La televisione è come una scatola dal fondo bucato: tutto quello che ci metti dentro scompare, così devi continuare a riempirla, all’infinito. Lo diceva con un certo fondo di amarezza un mio amico motion designer, anni fa, cioè in un tempo in cui la TV viveva ancora in un eterno presente con pochissima memoria e, da noi, nominalmente il mestiere del motion designer nemmeno esisteva. Citava qualcosa? Non lo so. So però che ora, con l’avvento e la definitiva affermazione dei social, viviamo nel tempo che potremmo definire “della cascatella del presepe”: la stessa acqua scorre e ritorna, eternamente in circolo per le nostre vite obbligate a ricordare in un modo un po’ naïf il passato che abbiamo vissuto.
E così oggi, a distanza di un anno, Facebook mi ha riproposto un post risalente a quando eravamo già in mezzo a quella pandemia dentro la quale continuiamo ancora a navigare a vista. E che di sicuro di quel clima ne risentiva.
Il post iniziava così:
«A me dei film post apocalittici dà sempre un vero brivido la scena in cui la città è ancora tutta lì ma l’umanità̀ non c’è più̀. Sparita, lei e tutte le sue emozioni, rabbie, idee, paure, amori, sentimenti e gare di pisellorighello di ogni ordine e grado. Come se di notte tutti se ne fossero andati in punta di piedi senza far rumore, magari dandoci uno sguardo benevolo mentre dormivamo e sussurrando qualcosa prima di uscire. Magari un augurio. O magari ce ne siamo andati pure noi e allora resta il mistero di chi sia ora il punto di vista sulla scena (chi lo sa? Vuoi che proviamo a chiederlo al Serafino Gubbio del romanzo di Pirandello?)»
È l’inizio di Vanilla Sky. È il cartone animato di Guido Manuli in cui tutta la città fa lo scherzone a un tizio ammassandosi dietro a un grattacielo. È Jim Ballard bambino che gira in bici da solo per casa ne L’Impero del Sole seguito dalla cinepresa di Spielberg. Di sicuro è anche una puntata di The Twilight Zone.
Ma è anche, d’estate, quando mi svegliavo da solo in casa ché entrambi i miei erano al lavoro e fuori, col caldo, vedevo dagli spiragli delle serrande abbassate che per strada non girava nessuno. È quando muore l’ultima nonna ed entri in casa sua dopo il funerale. È ascoltare l’ultimo album di Franco Battiato (suo nominalmente, intendo).
Tempo dopo – oggi che scrivo, emendando quel post di un anno fa – penserò anche che è Wall-E di Disney/Pixar. Ma il mio pensiero legato al film sarà per sempre concentrato sui video live action che puntellano il racconto in animazione. Non le scene di Hello, Dolly! che Wall-E continua a guardare sognando un’anima gemella con la quale passare il tempo circolare e senza fine del lavoro che gli è stato assegnato, ma quelle con Shelby Forthright, il CEO della Buy’N’Large (la multinazionale che, nel film, ha ridotto la Terra a una gigantesca discarica inabitabile) interpretato dall’attore Fred Willard. Un umano come noi ma diverso dagli umani suoi (nostri) discendenti che, in forma di disegni digitali, recitano nel film: cosa ci stava dicendo in quel momento Pixar sul futuro del corpo degli essere umani nel cinema e del nostro rapporto empatico con la loro immagine?
Dal piccolo, romantico Wall-E alla casa robotica automatizzata che continua la sua routine anche se l’umanità è stata spazzata via dalla catastrofe nucleare nel racconto Cadrà dolce la pioggia di Ray Bradbury il passaggio sarà semplice, ma me lo dovranno suggerire altri. La canzone Noi non ci saremo di Francesco Guccini invece sarà facile ricordarmela da solo. Così come ripensare a un articolo del 2007 sulla rivista “Duellanti” che, parlando del film Io sono leggenda, sottolineava che, sì, era l’adattamento cinematografico di un libro, ma il libro non era quello omonimo di Richard Matheson, bensì Il mondo senza di noidi Alan Weisman.
Il mondo senza di noi. La casa senza di noi. La casa disabitata e il tempo che comunque continua.
Penso alla poesia di Raymond Carver in cui lui esce di casa senza chiavi e, per sbaglio, si chiude fuori. Uscire, lasciare tutto acceso e, una volta fuori, mettersi a guardare casa nostra piena della nostra assenza. Anche se poi, alla fine, Carver non ci può fare niente: è comunque americano. Così la poesia finisce con lui che rompe il vetro della finestra e rientra in casa.
Penso che al gatto in un appartamento vuoto della poesia di Wisława Szymborska gli vorrò per sempre bene. Quel gatto indica con precisione come possiamo essere l’universo per qualcuno (e qualcuno per noi) e, quindi, come una sola assenza possa diventare assenza di tutto, la città inspiegabilmente svuotata di tutta la vita di cui fino a ieri facevamo parte.
Un bel regalo altrui a questo strano anello saranno i langolieri del racconto omonimo di Stephen King del 1990, una storia che non ho mai letto nè visto nella sua trasposizione televisiva. Creature che distruggono la realtà una volta che è divenuta passato, che la divorano e se ne nutrono in un’eterna corsa a cercare di raggiungere il presente che continua a sfuggire loro (e al quale, in realtà, divorando il passato, fanno spazio). Penso che la paura racchiude sempre un desiderio e quindi, forse, se decidiamo di fermarci, i langolieri ci raggiungono e scompariamo anche noi. Insieme agli altri, però. Finalmente non più soli.
Il post di un anno fa si concludeva così:
«Insomma, se mi chiedete qual è la mia scena horror preferita, non ho dubbi: quella della città vuota. Un set perfetto in cui tollero al massimo l’inserimento di qualche foglio di giornale che svolazza. Già̀ meno le scritte sui muri. Ma, quando comincia a crescere l’erba sul cemento e in giro trovi solo survivalisti conciati da redneck texani, di solito mi sono già̀ ampliamente rotto le balle del film. Allora spengo la TV e, finalmente, sento che il tempo ricomincia a scorrere. Perché non è vero che il passato non si può riscrivere.»
Questo strano anello si compone di:
- Azzurro di Vito Pallavicini e Paolo Conte (1968);
- Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Luigi Pirandello (1925);
- Vanilla Sky diretto da Cameron Crowe (2001);
- Incubus, scritto, diretto e animato da Guido Manuli (1985);
- L’impero del Sole, diretto da Steven Spielberg (1987);
- Tempo di leggere, diretto da John Brahm. da Ai confini delle realtà, Stagione 1 Episodio 8, (Rai 1962);
- Torneremo ancora di (?) Franco Battiato (2019);
- Hello, Dolly, diretto da Gene Kelly (1969);
- Wall•E, diretto da Andrew Stanton (2008);
- Cadrà dolce la pioggia di Ray Bradbury (1950);
- Noi non ci saremo di Francesco Guccini (1967);
- “Duellanti” (2007) [vorrei essere più preciso ma non so come recuperarlo];
- Io sono leggenda, diretto da Francis Lawrence (2007);
- Io sono leggenda di Richard Matheson (1954);
- Il mondo senza di noi di Alan Weisman (2007);
- Chiudersi fuori e poi rientrare di Raymond Carver (1985);
- Il gatto in un appartamento vuoto di Wisława Szymborska (1993);
- I langolieri, diretto da Tom Holland (1995);
- I langolieri di Stephen King (1990);
ed è stato forgiato in forma di parole bevendo un bicchiere d’acqua e aspettando che i 27 mg di Pramipexolo facessero finalmente effetto sulla mia fastidiosissima RLS che, da anni, mi attende al varco ogni sera.
Lettore lento e disordinato. Curioso discontinuo. Viaggiatore carsico.
Da sempre, legge parecchi fumetti e alcuni li pubblica anche. Collabora volentieri con QUASI perché gli pare il modo migliore di vagare senza rischiare di perdersi irrimediabilmente.