dove si afferma programmaticamente ma anche un po’ apoditticamente (a dire il vero) – non preoccuparti però: la dimostrazione articolata e sistematica seguirà nelle prossime puntate – che la definizione di “lettura per gli sciocchi” con cui a lungo si sono additati i fumetti, è in realtà un titolo di onore e in che misura invece, nel tentativo di sfuggirle inseguendo l’approvazione letteraria, certo fumetto contemporaneo si stia normalizzando.
Originariamente pubblicato su “Satisfiction”
Sono stato un idiota. Potrei farlo scolpire sulla mia lapide.
Magari in terza persona. Che suona meglio: è stato un idiota.
Solo che poi dovrei farci aggiungere una lunga postilla di spiegazione. Te le ricordi quelle belle e chilometriche didascalie che ti impigliavano la lettura di Tex per spiegarti quello che stavi guardando (e che ovviamente, da quando avevi capito che non servivano a un cazzo, saltavi paro paro)? Ecco. Una cosa simile. Tipo questa: è stato un idiota ma non in senso volterriano e nemmeno dostoevschiano.
Infatti. Non sono mai stato caratterizzato dall’ingenuità di un Candide, né dalla bontà di un Myskin.
Sono stato un idiota. Perché ho sempre letto i fumetti. E lo sono tuttora perché, perdonami la rima, li leggo ancora. Come sai i fumetti sono sempre stati letture per gli sciocchi.
Adesso, da quando si sono inventati le graphic novel, è vero che le cose sono leggermente cambiate. Al punto che, figurati, nelle classifiche dei libri di narrativa più venduti ci arriva primo un fumetto. E certe opere a fumetti vengono persino candidate ai premi letterari. Non li vincono ancora, ma questa cosa è comunque il sintomo di un cambiamento epocale.
Significa che adesso anche quelli che mi guardavano come un idiota (tipo le professoresse d’italiano delle scuole medie) perché leggevo “Mister No”, leggono i fumetti.
Certo. Sono convinti che la roba che leggono loro sia meglio dei giornaletti che leggevo io; ho sentito una di queste professorine di terza media dire in TV: «Penso che oggi i veri intellettuali siano quelli che fanno fumetti». E sventolava uno di quei libri lì, sgocciolanti metafore letterarie e impegno civile.
No. Non è roba migliore. È solo più adatta al tipo di lettori che sono loro. Non è meno sciocca, perché funziona nello stesso modo in cui funzionano i fumetti.
Quello che hanno fatto questi nuovi autori che sono riusciti a sdoganare il fumetto verso i lettori di cose “intelligenti”, impegnate e letterarie, è stata un’operazione molto furba: piegare la struttura politestuale del fumetto verso il più facile dei suoi aspetti testuali: quello letterario, camuffando con questa maschera d’intelligenza (per come l’intelligenza la intendono le professoresse di terza media) una cosa che comunque non è meno sciocca di tutti gli altri fumetti, lo sembra solo.
Per dirla semplice: ci hanno appiccicato sopra una patina di letterarietà che fa credere a chi legge di non avere tra le mani un fumetto, ma un reportage, un romanzo, poesia addirittura. Solo accidentalmente grafici.
E come ci sono riusciti?
Ci sono riusciti perché il tuo sguardo quando guarda/legge un fumetto si sposta su domini molto sfumati, che coesistono e si muovono assecondando lo sguardo, e sovrapponendosi: quello dell’immagine e quello della scrittura.
Il fumetto è come quei palinsesti del VI secolo d.C. Nei quali c’erano continue sovrapposizioni di più livelli di scrittura e di immagini. I nuovi autori, fanno questo: portano, usando il ricatto (narrativo, per carità, quindi lecito) etico, al livello più evidente del palinsesto fumetto quello della scrittura morale (quindi letteraria) a discapito di quella delle figure. Come lo fanno, ognuno a suo modo, sarà uno dei temi di indagine sistematica dei prossimi capitoli di questa rubrica. Quello che posso sottolineare qui, come indicazione iniziale, è che non lo fanno mai con la violenza e la consapevolezza teorica di quello che può essere considerato in questo senso il più grande autore sul quale tutti loro, probabilmente, si sono formati: Tiziano Sclavi.
Lo fanno per intuito, per istinto, per furbizia (alcuni anche per incapacità), perché comunque è una cosa che piace a quelli che leggono i libri. Ma non hanno consapevolezza di questo fare.
Fuori dai denti: sapere padroneggiare tutti gli ambiti strutturali di una narrazione a fumetti richiede competenze e analisi che la maggior parte di questi autori di romanzi grafici non ha. Le loro storie sono tutte risolte sul piano espressivo come fossero letteratura, con un’attenzione smodata per quello che si racconta (troppo spesso se stessi) di contro al come lo si racconta. Questo mina alla base quella profonda unità formale che caratterizza il fumetto migliore, in cui quello che si racconta è come lo si racconta.
Il loro discorso è quindi normalizzante. Banalizzante. Se da un lato amplia il pubblico del fumetto dagli idioti come me che leggono quando non hanno di meglio da fare a quelli che invece i libri li leggono per un perché, dall’altro ripulisce il fumetto da quell’ambiguità morale che era la sua forza ed è la sua natura.
Quello che stanno facendo, è di rendere il fumetto una lettura prima di tutto utile, che si affronta per motivi pratici ed etici (quei cazzo di stramaledetti perché con cui i lettori giustificano il loro leggere), necessaria tanto quanto quella delle etichette delle mutande prima di lavarle.
Per fortuna la storia del fumetto è costellata (prima e adesso, nonostante codesti autori) di autentici capolavori, di vere entusiasmanti, incredibili, esaltanti, e soprattutto immorali letture per gli sciocchi.
Bisogna non aver paura di esserlo – almeno per quel momento di godimento puro e assicurato dalla lettura dei fumetti più belli – sciocchi.
Sono stato un idiota.
Lo sono ancora.
Sono qui per raccontartelo.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.