(Le illustrazioni sono di Lucia Lamacchia, che è responsabile di quanto segue almeno quanto lo sono Ugo e Michel.)
Mi pare chiaro. Invecchio malissimo. Sognavo un futuro sulle panchine a dare da mangiare ai piccioni. Oppure, al limite, a oscillare con le mani dietro la schiena mentre guardo un cantiere e regalo agli operai le mie preziose opinioni tecniche. Invece, no. L’indurimento della corteccia cerebrale mi ha posto di fronte a un bivio. La prima strada prevedeva che io mi rincoglionissi e divenissi vittima di una coazione a ripetere che mi avrebbe costretto a cercare conforto e sicurezza nella ritualità. La seconda mi poteva condurre a istanze reazionarie e incapacità di capire il presente. Era un bivio, cazzo! Le due strade dovevano essere in alternativa. Come cazzo sono riuscito a imboccarle tutte e tutte insieme? Ho mandato a fanculo la possibilità di avere rimpianti e ora sono rincoglionito, costretto a fare sempre le stesse cose e incazzato nero con un mondo che non capisco.
Mentre mi convinco che l’umanità non ha speranze, di solito, cerco conforto in grandi pensatori. Uomini che con la loro tensione morale ed estetica hanno illuminato il buio del nostro pensiero. Li chiamo classici. Ecco… Un classico è proprio quello: una storia che mi permette di non odiare l’umanità e il presente anche quando l’idiozia divampa. Se non ci fossero i classici non avrei alcun motivo per non organizzare una spedizione ai confini dell’universo alla ricerca di una razza superiore. «Ciao, sono un umano. Se mi seguite vi faccio vedere la Terra. Per favore, invadetela. Garantisco resa incondizionata.»
Per esempio adesso, per non invocare lo sterminio istantaneo di massa, sto ripetendomi in testa una delle tragedie in due battute di Achille Campanile.
Il fiorellino: «Che bella cosa essere nato vicino a te. Così tu mi ripari dalla pioggia. Ma dimmi: sei un vero ombrello o fungi da ombrello?»
Il fungo: «Fungo.»
Fungo. Ecco… sono già più sereno. Vedi che i classici funzionano sempre?
Nah. Inutile. Cazzo! Mi ero tranquillizzato e ‘sto stronzo lo ha ripetuto. “Token non fungibile”. Ora lo afferro per il bavero e, scandendo le sillabe al ritmo dei tonfi del suo cranio contro il muro, glielo chiedo con la mia calma usuale: «CO-SA-CAZ-ZO-SI-GNI-FI-CA-FUN-GI-BI-LE?»
Mi devo calmare. È tutto così strano. Innanzitutto, non mi sarei mai aspettato che ci accogliessero così. Siamo entrati in questa palazzina liberty che, siccome non dichiarava adeguatamente la pacchianeria dei residenti, è stata violentata da una targa dorata con un logo che inizio a odiare: “Cash Art”. In una reception in cui esplode uno sfarzo che vorrebbe significare ricchezza ma che riesce a essere solo cafone, Michel ha dichiarato le nostre generalità. Ha aggiunto che avevamo un appuntamento con il dottor Guittoni.
Il tipo in divisa lo ha guardato truce, ha controllato il terminale, ci ha dato tre schedine plastificate con molletta, raccomandandoci di tenerle ben in vista, e ci ha indicato l’ascensore, «Quinto piano». Nella cabina siamo stati silenziosissimi godendoci l’odore acre di disinfettante. Appena le porte si sono aperte, c’erano i due energumeni che Michel aveva pestato come bistecche a casa dello zio di Michela. Le fasciature e le facce tumefatte li rendevano molto meno minacciosi. Appena ci hanno visto, tenendo le mani ben in vista e lontane dal corpo, e muovendosi lentamente, ci hanno invitati a seguirli, «Prego, il dottore vi aspetta.» Camminavano davanti a noi. Il più piccolo, quello con la mano ingessata, continuava a gettare sguardi preoccupati in direzione di Michel. Mi è parso gli fibrillasse un occhio.
Armando Guittoni ci ha accolti nel suo studio senza staccare le sue preziose terga dalla pelle della sedia ergonomica. Michel ha ignorato la sua mano tesa e ha detto «Rivoglio il mio pensatore». A quel punto lo sguardo porcino di Guittoni ha iniziato a saettare in tutte le direzioni. Ha invitato Michel alla ragionevolezza e gli ha detto che avrebbe pagato il pezzo di Camille Claudel a un ottimo prezzo e poi lo avrebbe distrutto per trasformarlo in un “token non fungibile” (aaaargh!) rendendolo eterno nonostante la caducità della materia scelta per quella scultura che non dovrebbe esistere.
E poi ha continuato a ripetere “token non fungibile” diventando la macchietta del critico d’arte. I giornali sono pieni di articoli che parlano di queste robe (e di blockchain e di criptovalute), ne leggi un paio e l’unica cosa che capisci è che non puoi capirci un cazzo, perché nessuno ci ha capito un cazzo. Trasformano l’esperienza estetica dell’unicità dell’arte in un contratto. Hanno letto Benjamin e non l’hanno capito: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica è parsa loro una maledizione. Mica vogliono bellezza ovunque per lenire il dolore dell’umanità. Vogliono essere gli unici proprietari di qualcosa che non esiste più: è una cosa loro, perché lo dice un contratto. Perché l’arte, per questi sciacalli illetterati, per questi pezzi di merda incompetenti, non è una questione di bellezza, gioia, dolore, amore, odio, sesso, violenza, vita. Per questi maledetti bastardi senz’anima che pasteggiano con i nostri cuori è solo questione di proprietà e denaro. Glieli infilerei nella trachea i suoi token non fungibili. Che ci si strozzi.
Venite, alieni! Non perdete troppo tempo a delineare una strategia di invasione. Questo pianeta è già vostro. Liberarsi degli umani è un attimo e potrete godervi la tranquillità dei piccioni e dei cantieri deserti per l’eternità!
Odio tutti!
Token non fungibile!
Cazzo!
Aspetta… Ma ho capito bene?
Mentre Guittoni continua a parlare di commercio e proprietà, Ugo bisbiglia qualcosa. Un suono sottile, come se volesse chiarire qualcosa ma la puntualizzazione si incagliasse da qualche parte tra la gola e la mascherina.
«Cosa hai detto?», chiede Michela mentre gli stringe un braccio, facendosi sentire dalla congrega di maschi nella stanza. La voce femminile, inattesa, si scava una nicchia di silenzio nell’arringa di Guittoni.
«Camille Claudel?», riesce finalmente a dire Ugo con un tremito nella voce che i presenti interpretano come paura.
«Be’, certo! Non lo sapeva?», risponde asciutto Guittoni.
«Ma non dica cazzate!», gli grida in faccia Ugo. E farebbe anche un passo avanti minaccioso, se non fosse che Michela lo àncora sul posto.
«Dottor Guittoni», interviene Michel, «sia ragionevole. Non ci sta facendo una proposta di acquisto. Lei ha rubato un oggetto che mi appartiene e me lo deve restituire. Non c’è un tavolo di trattativa.»
«Parole grosse! Come si permette? Rubato? Di cosa stiamo parlando? Lei, signor Piccoli, ha un documento. Una lettera. Sono disposto ad acquistarla.»
«E io non sono disposto a venderla. Mi restituisca la miniatura.»
«Non so di cosa parla. E la sua insistenza sta diventando molesta. Siccome mi dicono che lei sia un individuo pericoloso e violento credo sia meglio che ve ne andiate. Non vorrei che questa visita si trasformasse in una violazione.»
Poi, rivolto ai due sgherri, «Adolfo, Benito, accompagnate i signori all’uscita.»
Mi ronza la testa. Siamo di nuovo in auto e torniamo a casa. Nessuno parla.
Camille Claudel?
Una lettera?
Cosa sta succedendo?