Che giorno fosse esattamente non lo so. L’anno era il 1883 e con buona probabilità era la fine di aprile. Quello di cui sto per raccontarti succede qui dietro; vieni che ti faccio vedere dove. Prendiamo a destra per corso Vittorio Emanuele e alla prima traversa che incontriamo a sinistra, ci svoltiamo. È via Cesare Beccaria. Adesso la vedi così, fredda, elegante, pulita, con tutti questi negozi di vestiti alla moda, con questi bar e ristoranti che hanno il solo scopo sociale di sottrarre ricchezza ai turisti (la redistribuissero, poi!), ma allora, al tempo dei fatti che ti narro, era un quartiere popolare, il Verziere, che andava da qui a largo Augusto, passando per piazza Fontana. Qui, fino al 1911, c’era il più grande mercato della città: frutta e verdura, ma anche carni e pesce. Anche carne umana: la prostituzione era una delle attività più fiorenti. Ci abitava la popolazione meno abbiente di Milano, i disperati come la Ninetta di cui cantava Carlo Porta.
Guarda, lì, al civico 4, mica c’era quel brutto e moderno palazzo con dentro la pizzeria di Eataly. C’era una casa di ringhiera, di quel colore giallo tipico di Milano, con quegli odori e quei rumori poveri e violenti, che accompagnavano la vita dei suoi abitanti.
Ora immaginati: è notte, due figure furtive scivolano giù dal ballatoio. Hanno un bagaglio leggero: poco o niente, ma non, come dice Guccini, quello di un semplice o di un saggio; quello che c’è nello zaino che hanno sulle spalle è il bagaglio essenziale di uomini in fuga. Perché il ventottenne modenese Cesare Cova e il trentaquattrenne padovano Carlo Monticelli (vedi? anche loro, non sono originari della città!), se la stanno dando a gambe. Lasceranno Milano da Porta Venezia, poi Cesare si recherà a Parigi e successivamente a Londra (non farà mai più ritorno in Italia), mentre Carlo raggiungerà Lugano (altro crocevia di anarchici) e da lì Parigi, ma tornerà in Italia, a Venezia, dopo l’amnistia del 1887.
Scappano perché sono appena stati condannati, con rito direttissimo, a due anni di carcere e a seimila lire di multa per «aver voluto spargere fra i non abbienti le teorie sovversive di ogni ordine di cose, disconoscendo Dio, religione, patria, moralità, governo, a tal punto che puossi ben dire che supremo scopo di quel periodico sia la distruzione d’ogni cosa, quindi l’anarchia».
Il periodico in questione era il “Tito Vezio”, che prendeva il nome dal giovane latifondista campano che, intorno all’80 a.C., (come ci racconta Publio Rutilio Rufo nella sua autobiografia) per amore di una giovane schiava, aveva chiamato all’insurrezione tutti gli altri schiavi, guidandoli in rivolta alla conquista della libertà e fondando una specie di comune agraria (ovviamente furono sterminati dal generale Lucio Lucullo agli ordini di Rufo). Era un settimanale (uscì dal 15 ottobre 1882 al 9 aprile 1883, giorno dell’ultimo sequestro che causerà il processo e la condanna ai due redattori), e aveva la redazione proprio qui, al 4 di via Beccaria, nel povero appartamento da cui Cova e Monticelli stano fuggendo per evitare il carcere.
Cova e Monticelli fondarono il “Tito Vezio”, che possiamo considerare il primo vero periodico anarchico italiano, influenzati dalla personalità e dalle idee di Carlo Cafiero, che – per quello che sappiamo – Monticelli aveva conosciuto due anni prima, nel 1880, a Chiasso. Qui, Cafiero aveva presieduto l’importantissimo congresso internazionalista del 5 e 6 dicembre in cui si era tentata l’ultima riconciliazione tra anarchici e socialisti, prima che ognuno seguisse la propria strada: i socialisti con la Seconda Internazionale e gli anarchici con una confusa serie di congressi e associazioni che avranno come unico tratto comune il considerarsi gli unici veri continuatori della Prima Internazionale.
Comunque. Dopo il congresso di Chiasso, Cova e Monticelli vengono a Milano insieme a Cafiero perché tra i lavoratori milanesi, dopo la primavera del decennio precedente, l’anarchismo sta perdendo terreno in favore del socialismo: la capillare organizzazione marxista, unita alle evidenti conquiste della svolta legalitaria e parlamentarista di Andrea Costa, hanno maggior presa sulle masse lavoratrici dei sogni di palingenesi universale e immediata attraverso la rivoluzione degli anarchici. Era necessario tentare di recuperare terreno, così il “Tito Vezio”, mentre Cafiero già era in carcere e dava segni di squilibrio, si fece portavoce di un tentativo di riconciliazione e collaborazione tra gli anarchici e i marxisti del Partito Operaio. Tentativo che, a prescindere dalla vita effimera di questo settimanale, continuerà, con alti e bassi, per dieci anni, fino alla rottura definitiva del 1892 quando a Savona verrà fondato il Partito Socialista dei lavoratori.
Paradossalmente il 1892 è anche l’anno in cui, Cafiero, che per questo tentativo di riconciliazione – sicuramente influenzato dalla sua frequentazione luganese con Anna Kuliscioff – verrà accusato dagli intransigenti di “svolta elettoralista”, muore.
La sua vita è durata solo 45 anni, ma i dodici anni che vanno dal 1870 al 1882, furono di un’intensità e di una portata tali da caratterizzare ciò che sarà, fino a oggi, il pensiero anarchico. Se ti interessa conoscerla più approfonditamente: dalla sua amicizia con Engels, al passaggio all’anarchismo, dallo sperpero di ogni suo avere nell’esperienza bakuniniana della Baronata, alla Banda del Matese, ti rimando all’ottima biografia di Carlo Masini intitolata Cafiero e riedita da BFS nel 2014; io qui ti dico solo dell’ultimo periodo milanese. Ritornato a Milano dopo la breve parentesi del 1870, all’inizio degli anni Ottanta del Diciannovesimo secolo, appunto per riorganizzare l’anarchismo meneghino, verrà arrestato per l’ennesima volta in Galleria, mentre progetta azioni politiche con l’avvocati socialisti Gnocchi-Viani e Grilloni, il 6 aprile 1882. Mentre è in carcere a San Vittore, tenta il suicidio. Da qui in poi la sua vita sarà un lungo decennale declino. Ritenuto psichicamente instabile, dopo essere stato scarcerato e rispedito in Svizzera, verrà rinchiuso in manicomio, dove morirà nel 1893.
Due anni prima era arrivato a Milano, assunto presso lo studio di Filippo Turati, un giovane avvocato livornese destinato a raccogliere il testimone di Cafiero e a lasciare un segno indelebile nell’anarchismo milanese: Pietro Gori.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.