L’usignolo della fine del mondo

Arabella Strange | Rorschach |

Stamattina mi ha svegliato il temporale. Prima tuoni, profondi, di quelli che rotolano. Poi è arrivata la pioggia, e il rimbombo che seguiva il lampo di luce era musica per le mie orecchie!
«… infuria la tempesta equinoziale»: questo verso, non ricordo più se di un lirico greco o latino, mi si è stampato nel cervello in quarta ginnasio, e ancora è lì che infuria perché descrive così bene il tumulto dell’arrivo della primavera, dentro la mia testa, fuori nel mio giardino. Io sono nata, un mese in anticipo, proprio al culmine della primavera.  Quando ero piccola era tempo di giacinti viola in giardino, ora la settimana prima del mio compleanno gli ultimi campi incolti della città sono già pieni di papaveri. Cambiamenti climatici. Comunque la narrazione familiare insiste sul fatto che fosse un giorno di pioggia e di sole, e spesso penso a quanto sia lo specchio del meteo del mio cervello.
Amo la pioggia, specie la sera, o ancor di più la mattina presto, quando non ti devi alzare per andare a lavorare, ma puoi girarti sull’altro fianco e sprofondare felice nel brusio delle gocce che rimbalzano sul tetto. Ma anche la luce chiara di questi giorni di marzo mi incanta. Percepisci le ore di luce allargarsi delicatamente, come una bolla di sapone che soffi fuori dal cerchietto più dolcemente possibile, per farla diventare grandissima.

Dunque la primavera sta arrivando anche quest’anno come un’onda, ma non è più l’anno scorso, con il mondo senza umani infestato solo da alberi fioriti, rampicanti e uccelli curiosi, per nulla impauriti dal mio passaggio, in marcia nello scenario postapocalittico verso la farmacia. Quanto mi era piaciuto. Era bello anche sentirsi di colpo in equilibrio con l’umanità, che quasi tutta stava dando fuori di testa. E in quei due mesi ho dormito naturalmente, un miracolo, mesi magici il mio corpo si è concesso di ricordare che sensazione dà il sonno, sgravato da qualsiasi paura di risveglio coatto. Ho ricordato anche la fame. Diciamo che se non considero che sono morte migliaia di persone – sotto casa mia le ambulanze passavano ogni cinque minuti, e l’elicottero dell’ospedale mi sorvolava tre, quattro volte al giorno – è stata una primavera bellissima. Senza di noi. Un valzer lento. Io, in mezzo all’imbocco della tangenziale deserta, ho fatto una giravolta.

La sera mi sedevo sul terrazzo, guardavo le nuvole, la luna, le stelle. Poi andavo a dormire.
Adesso che quando rientro in casa mi calo un Tavor la magia è un po’ diminuita, è l’insidia dell’insonnia è di nuovo in agguato. Tre giorni fa non ho dormito per tutta la notte, e al mattino dovevo portare mio padre a fare il vaccino. Il mondo è lungi dall’essere senza di noi, questa volta: siamo dappertutto. Non possiamo assembrarci, cioè stare vicini, e questa violenza la pagheremo diventando disadattati per un bel po’, immagino, ma lockdown o no, il mondo pullula di umani.
Lo preferivo deserto, con quella primavera selvatica. È stato un lusso. Sono stata fortunata ad averla vissuta: potevo contemplarla, nessuno mi picchiava in casa, ero sola con tre gatti, avevo un lavoro stabile che potevo svolgere dal mio tavolino da tè, col portatile e i miei libri.
Adesso possiamo andare a lavorare, e dappertutto è pieno di gente. Claustrofobia ed emozioni contrastanti: gioia della prima luce, dei cieli azzurri o di tempesta, degli uccelli e dei fiori, e della farfalla grandissima che ho visto sabato; ansia quando sono in metropolitana. Il cuore che si mette a battere forte la sera, senza motivo. E due giorni fa ho fatto il dritto, sveglia da una mattina alla successiva. Verso le tre, seduta sul terrazzo, mentre per la decima volta valutavo se provare a tornare a letto, che magari il sonno non si accorge e inciampa in me, ho sentito l’usignolo.

Oooooooooh. God, un usignolo, vicinissimo, e mi sono ricordata che per qualche giorno era comparso anche l’anno scorso, nello stesso periodo. Ascoltando con attenzione ne ho sentito un altro che rispondeva.
Sentire gli usignoli mi fa sentire privilegiata. Come una tiara d’oro e diamanti. È notte. C’è il coprifuoco. Nessuna macchina rompe il silenzio. L’inquinamento luminoso non ci risparmia, ma sono fortunata, vedo il centro della volta celeste, e c’è sempre qualche stella quando non è nuvolo. L’usignolo cantava, dieci secondi. Poi, remota, la risposta. Sarà stato un corteggiamento? O ognuno dei due riaffermava il proprio territorio?

L’usignolo è un uccellino marrone e grigio, poco appariscente, poi lo senti cantare nel buio senza vederlo e non esiste più nient’altro, è la pura voce della notte e delle fate, delle tenebre e della gioia. Mi tornano in mente alcuni haiku. Uno è di Jorge Luis Borges, e fa strano, ma è perfetto, e così sudamericano:

16.
Lejos un trino.
El ruiseñor no sabe
que te consuela

Lontano un trillo.
L’usignolo non sa
che ti consola.

(da 17 Haiku)

Borges dà per scontato che io abbia bisogno di consolazione, ma non è così. O invece, che arrogante, non capisco che tutti abbiamo bisogno di consolazione, anche solo per il fatto diessere vivi senza capirci niente, e aver paura di morire, per di più.

Ma ora è notte, la sera è limpida dopo il temporale di stanotte, c’è una luna sottilissima che sembra una virgola storta tra due nuvole grigie e leggere, e sento di nuovo quel suono incantato. Non penso al ruiseñor, e nemmeno al rossignolet della macabra, antica canzone sul ragazzo che porta all’amante il cuore della madre, mentre nella notte buia risuona la «chanson sereine / du rossignolet jolie». Io penso all’uguiso , l’usignolo che è il kigo primaverile di tanti haiku giapponesi.

«Usignolo di fiume:
sui petali di pruno pulisce
le zampe infangate.»

Questo è Kobayashi Issa (1763 – 1828), uno dei più raffinati e famosi autori di poesia haiku.

Issa era un buddista della scuola della Pura Terra, forse la scuola più vicina ai concetti cristiani di paradiso e salvezza. È la compassione del Buddha Amida, a cui ci si rivolge col mantra Namu Amida Butsu, che può farci rinascere nella Pura Terra.
Anche l’idea di Mantra riporta a un tempo lento, scandito sì, ma che mira a scivolare fuori dal tempo. Un tempo sacro perché privo di qualsiasi orpello. Solo postura, voce. E tutto rallenta, e a tratti ti porta al centro di te stesso.

Ascolto il canto dell’usignolo e davvero, non è un mantra anche questo? In effetti, ho scoperto, il canto della Luscinia Megarthynchos, l’usignolo di cui parla l’haiku del samurai, che poi vi dico, viene percepito come “hooo hokekyoo”, e il Sutra del Loto, l’ultimo insegnamento del Buddha, è hokekyo. Un uccellino marrone e il Sutra che dice che il Buddha torna sempre a rinascere nel mondo, invece di entrare nel Nirvana, perché ogni singolo essere vivente deve poter trovare la Via, che è una affermazione rivoluzionaria e ribalta tutti gli insegnamenti precedenti. Le scuole buddiste erano tante e diverse, e certamente Issa invece il Buddha Amida perché lo tirasse fuori, alla prossima incarnazione, da questo casino.
E il samurai? È il mio haiku preferito sull’usignolo scritto da Issa:

«Il samurai
deve servire
anche l’usignolo.»

Fa un po’ Takeshi Kitano, è enigmatico: il samurai serve, come guerriero, un Signore. A lui si lega con una devozione che può spingersi al suicidio rituale Ma il samurai sa che l’usignolo simboleggia la modestia e la generosità della natura, in una posizione gerarchica superiore persino a quella del suo Signore. Perciò si inchina: si inchina alla compassione del Budda Amida, dei Buddha delle dieci direzioni. Alla grandezza e eternità in perenne cambiamento della natura, che è il modo in cui il mondo mostra amore. Si inchina per rispetto e consapevolezza.
La contrapposizione tra il samurai, che immagino come Itto Ogami, oppure vestito con le meravigliose armature che ho visto al MAO di Torino, e l’uccellino piccolo e bruno, che canta solo dopo il crepuscolo, e nessuno riesce mai a vedere, perché è piccolo, ed è buio, mi intrappola.

E penso: perché tanta ansia? Il mondo sta un po’ finendo, o ricominciando, non so. L’impermanenza non è mai stata così chiara, almeno per la mia generazione. Io però sono insonne, e felice. E mi inchino all’usignolo.

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