#1

Le prime madonne che ho sentito volare in una canzone vengono da qui. Le migliori. [FP]

#2

Non è una bestemmia (almeno non come ce la si immagina normalmente). Però “tecnicamente” lo è, e di quelle toste. Anzi, dire Io se fossi Dio per certi versi è la peggior bestemmia che ci sia. Sicuramente è un pezzo feroce. Anni dopo Gaber ne realizzò una versione “aggiornata”, disponibile solo in rare riprese teatrali e confluita in un dvd, ma mai incisa su cd o vinile. Ma io dico che quell’invettiva è utile risentirla proprio nella sua versione originale, postata qua sotto. Poco importa se suona datata. [FB]

#3

Fabrizio De Andrè ha rappresentato la mia emancipazione (tutta adolescenziale) dalla provincia. Se cresci in un quartiere periferico con un tasso di violenza altissimo (in decenni in cui la parola bullismo era sconosciuta), la musica che riempie la tua vita e la piazza in cui trascorri la gran parte del tuo tempo può essere molto brutta. Rischi di attivare filtri sensoriali che te la fanno elidere dallo spettro dell’udibile. La violenza dei discorsi in strada diventa sopportabile semplicemente perché non la senti. E allo stesso modo la musica. Poi, a un certo punto, ti ritrovi quattordicenne e qualcuno ti mette in mano un nastro che contiene canzoni che raccontano storie. E la narrazione verbale ti costringe ad ascoltare la musica. Conosco a memoria tutte le canzoni di De Andrè, ma non riuscirei a tenere un suo disco nel lettore per più di cinque minuti. Siccome la mia canzone di bestemmie se l’è rubata Lorenzo (era mia, sciagurato! te l’ho fatta scoprire io!), metto qui una canzone che promette una blasfemia che non arriva mai. [PI]

#4

Se devo cercare una bestemmia in una canzone italiana, penso irrimediabilmente a «È inutile, non c’è più lavoro / Non c’è più decoro / Dio o chi per lui / Sta cercando di dividerci / Di farci del male, di farci annegare». Una canzone bellissima che apre, nel 1977, un disco perfetto che arriva dopo l’esperienza, durata quattro anni e tre dischi, con Roberto Roversi. Una canzone che mi ha segnato tanto se, come mi fa notare Francesco Pelosi, continuo a inserirla nelle playlist più disparate.  [PI]

#5

La bestemmia è un insulto sciocco e inutile rivolto a una creatura di fantasia che si fa sempre portatrice di valori e imposizioni. Mi piace allora che un cantante che pare nato apposta per violare tutti i vincoli imposti da dèi, uomini e dottrine abbia scelto di chiamarsi Serpentwithfeet. Non so da dove arrivi quel nome d’arte, ma, nella mia fantasia maturata in provincia e senza il calore di una musica che la scaldasse, è un evidente riferimento al serpente biblico, quello che induce il primo uomo e la prima donna a violare la regola che imponeva di stare alla larga dai frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male. Com’è dolce questa bestemmia. [PI]

#6

In un numero dedicato alla bestemmia, non può mancare Brassens. Del quale tra l’altro, bellissima ricorrenza assolutamente casuale, quest’anno ad ottobre, ricorrono il centenario della nascita e il quarantennale della morte. [BB]

#7

«Non ti rivolgo omaggio, a te che te ne stai nei cieli… che ti pavoneggi in mezzo ai massacri, protetto dai tuoi doberman, credendo di essere il mio dio». Nel 1994 Allain Leprest, dopo Gainsbourg (citato in questa canzone) il mio chansonnier preferito, pubblica il suo quarto album in studio, programmaticamente intitolato 4. La quattordicesima traccia è la più alta bestemmia che io abbia mai sentito in musica (per la precisione, il testo è di Leprest, la musica di Romain Didier). [BB]

#8

Santa Marinella è il materiale di risulta esemplare di un’esperienza tragico-picaresca (più “tragico-” perché ha riguardato e continua a riguardare, con fortune peggiori, milioni di persone) che porta uno sfollato russo-rom-ucraino per colpa di Chernobyl a attraversare mezza Europa lungo vari anni, con una rotta così difficoltosa da essere quasi una Tregua dei nostri tempi. Evgenij Aleksandrovič Nikolaev-Simonov, in arte Eugene Hütz, finisce in Vermont, poi a NY e dentro la fama mondiale, ma prima, per un po’ di tempo sosta in Italia, non lontano da Roma, appunto, a Santa Marinella. Il pezzo sembra un po’ il tritovagliatore del disagio, dell’irrisione, del disprezzo in un coacervo di imprecazioni slegate impastate di cirillico, confezionate però da oltre oceano, dal Nuovo Mondo. “Sono emigranto” un po’ mi fa venire in mente Naufragio a Milano di Paolo Conte, che è anche un’esperienza di vita vissuta, da colletto sbiancato, quindi in versione assai più soft. A noi colletti, quando la si ascoltava, Santa Marinella ci trasmetteva una carica bestemmionichilista che pareva commisurata alle nostre traversie, perché anche se più calda e comoda, vivevamo anche noi un’esperienza tragico-picaresca. E non credo abbiamo smesso. [LC]

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