Infarto, dice. Il dottor Rozier è perentorio: Simon è morto. Nonostante tutta la sua scienza, dato che è impossibile che Simon sia resuscitato, il dottore deve essersi sbagliato. Perché pochi minuti dopo che il medico se ne è andato, Elisabeth vede arrivare Simon dalla camera in cui giaceva esanime. Si tiene la testa e le fa: “Quel micidiale mal di testa mi è passato. Sto meglio. Non perdere tempo a chiamare il dottore.”
Elisabeth non ha dubbi: Simon è tornato dalla morte per amore. È tornato per lei. La vita ricomincia, e così la loro passione, più intensa di prima. Ma è un’intensità viziata, o forse arricchita, da una nuova presenza. Il loro rapporto si è trasformato in un menage a tre, e il terzo protagonista è la morte.
Gli unici che rendono partecipi di questa strana situazione sono due loro amici. Judith e Jerome, i soli in grado di capirli, e di aiutarli, perché sono una coppia affiatata di pastori protestanti della città in cui vivono: Uzés. Sorretta dall’esaltazione religiosa della coppia di amici, Elisabeth vive questi giorni con uno strano entusiasmo, arrivando ad affermare che l’unica sua religione è Simon.
Presto purtroppo però Simon muore di nuovo. Per infarto. E questa volta davvero. Nell’attimo estremo di questa seconda dipartita Elisabeth gli promette che lo raggiungerà presto.
Benché desideri realmente suicidarsi, probabilmente a causa della sua educazione religiosa, Elisabeth non ci riesce. Così confida questa sua intenzione a Judith, la quale le racconta che, dieci anni prima, lei e Simon erano stati amanti e che la loro passione era stata tale da fargli intensamente desiderare di suicidarsi insieme pur di poter restare legati per sempre. Ma quell’intenzione non è rimasta altro che un’intenzione, perché, continua a spiegare Judith, l’amore è più forte della morte, ma la vita è più forte dell’amore. A questo punto, non sappiamo se, convinta o meno dal discorso di Judith, Elisabeth sale in macchina e se ne va nel buio della città. Forse a uccidersi o forse a vivere.
Sull’ultima inquadratura di questa sequenza, sul buio della notte, cominciano a scorrere i titoli di coda, che si aprono con una commovente dedica a Gerard Lebovici.
Il film, l’avrai riconosciuto subito, è L’amour à mort di Alain Resnais. Uscito nelle sale nell’autunno del 1984. Con una Fanny Ardant, mai più così bella e ambigua, nel ruolo di Judith.
Probabilmente non è uno dei film più riusciti di Resnais. E ci credo. Mica è facile, anche per un grande come lui, mantenere sempre il livello di cose come Hiroshima mon amour o Mon Oncle d’Amerique, con in mezzo altra roba come L’Année derniere à Marienbad o Stavisky, ma è comunque un film che reputo molto importante. Non per la storia in sé, che tratta argomenti e tematiche che mi lasciano sostanzialmente indifferente, fotte sega a me della religione e della morte; piuttosto per una questione formale. L’uso della colonna sonora di un grande compositore come Hans Werner Henze e del tono della voce degli interpreti, quale vero motore narrativo, al quale sapientemente si piegano le immagini nel geniale e invisibile montaggio di Albert Jurgenson. Ma non è questo, che meriterebbe un saggio a parte, il motivo per cui ho cominciato a parlarti del film.
Il motivo in realtà sono due. L’anno, il 1984, e il destinatario della dedica che chiude il film.
Quando, mercoledì 7 marzo 1984, tra le tre e mezza e le quattro del mattino, il commissario Jacques Genthial della squadra omicidi parigina, arriva sul luogo del delitto, riconosce subito la vittima. Il cadavere è stato ritrovato, a bordo di una Renault 30 TX, alle tre del mattino dalla guardia giurata Lakhdar Ben Kaled, mentre accompagnato dal suo fido rotweiler (non sono riuscito a scoprire il nome del cane, ma pazienza, l’atmosfera è già ben abbozzata così) faceva il solito giro d’ispezione al primo piano sotterraneo del parcheggio in Avenue Floch.
La testa della vittima è reclinata sul volante. È stato freddato con quattro colpi calibro 22 alla nuca. Si tratta di Gerard Lebovici, la cui scomparsa era stata denunciata dalla moglie due giorni prima. Nelle sue tasche vengono rinvenuti: il biglietto d’entrata del parcheggio, datato due giorni prima; un pezzo di carta con un appunto manoscritto, probabilmente un appuntamento: François, rue Vernet 18 e 45; e un portafogli pieno zeppo di contante. L’unica cosa che manca dal portafogli è il documento d’identità. Senza ombra di dubbio si tratta di un’esecuzione. Il documento d’identità lo ha preso l’assassino per darne prova al suo mandante.
Gerard Lebovici, Lebovisì come lo pronunciano i francesi, era il più importante dei produttori cinematografici di Francia, ma era anche uno degli editori più radicali e innovativi… potrei paragonartelo, per dartene un’idea a Giangiacomo Feltrinelli. Quello che sappiamo del suo ultimo giorno da vivo, lunedì 5 marzo 1984, è questo: verso l’una lascia il suo ufficio, in rue Kepler 11-bis, per andare a pranzo al suo solito ristorante, il George V, con Serge Siritzky, il distributore che controlla il maggior numero di sale in tutto il paese, poi torna in ufficio e nel pomeriggio, saranno state le 17 e 30 riceve una telefonata che la sua segretaria definirà molto ambigua e che si conclude con Lebovici che dice: “Continuiamo questa conversazione di persona!”. Dopo pochi minuti chiede alla segretaria di annullargli un appuntamento, chiama sua moglie avvisandola di scusarlo con gli invitati per la cena di quella sera, perché avrebbe potuto ritardare un po’. Anche se detesta guidare congeda il suo autista e, alle 18 e 30 alla guida della sua Reanault 30 Tx sgomma via.
Non se ne avranno più notizie fino a mercoledì 7 marzo, quando il suo cadavere sarà ritrovato nel parcheggio in Avenue Floch.
Verrà seppellito a Montparnasse. Al funerale partecipano solo sua moglie e un’amica.
Quando abbiamo cominciato questo viaggio, trent’anni fa, nel 1954 (se non l’hai mai fatto puoi cominciare a leggerlo da qui, ma preferirei che ti procurassi il volume dove ho raccolto i primi vent’anni) lo abbiamo fatto seguendo Guy Debord e Gilles Ivain nelle loro derive urbane. Le teorie debordiane sono alle fondamenta della struttura di questa storia, è per questo che questi primi capitoli di questa terza parte possono sembrarti così sconclusionati (non preoccuparti, più o meno tra due capitoli, le cose cominceranno a tornare).
Comunque.
Nato a Parigi nel 1932, in una famiglia di ebrei rumeni, Gerard Lebovici scamperà alla persecuzione nazista ma resterà per sempre segnato dalla deportazione e dalla morte della madre ad Auschwitz. Dopo la guerra, alla morte del padre, eredita la sua ditta di calzature, con i cui proventi fonda, con due soci, un’agenzia nel campo dello spettacolo: Artmedia. Avrà un tale successo da decidere di lanciarsi direttamente nella realizzazione di film, con una società di produzione, la A.A.A.
Quando, nel 1969, investe buona parte del suo patrimonio accumulato con il cinema, per fondare le edizioni Champe Libre, lo fa con l’intenzione di diventare la Gallimard della Rivoluzione e dare l’assalto al cielo. Nel 1971 la sua casa editrice ripubblica, dandogli una visibilità che fino ad allora non aveva avuto, La Société du Spectacle (grazie al suo grande amico George Kiejmane la Champe Libre poteva usare il canale distributivo di Gallimard), e lui si lega di profonda amicizia con Debord.
Nel 1974, Lebò, così lo chiamano gli amici, liquida la vecchia redazione e dà pieni poteri a Debord che cambierà radicalmente Champe Libre dandole una precisa identità situazionista.
Ecco. Questo momento, per questa storia che ti sto raccontando, è decisamente rilevante. Nel prossimo capitolo ti presenterò l’ultimo personaggio fondamentale di questa trama intricata, poi tireremo le fila di quanto raccontato fin qui, ripartendo proprio da quel 1974 dove ci eravamo lasciati alla fine delle Bande a part(e). Ricordi?
Non so se lo sai. Quindi te lo dico per soddisfare la tua curiosità. Né l’esecutore, né il mandante dell’omicidio di Lebò furono mai scoperti. Anche se ci sono svariate teorie complottiste (dalla vendetta di un marito geloso, al contrabbando di videocasette pirata, dai debiti di gioco, allo spionaggio, a un regolamento di conti per il legame che aveva con Sabrine, la figlia di Jacques Mesrine) non sapremo mai né perché né da chi Lebò venne ucciso.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.