Sono un intellettuale. Tutto quello che so dell’amore e del sesso, l’ho imparato dai fumetti. Anche le poche, pochissime, cose che so sui sex toys, mi arrivano da lì. Per quel che ne so, sono manufatti utilissimi a intensificare le gioie del corpo. Il mio è un sapere tutto teorico (te lo dico vergognandomi, eh) e, se tu invece ne avessi informazioni di prima mano, potrei ascoltarti per ore mentre mi racconti tutto. Se a quel punto ti venisse in mente di tendermene uno, so che l’evento mi scatenerebbe alcune domande. Non è un po’ grosso? Chissà chi lo ha usato? Chissà se è stato lavato bene? Come si suona?
Un oggetto meccanico, privo di volontà propria, progettato per dare piacere al suo utente, che migliora la propria performance con l’aumento della capacità d’uso. Che meraviglia: sembra il concentrato di tutto quello che cerco dalla tecnologia. In ogni campo. Queste sue caratteristiche lo rendono un concetto semplicissimo attorno al quale sviluppare un mercato fiorente e un’enorme fetta di immaginario. Le narrazioni, come sai, hanno una forte propensione alla promiscuità. Non stupisce che questa idea antichissima (pare che i primi giocattoli sessuali risalgano al paleolitico) abbia trovato un punto di contatto e compenetrazione con il topos del robot che è più recente, ma non così tanto come ci potremmo aspettare (il mito del Golem, per come lo conosciamo, risale al XVI secolo).
Robot che sono anche giocattoli sessuali fanno spesso capolino nella letteratura fantastica e fantascientifica. Lo stesso mostro di Frankenstein, che è un po’ zombie e un po’ robot, è mosso da una pulsione tanto elettrica quanto erotica. In Francia, qualche mese fa, sono usciti due fumetti dedicati a due robot, antropomorfi e dotati di pene, che fanno il loro indispensabile lavoro meccanico. Ma prima di parlarti dell’idea scatenatami da quei due albi, devo concedermi un preambolo.
Aprile 1981. Ho quasi tredici anni. Ormoni in subbuglio, grande confusione, frequento la scuola dell’obbligo con poca convinzione, le mie coetanee sono un mistero spaventoso, leggo fumetti e narrazioni di genere. In edicola escono a regolarissima cadenza settimanale i fascicoli della “Grande Enciclopedia della Fantascienza” dell’Editoriale del Drago. Non ne perdo un numero. Quando mio padre, tipicamente il venerdì sera, mi lascia scivolare tra le mani il nuovo fascicolo, è vera gioia. Lo leggo da copertina a copertina, mi imbottisco di racconti – a volte mediocri – che non mi abbandoneranno per tutta la vita, e mi perdo nelle immagini. Mentre sto sfogliando il fascicolo, in quella sera d’aprile, mi imbatto in un disegno potentissimo. Una ragazza bionda, bellissima, è sdraiata sul letto, tra lenzuola gualcite che lasciano intuire tra i drappeggi le curve delle cosce e del pube. I capelli scomposti sul cuscino, le mani sul petto nudo a occultare la vista dei capezzoli, il viso rilassato ed estasiato: «Diktor, avete dello stile!». Accanto a lei, seduto sul letto, in posizione più raccolta e composta e con grandi palpebre metalliche che donano al suo viso un’aria distaccata, c’è un robot: «Oh! La signora è troppo gentile… conosco i miei limiti. I miei slanci hanno sempre qualcosa di meccanico!»
Quel disegno mi turba tantissimo. Anni dopo scoprirò che è tratto dalla pagina di apertura di uno degli episodi del primo ciclo di Barbarella di Jean-Claude Forest pubblicati dal 1962 su “V-Magazine” e, in seguito, in un volume fondamentale da Le Terraine Vague di Éric Losfeld.
Quel robot sessuato era diversissimo da quelli presenti nei racconti di Isaac Asimov e in tutti quelli di cui mi aveva parlato “La Grande Enciclopedia” fino a quel momento. Avrebbe potuto benissimo rispettare le tre leggi innestategli a forza tra l’aorta, l’intenzione e il cervello positronico. Eppure, pur mostrandosi gelido ed evitando di nascondere la meccanicità dei suoi slanci, era stato la causa di quel viso, disteso e felice. Da quel momento non avrei più potuto pensare a un robot come a un ammasso di circuiti e meccanismi.
Nel 1985, sulle pagine della rivista “L’Echo des Savanes”, Paul Gillon, un grande disegnatore di fumetti di fantascienza che aveva creato proprio con Forest I Naufraghi del Tempo, pubblica la prima parte di una storia che mostra di avere più di un debito verso Diktor e i suoi slanci meccanici: La sopravvissuta. Audrey Albrespy sembra essere l’unica sopravvissuta all’apocalisse. L’umanità è svanita. Per trovare conforto e sicurezza in un mondo in cui sono rimaste solo le macchine, la donna si stabilisce in un hotel in cui un robot particolarmente servizievole cerca di renderle accettabile la vita. Audrey, avvolta da una solitudine che la spinge alla follia, cerca nelle grazie meccaniche un barlume di speranza. Spoiler: succedono guai.
Questi due fumetti hanno rispettivamente sul groppone oltre mezzo secolo e più di trentacinque anni. Da quel momento, i robot che praticano sesso nei fumetti di cui mi ricordo hanno sempre avuto aspetto femminile. Simili a bambole gonfiabili meccanizzate. Da Ghost in the shell di Masamune Shirow a Sky doll di Alessandro Barbucci e Barbara Canepa.
Improvvisamente, sul finire del 2020, sono usciti quasi contemporaneamente, in Francia, due volumi a fumetti che rimettono al centro robot antropomorfi con fattezze maschili che fanno sesso. Sono due libri diversissimi. Il primo è Sixella di Janevsky, un albo tradizionalissimo (48 pagine a colori) bruttarello e innocuo. Il secondo è B.O. Comme un Dieu di Ugo Bienvenu ed è interessante. Del primo c’è veramente poco da dire, se non che ci sono un robot e una ragazza che arrivano su un pianeta, fanno cose, vedono alieni. Il secondo è un volume della bella collana BD Cul di Les Requins Marteaux che racconta la trasfigurazione di un robot prostituto attraverso il sesso. Ma come, mi dirai, mi hai trascinato fino a qui per dirmi di un fumetto brutto e di uno… interessante? Sì. Non ti consiglio di leggere né l’uno né l’altro, ma di concentrarti per un attimo sulla loro uscita quasi simultanea.
Uno degli effetti collaterali della pandemia e del lockdown globale è stato il drammatico crollo delle relazioni estemporanee e dei rapporti occasionali. Il distanziamento ha interrotto la ricerca di vicinanza, amore e sesso in situazioni che non cercano stabilità. E ha molto ridotto l’intimità tra individui costretti a condividere, per obbligo e per decreto, lo stesso spazio vitale per così tanto tempo ogni giorno.
Tra le categorie professionali maggiormente colpite dalla tragedia tuttora in corso c’è anche quella degli investigatori privati. Una delle loro mansioni prevalenti è l’indagine sull’infedeltà: l’attitudine da “annusapatte”, come avrebbe detto Manuel Vázquez Montalbán del suo Pepe Carvalho. Durante il lunghissimo periodo di reclusione domestica quasi esclusiva, le occasioni di tradimento e, di conseguenza, di inseguimento nell’ombra si sono ridotte drasticamente. Durante i mesi di clausura il traffico sui siti pornografici (già normalmente altissimo) ha subito un’ulteriore impennata e pare che le aziende che producono sex toys abbiano avuto un notevole incremento di fatturato.
Trovo sintomatico che, nel settembre dello scorso anno, dopo un lungo periodo di pandemia e lockdown globale, siano usciti quei due libri a fumetti. Robot antropomorfi con fattezze maschili che praticano sesso. Con chi parlano? Cosa mi dicono?
Come ti dicevo all’inizio, sono un intellettuale e tutto quello che so dell’amore e del sesso l’ho imparato dai fumetti. Sono certo che questi due volumi, che si connettono così evidentemente a un tema fondante del mio erotismo (ed essendo Barbarella, non solo del mio), stiano cercando di spiegarmi qualcosa. Ma non capisco cosa.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).