Scrivere nella settimana successiva a quella di un pezzo emotivamente e materialmente impegnativo come quello della settimana passata è decisamente, ulteriormente difficile. Dopo aver evocato fantasmi imperituri che affliggono la società umana quali lo sdilinquimento per i dittatori sanguinari, il terrore della libertà, l’amore appassionato per il procurare morte e sofferenza, dopo aver recuperato pezzi di resistenza variamente intessuta a partire dagli elementi stessi dei mali appena ricordati, di esperienza inestricabilmente apparentata a quella della guerra, dopo aver occhieggiato, anche se implicitamente, al fatto che l’oggetto della lotta viene puntualmente dissacrato e strumentalizzato da chi ne ha anche solo voglia, dopo riflessioni di tal fatta, come può l’immagine del tema di questo mese non ricondurre, in modo istantaneo, con la potenza di un magnete da 100 Tesla, ai comignoli dei forni crematori, in primo luogo, ma anche alle colonne di fumo sopra le città annientate dai bombardamenti e sulle linee del fronte delle battaglie più sanguinose?
Una delle rivelazioni più eclatanti, anche per chi scrive (ché uno pensa, erroneamente, che visto che è lui che scrive dovrebbe sapere le cose che ha nella testa prima di scriverle), è stato il fatto di realizzare che, nel riflettere sull’esperienza dello studio della pratica della musica, emergono comunque fenomeni mentali e culturali che hanno totalmente a che fare con la lotta contro i totalitarismi. Anche nelle nostre capocce. Quindi, ancora per un po’, magari dal prossimo giro mi dimenticherò del registro, toccherà sentirmi parlare di fascismi, di guerra e di lotta senza quartiere, spesso senza speranza.
Finisco sempre, con una regolarità metodica da storie di vecchio nonno, per ricordare quello che scrive Eliot in Gerontion, un componimento che avrebbe da solo gloria immortale, per il taglio di luce che fa cadere sulla Storia e sull’io contemporaneo, se T.S. non avesse scritto The Waste Land:
After such knowledge, what forgiveness?
Lui in battaglia non c’è stato, lo dice chiaramente, nondimeno sarebbe stata comunque inevitabile la corruttela del tempo e degli oggetti, materiali, organici e inorganici, che si accumulano e deteriorano in un contesto guidato dal profitto, dall’illusione, dalle lusinghe di promesse fatte da entità incorporee come la Storia. Come un esagramma Po che non funziona e non riesce a innescare una ripresa attraverso la frantumazione, la Storia innaturale della società contemporanea esegue la frantumazione ma lascia i pezzi lì, dal decadimento non si genera rinascita, la decomposizione non restituisce ingredienti utilizzabili, forse perché non avviene neppure, almeno non completamente. Vengono alla mente spunti sin troppo facili: la pervasività della plastica, l’accumulo di metalli pesanti nella catena alimentare, lo spopolamento da inquinamento radioattivo. Ma anche i Romani erano riusciti a smerdare non poco l’atmosfera e le falde acquifere con le loro attività minerarie (un buon esempio è quello di Las Médulas, nel Nord Ovest della Spagna) e a disboscare in modo irreversibile vari contesti naturali. E quindi? Niente di nuovo, è una questione di tecnica, allo stesso modo in cui oggi servono le terre rare per fabbricare parti non irrilevanti dei dispositivi che usiamo per ciarlare in continuazione e riempire i cloud storage di foto malfatte che, in gran parte, non riguarderemo mai più.
E quindi? Quindi siamo legati a filo quadruplo a questo modello di civiltà che frantuma e non ricompone e non abbiamo avuto, finora, nessun precedente nel disinnescare il meccanismo che sostanzia tale modello. Abbiamo un po’ rallentato, ci siamo un po’ astenuti. Le armi nucleari son state usate poche volte, i motori a scoppio hanno livelli di emissioni via via inferiori (anche se ci piace barare), la produzione di gas serra si è talvolta localmente ridotta (spesso spostandone le cause altrove). Nonostante le prove materiali, le conseguenze tangibili della gestione frantumante, da noi, e con noi intendo l’Italia, le istanze politiche che sottolineano questi aspetti hanno meno successo, come diceva mia nonna, di un cane in chiesa (quando non è il 17 gennaio). I vari raggruppamenti costituitisi con un taglio verde finiscono per prendere poco più voti di una lista antiabortista approntata dal primo pachiderma giornalistico di passaggio. Andando un po’ più a nord, oggi i Grüne tedeschi sono il primo o secondo partito nei sondaggi sulle intenzioni di voto alle elezioni federali del 2021.
Tra una promessa di mondo giusto che verrà comunque, solo perché il progresso non ferma la sua marcia, e la cappa cupa di un dubbio che dice che forse non abbiamo risolto i problemi sottostanti a quella passione per il macello e che, probabilmente, in molti casi il livello di sacrificio sostenuto da alcuni è stato completamente immeritato per i beneficiari, la cappa continua a farsi sentire di più. Certo, si finisce tacciati di snobistico pessimismo, ma è una voce necessaria che deve fare da contraltare a quelle dei «visionari» che insistono ad aizzare polemiche o, che è pure peggio, a combinare veri e propri disastri, pilotati dall’esigenza del mantenimento del consenso – ma spesso anche da una crassa stupidità, come diceva C.M. Cipolla (ma è pericoloso citarlo, perché ormai l’effetto Lake Wobegon fa sì che gli stupidi stessi citino con convinzione il loro fustigatore).
Scrive un condannato a morte della Resistenza, non ancora ventenne:
Sui nostri corpi si farà il grande faro della Libertà
Andate a leggervi Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945, c’è tanto materiale per poi alzare lo sguardo, guardarci intorno e riflettere in abbondanza. Certo, per molte di quelle persone la morte fu conseguenza di scelte esplicite e consapevoli – quindi il repubblichino eterno dirà che se la sono cercata. E sia pure, la domanda può anche diventare: quanti se la cercherebbero oggi?
Il condannato, va notato, con una precisione micidiale e assonanze agghiaccianti, stabilisce in modo non ambiguo che la costruzione del totem della Libertà sarà materialmente eseguita sui loro corpi, crivellati dai colpi del plotone d’esecuzione. È la logica del mattatoio, dignificata (a ragione), rivestita della speranza che la massa di corpi morti abiliti le fondamenta di qualcosa, piuttosto che no, vissuta con il coraggio degli sguardi che sostengono la privazione della speranza – affidandosi anche al conforto della fede in divinità bianche, o rosse – ma è pur sempre il mattatoio. I corpi uccisi alimentano la causa di qualcosa che ha un’iniziale maiuscola.
Sarebbe bello, bellissimo, smetterla di lottare per concetti categorici, iperurani. Avete presente quanti crimini vengono commessi in nome dell’Amore? Certo, quando la Libertà appare distribuita in modo evidentemente iniquo alcune persone iniziano a non starci più – specie quando il sistema inizia a mostrare le sue crepe. I morituri di allora si affidavano, non potendo averne più per sé, alla speranza in un futuro migliore e una tale speranza non è stata vana, perché oggi non abbiamo uno che fa Himmler o Goebbels di cognome come Conducător di un Reich millenario di cui faremmo senz’altro parte. Anche se a molti sembrerebbe non dispiacere uno scenario simile.
Ecco un paradosso della Libertà – il faro di cui scriveva il condannato è stato in un certo senso edificato ma ci hanno fatto una discarica abusiva subito accanto e i passanti si fermano a pisciarci sopra. Come si saprebbe se mi si leggesse (cosa che, del resto, vi sconsiglio caldamente di voler fare), tendo a rifuggire dalle nozioni di sacralità ma assegno un valore al fatto di poter avere un piccolo armamentario di oggetti della memoria a cui ancorare i concetti e i dettami delle esperienze veramente importanti. C’è modo e modo di raccontarli senza far loro troppo torto. Ché poi il torto in tanti casi è anche quello di avere pratini all’inglese ben rasati, marmi abbaglianti e poi fottersene della memoria, in un tripudio di retorica. Il sacrario, il monumento ai caduti, l’arco di trionfo, mettono spesso insieme una quota mal sopportabile di messinscena che sovrasta tutto il resto. Austerità e semplicità sono le soluzioni migliori per non imbarocchire quel che non se lo merita proprio. Ma son pareri personali, eh! Vale anche ricordare che dà conforto quel che dà conforto e il temperamento del lutto ha tante modalità in giro per il mondo. Quello che va ricordato però, riprendendo il concetto di asimmetria che evocavo l’altra volta, è che per alcuni il lutto può essere anche collettivo, per altri necessariamente solo familiare – perché quella parte era decisamente sbagliata. Eppure, anche sui corpi dei morti di parte sbagliata si è costruito, in malissima fede, apparati malsani destinati a eccitare le membrane (pesco ancora nell’imagery eliotiana) di molti a colpi di «ma anche». Cari amici fascisti, non dovete preoccuparvi, né darvi particolare pena, basta lavorare di conserva, attendere, attendere tra l’altro che quel faro della Libertà diventi così sporco di brutture posticce da poter dire che non va più bene, che non serve più, e i frutti arriveranno.
Po, l’esagramma dell’I Ching a cui mi è venuto fatto di pensare è accompagnato da una descrizione che dice, almeno secondo la traduzione di Wilhelm, che la forza oscura, infera, è superiore e più forte, non in ragioni di mezzi diretti, ma perché ha una capacità intrinseca e impercettibile di minare, di corrodere il suo obiettivo fino a farlo crollare. La «sentenza» dell’oracolo è che non è opportuno intraprendere alcunché, è saggezza e non viltà restare quieti ed evitare l’azione.
Ma cosa si fa quando la ruota dell’oracolo è rimasta incastrata sull’esagramma spezzettante?
Sposto l’attenzione dall’editor di testo al browser e vedo subito un paio di notizie: al di là dei camerati che si ritrovano a Dongo (il punto non è impedirglielo in assoluto ma impedire una cazzo di manifestazione facendo finta che sia una manifestazione che si può effettivamente autorizzare), mi colpisce ancora di più il caso del servizio del TG Regionale dell’Emilia Romagna che riconosce ai partecipanti, etichettati come «patrioti», a un raduno di estrema destra il merito di avere proseguito «tranquilli» nonostante qualcuno, da un condominio vicino, avesse attaccato Bella Ciao a tutto volume, come provocazione. Del tipo, guarda bravi, vedi che non sono squadristi, non hanno menato nessuno?
Ora, ma non sarebbe più sensato, decente, verso quel faro costruito sui corpi di tutti quegli sciagurati, dire che, nonostante tutto, non è un così gran pezzo da pagare, per quei feticisti necrofili, sorbirsi un po’ di Bella Ciao mentre sciorinano le loro litanie? Su quali corpi l’abbiamo costruito il faro? Mica su quelli di tutti, no? Perché, altrimenti, quali istanze rappresenterebbe?
Tutto ha almeno due facce ma tutto non può avere, quando si tratta di decidere a quali dettami si intende aderire, tutte le prospettive possibili. Pensando a un posto che di fumo ne ha visto tanto, proprio perché i fuochi che ci bruciarono furono immani, mi viene da mettere a confronto le opinioni di due testimoni oculari della vicenda del bombardamento di Dresda, un momento chiave, una pietra angolare nel definire i lineamenti dell’epoca contemporanea, anche grazie (molto grazie) a Kurt Vonnegut.
Victor Gregg ha centodue anni. Uso il tempo presente perché non trovo traccia di notizie di una sua dipartita. Militare di professione, nel Parachute Regiment britannico durante la guerra, caduto prigioniero nella battaglia di Arnhem (capolavoro tragico di quel mediocre di Montgomery), detenuto a Dresda in attesa di sentenza capitale – per avere mandato a fuoco la fabbrica di sapone in cui lavorava come forzato. A Dresda assiste al bombardamento, organizzato secondo le modalità consuete, inglesi di notte, americani di giorno, più di settecento Lancaster per i primi, oltre cinquecento B-17 per i secondi, per un totale di circa tremila novecento tonnellate di bombe dirompenti e, soprattutto, incendiarie (fosforo bianco e napalm inclusi). Il conto più plausibile dice che le perdite della giornata assommano a venticinquemila vittime, corpo più, corpo meno. Gregg scampa (a differenza di molti prigionieri di guerra alleati che periranno per il fuoco amico) al macello e riesce a raggiungere i sovietici in rapida avanzata verso Ovest. Come immaginabile, la questione di Dresda è considerata, specie negli ambienti di destra in Germania, vicenda esemplare per assegnare una responsabilità di crimini di guerra alle forze alleate. Ma non sono i soli, non ricordo più se fosse il generale Spaatz, responsabile delle forze aeree strategiche in Europa, o altri, a sostenere che se a vincere la guerra fossero stati i tedeschi, nell’equivalente di Norimberga sarebbero stati lui e i suoi colleghi a essere mandati a morte per crimini di guerra. Gregg non rinnega il suo passato di militare ma afferma, ha continuato ad affermare, che quel bombardamento fu un crimine. Non ha bisogno di andare a un convegno di un’estrema destra qualsiasi. Ha pubblicato un libro di memorie e si trovano varie sue interviste in rete, se si vuole ascoltare la sua voce direttamente.
Eberhard Renner aveva dodici anni ai tempi di quel 15 febbraio 1945. Non so se sia ancora in vita, lo era certamente alcuni anni fa quando, intervistato dal Guardian, ha raccontato della sua esperienza sotto le bombe. La sua famiglia ebbe la buona sorte di vedere la propria abitazione intatta dopo il passaggio della prima ondata di bombardieri – certo, quella dei vicini bruciò, con i vicini dentro, ed è notevole sottolineare, lo fa Renner stesso, come la constatazione della fine che stavano facendo quelle persone non li toccasse particolarmente. Tutto quel che fecero fu allontanare la recinzione in legno del giardino dalle fiamme. Alla seconda ondata andò un po’ peggio, almeno per la casa, e la famiglia dovette abbandonarla, dando il via a una scorribanda folle, con un carretto carico di oggetti (più o meno di valore, più o meno utili) tirato qua e là in mezzo a bombe inesplose, manti stradali resi liquidi dal calore, e pile di corpi. Ripararono da parenti, nei sobborghi, tornando in città solo otto giorni dopo – molti edifici stavano ancora bruciando e nella Altmarkt Plazt settemila corpi attendevano di essere cremati. Ironia amara e macabra, dover aggiungere altro fuoco al fuoco per scongiurare epidemie e altra morte. Un passaggio chiave lo trovo nel momento in cui iniziano a cadere le bombe e la famiglia si ritrova in cantina con alcuni vicini e il padre di Renner, non ricordato come un cuor di leone, esclama «sono quei criminali che dobbiamo ringraziare per questo!» alludendo a Hitler e agli alti gerarchi nazisti. Renner ci dice che «tutti sapevano cosa stava accadendo, anche della caccia agli ebrei. Chiunque, oggi, tenti di negarlo, mente». La colpa del bombardamento è da imputare a Hitler ma la domanda vera è se fosse veramente necessario uccidere venticinquemila civili.
Due punti di vista che potrebbero essere opposti ma che non lo sono e danno prospettiva insieme. Contro il fascismo di prima e quello di dopo. Anche se i più, purtroppo, tendono a denunciare quando le bombe stanno ormai già cadendo.
Avevo promesso meno di duemilacinquecento parole. Non so più se ho mantenuto la mia promessa, è una questione di principio, spero di sì. Solo, non riesco a capacitarmi di come, qui, oggi, sia tutto zap!, burp!, prot!, fancul!, con un dibattito che è quasi solo zuffa, rissa e gavettoni di escrementi. La sensazione di aver costruito qualcosa di solido su quei corpi è più un dubbio che una certezza.
Nel frattempo, inutile sottolinearlo, la pratica musicale langue. Probabile che sia necessario tornare a suonare, insieme a qualcuno, anche male, ma pur sempre insieme, qualcosa.
[Noto con un certo ritardo che questo è il ventitreesimo mio contributo qui su QUASI. Nella smorfia napoletana il 23, poi, è ‘O Scemo, il cognitivamente limitato (ma forse anche il buffone, il giullare)]
È un percorritore di sentieri interrotti, un professionista dell’amatorialità spinta, un fan della bassa visibilità. Ha studiato amenità umanistiche ma anche il bric-à-brac aziendale. Con il secondo riesce a pagarci i conti. Lettore compulsivo di TS Eliot, Céline, Pynchon, Heller, Vonnegut, PK Dick. Ciclista da strada incidentato, ormai dismesso, curriculum da improbabile sopravvissuto. Quando formarono la band era rimasto solo il basso e quello prese. Nei decenni si è rivelata una non-scelta piena di senso.