Da ascoltare poco per volta e senza troppo impegno.
#1
Sul finire del 1971 Isaac Hayes pubblica l’album doppio Black Moses. Il lato B del primo vinile, quando lo mettevi sul piatto del giradischi, alla velocità di poco più di 33 giri al minuto, si apriva con Never Gonna Give You Up, un pezzo di Jerry Butler, rifatto con ritmo allegro, coretti e vocalizzi, e un arrangiamento datatissimo. Subito dopo, compresso in due minuti, un lento meraviglioso, Ike’s Rap II. Non posso che amarlo, anche perché da lì viene il campionamento attorno a cui ruota Glory Box dei Portishead. [PI]
#2
Perché quando penso all’idea stessa di “Ritmolento” dentro mi vibrano le chitarre dei Portishead. Due dischi in studio negli anni Novanta e un terzo nel 2008. Lavorano con lentezza, estrema lentezza, e si regalano tutto il tempo che serve loro per essere soddisfatti di quello che fanno. [PI]
#3
Nel 2010, Vinicio Capossela regala il palco del concertone del Primo maggio a Enzo del Re. Questo tipo anziano, con un berretto rosso e una giacca di jeans, si siede davanti a una folla sconfinata, tenendo una sedia tra le ginocchia, come fosse un tamburo, ed esegue Lavorare con lentezza e Tengo ‘na voglia e fa niente. Sono due brani che vengono fuori da Il banditore, un disco del 1974 che conosco solo grazie al torrent. [PI]
#4
Nel 1970 i Black Sabbath sfornano Paranoid, un album spaventosamente importante nella storia dell’hard rock (o heavy metal, vedete voi). Contiene, oltre alla title track, War Pigs, Iron Man, Fairies Wear Boots. Roba che va bene ancora adesso per far vibrare i vetri delle finestre quando la ascolti. Contiene anche questa. Che parlare di lento per un gruppo hard (o metal) non è poi difficile, ci sarebbero mille e mille esempi, molto più celebri. Ma qui c’è un riff di basso, la voce di Ozzy che si fa più calda… Quella voce è molto “effettata”, certo, ma ascoltala e pensa: «We sail through endless skies…» Navighiamo attraverso cieli infiniti… [FB]
#5
Ho scoperto King Coya e il suo brano cumbiatron Villa Donde fra le pagine di Il cammino della Cumbia di Davide Toffolo. È un pezzo sciamanico, ossessivo, segreto, e una volta che ti ha preso non puoi scollartelo di dosso. Il “downtempo” è la sua filosofia. [FP]
#6
Nel 1968 tutti volevano Enzo Jannacci e la sua Vengo anch’io. Approdato a “Canzonissima”, il cantautore-saltimbanco propone Ho visto un re, altro pezzo allegro e ritmato che però nasconde molto meno del precedente il suo significato politico, e la commissione censura della Rai glielo rifiuta. La risposta di Jannacci è immediata e a un ritmo che più lento non si può: Gli zingari, brano straordinario, quasi tutto parlato (anzi, sbiascicato), di una lentezza esasperante e che nulla può in finale contro il Morandi nazionale. [FP]
#7
La regina del tempo lento, anzi dell’assenza totale di tempo. La sua versione di The end dei Doors, imbastita insieme a John Cale, Brian Eno e Phil Manzanera, è sfibrante. Si insinua nelle vene, ti stende e ti trascina con lei a fondo, in assenza totale di riferimenti. L’unica dubbia luce è lei, Nico, la sua voce da oracolo infernale e il suo maledetto harmonium. [FP]
#8
Il 20 aprile 2018 ho presentato a Parma il mio disco Il rito della città. Per farlo, insieme ad amici e colleghi musicisti, abbiamo intrapreso un tour pomeridiano attraverso tredici osterie (o pseudotali) della città, per concludere poi con il concerto serale. L’idea alla base del disco, e del mini tour, era quella di riappropriarsi del tempo lento proprio delle osterie e di alcuni baretti e bettole dove lo scambio è ancora fertile e le imposizioni dei doveri lontane e sfumate. Ovviamente alla fine eravamo tutti sbronzi. Fortunatamente un’amica regista ha immortalato il tutto, regalandoci un frammento di quel tempo bellissimo e lento. [FP]
#9
Sono un cinico fottuto. Per come la vedo io Withney Huston ha un posto nella storia della musica leggera solo per la scenetta famosa in cui Gainsbourg la scandalizza dichiarandole in diretta Tv di volersela scopare. Ma quando ascolto questo capolavoro di lentezza, il mio cinismo va a farsi un giro. [BB]
#10
L’89, forse il ’90. Al Garage Prego. Un concerto incredibile. Di una violenza che oggi non reggerei, là sotto il palco. A un certo punto, per riprendere fiato e leccarci le ferite, questo pezzo. Non lo è ma per me resta la quintessenza della lentezza. [BB]
#11
Nel 2002 esceTurn on the Bright Lights, album devastantemente bello degli Interpol. Nessuno si aspettava un minimalismo così roboante, così intenso eppure veramente così selettivo, nello scegliere contrappunti e intrecci precisi, matematici ma emozionanti come arabeschi o frattali pulsanti nel buio. Untitled è il brano di apertura, l’incedere lento è funzionale all’efficienza nel mandare lungo la spina dorsale brividi decisi, come vino d’argento versato in nave spaziale (ah, no, quella era un’altra cosa…). Bellissima, e chi dice di no si merita Sanremo. In slow motion. [LC]
#12
Il ritmo è posato, posatissimo. Anche perché il messaggio è ecumenico e egualitario: ci vorrà un po’ di tempo, quando più, quando meno, ma alla fine saremo tutti ridotti in polvere. Ma non è un penitenziagite qualsiasi – piuttosto un blues condotto da una voce sicuramente umana ma sospettabile di tratti diabolici. Non mi sorprenderei affatto se scoprissi che Tom Waits ha sviluppato zoccoli fessi, non vedrei nessuno più adatto di lui. Umano a sufficienza per dire che la sofferenza è “nostra” ma diverso quanto basta da poter dire anche: “voi”. [LC]
#13
Solo lui poteva scrivere qualcosa di così smaccatamente romantico mescolando lirismo e retorica del perdente senza risultare stucchevole. Qui in un live dal suo ultimo periodo in tour permanente, per ricordarci che il tempo può essere veramente galantuomo e, con il giusto tasso di dedizione e impegno (Cohen ha detto di sé di aver sempre lavorato sodo), vederti trasformare da svuotapiste a fine serata a voce di basso definitiva, chansonnier garbato che ringrazia sempre alla fine di ogni pezzo, sempre senza risultare stucchevole ma semplicemente sincero. Visto dal vivo a Roma nel 2013, un privilegio (e un’onta che non fosse sold out ma peggio per voi). [LC]
#14
Imagine di John Lennon l’ho sempre trovata un po’ stracciacosiddetti, non ne ho mai fatto mistero. Ma grazie a Maynard James Keenan e soci sono riuscito ad apprezzarla. Bastava farla in Do minore, agganciarla a un ostinato piuttosto cupo, riempirla di nuvole ed ecco che viene fuori un’anima che si addice perfettamente allo spirito del testo. Non rose e fiori ma un’utopia che richiede una certa quota di fegato per essere abbracciata – e la certezza di essere parecchio lontani dalla sua concretizzazione. [LC]
#15
Da un EP del 2003 il grido di Mark Lanegan chiama alla possibilità di rallentare, cosa che probabilmente non gli spezzerebbe il cuore. La canzone ci prova, a infondere il respiro giusto per cambiare passo, per ridurre una velocità forsennata di cui non sappiamo molto (ma che possiamo immaginare se conosciamo qualcosa di Lanegan). Il pezzo è lieve, passeggero, impotente verso l’ineluttabile sancito da troppe occasioni perse, troppi errori imperdonabili impilati uno sull’altro. Tipo ballata di Guido Cavalcanti, leggero, accorato e totalmente privo di speranza. [LC]