche occasioni in cui il suo look non è perfetto, le uniche in cui gli amici ricordano le striature nere del make up che le cola sul volto. Non so se sia con un trucco inappuntabile che lascia la vita, per un mix di barbiturici e alcol, nella notte fra il 15 e il 16 novembre 1971. Per celebrare definitivamente la sua caduta, non entra nemmeno nel “Club 27”: aveva 28 anni.
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.