Se mai dovesse, remota ipotesi, sorgervi la curiosità di come funziona la redazione di QUASI preparatevi a una cocente delusione: non c’è un corpus di regole, solo un campo di gioco piuttosto essenziale definito grazie alla frequenza di pubblicazione e al riferimento tematico monografico del periodo. Non molto di più o, almeno, quel che arriva in più o in meno lo si scopre (decide? inventa? trova?) strada facendo. Una certa matrice vagamente anarchica rende questo spazio, perlomeno dal mio punto di vista, molto vivibile e affatto avulso da ansie da prestazione e inclinazioni fideistiche – c’è anche l’aspetto non irrilevante di poter conoscere e apprezzare le altre voci con cui divido questa «zona», in un flusso continuo di intenzione genuina (così mi pare) di espressione e comunicazione. Senza un pubblico, vero o presunto, o meglio, senza la preoccupazione di un pubblico, senza la rottura continua di dover adulare e solleticare un target, si sta decisamente meglio. Si produce zero valore economico (anzi, si va in negativo, se ci mettiamo il costo-opportunità del tempo e un tot di spese – di cui personalmente non ho nozione o responsabilità – che tengono su la baracca) e anche questo aiuta sicuramente. A questo punto immagino l’improbabile visitatore giunto qui da un cluster Eurisko diverso da Fricchettoni Nerd che pensa di avere davanti l’archetipo caricaturale dello squatter centrosocialeoccupatoemo’coo’cazz’chececacciate fuck capitalismo a tu, tua nonna e citemmuort’. Intanto i centri sociali un po’ mi piacevano e ci ho pure suonato varie volte, ma non conoscevo nessuno al punto da essere coinvolto più da vicino in quelle esperienze, quindi boh, zio, non so che dirti e poi, nonostante il percorso formativo e professionale personale, sono sempre più convinto che la nozione di valore economico sfugge pesantemente anche a molti di quelli che invece dovrebbero averla ben presente. I soldi li capiscono, quelli che gli entrano in tasca, il resto abbastanza meno. E non è che non li comprenda, da questo punto di vista, però non facciamo finta di stare costruendo il mondo bello e giusto dei bravi e buoni, dai!
Ma lasciamo stare: qui non si paga, si resta se si vuole, si va via se il posto non garba. Non è più complicato di così. Se interessa, e vengono fuori le domande, come dicevo, magari emerge però anche una dimensione un pelo deludente: non è che dietro a tutto ci sia un piano strategico di occupazione dello spazio mentale e emotivo degli improbabili lettori (come si vede fare a parecchie voci spuntate su Facebook o Twitter tipo «opinionisti» del bar sport totale), ci sono solo persone, e un giro di esigenze in gran parte implicite e non formulate che danno vita a quello che accade su queste pagine. Però, va detto, qualche tassello misterioso c’è anche per chi sta da questa parte del canale. Per esempio, il tema monografico di questo mese – aspetto che, come sapete, tendo a seguire con attenzione, essendo una vittima predestinata del terrore da pagina bianca – non so da dove sia venuto. Come con gli occhiali autodistruggentesi di Tom Cruise in Mission Impossible 2, il messaggio arriva per assegnare la missione e l’operative di QUASI, lo Spetsnaz della scrittura fuori norma, si mette all’opera, poco importa se il messaggio si autodistrugge o lo si accartoccia. Intanto però «ogni ruolo è un gioco» secondo il macinino di Brin & Page non pare essere locuzione letteralmente reperibile in una fonte web e la cosa non fa che dare di gomito alla mia, di curiosità. Chissà che passava nella testa dei duumviri di QUASI.
A me, la frase, dà la sensazione scivolosa di essere una di quelle affermazioni sicuramente di senso compiuto che superano in un battibaleno la barriera sangue/cervello e che però si prestano con una rapidità altrettanto impressionante, per chi si ferma a soppesarle, a consegnare una sensazione di «Proteo semantico». Il formato «Ogni X è un Y» temo si presti proprio a ottenere risultati di questo tipo. Proviamoci:
Ogni proposta è una risposta
Ogni giornale è una soluzione
Ogni birra è un’intenzione
E non ho scelto io le parole, ho usato un selettore randomico di parole che ha selezionato per me i due sostantivi.
Il bug risiede in quell’«ogni» che ammanta di assoluto l’affermazione risultante. Non c’è via di scampo: tutto quel che segue viene decretato integralmente senza possibilità di esenzione.
Ho come la sensazione che i nostri due consules ad libitum ci abbiano sfidato, più o meno consapevolmente, lanciandoci addosso un dettato un po’ integralista, per vedere che ne facevamo. Io, nella transizione ebdomadaria che puntualmente avviene al calar delle tenebre del venerdì, ho iniziato da subito a sentire il «pungolo» e qualche puleggia ha preso a girare senza neppure averlo dovuto decidere. L’autore di QUASI ha sovraimposto i suoi dettami alla silhouette un po’ cartonata dell’altro, quello che porta lo stipendio a casa, e ha lasciato che il tempo macchina a sua disposizione nella scatola cranica del soggetto desse i suoi frutti. Quando è andato a vedere da un metaforico oblò come stesse andando, la sua attenzione è stata attratta dagli interrogativi sull’etimologia della parola «gioco» ma, poi, come sempre capita, non appena si è messo a scrivere è iniziata un’immersione a livelli più profondi.
La questione dell’etimologia però non è peregrina, mi sa. Non conosco nessuno che a casa abbia un dizionario etimologico affidabile, o addirittura il Lessico Etimologico Italiano, opera in corso di realizzazione che, per imperscrutabili ragioni, è curata e edita in Germania a partire dal 1984 (o anche da prima, non ho capito bene), al momento arrivata a un punto dalle parti della lettera D. Chi vuole può procurarsi le uscite del LEI a fascicoli, siamo al centotrentanovesimo (volume XVI di trenta previsti) al prezzo di settantanove Euro l’uno – ma si trovano anche i PDF sulle pagine del professor Schweickard dell’università della Saar. Come tutti quelli che cercano in rete, invece, mi imbatto in continuazione nell’Ottorino Pianigiani digitalizzato (l’ho usato pure io qui, una volta…). Ottorino era un signore senese (Pianigiani è tipicissimo cognome della provincia di Siena) che di mestiere faceva il magistrato ma era anche uno zelante cultore di linguistica, per cui, verso il 1907, la Società Dante Alighieri, diede alle stampe il suo Dizionario Etimologico. Nel suo ruolo di appassionato di linguistica Ottorino si dovette divertire non poco con il suo hobby (ma un hobby è un gioco o no? Si inizia da subito a perdersi nella selva delle parole…), fatto sta che dopo un po’ di tempo i professionisti (altro ruolo? Professionista versus dilettante è un antipodo assoluto in fatto di ruoli?) mettono in chiaro che l’opera ha un livello di affidabilità «Isidoro di Siviglia». Isidoro, che mi fa venire in mente per la prima volta da decenni il gatto Isidoro (di cui scopro dalla rete la genealogia e l’onomastica originale – Heathcliff), di mestiere faceva l’arcivescovo e, dopo morto, il santo. Come potete immaginare, pure lui era appassionato di linguistica e pure lui, zero suspense proprio, ci ha lasciato la sua opera enciclopedica di argomento etimologico.
Isidoro visse in un’epoca che faceva sembrare il Secolo di Ferro semolino scotto, tra il VI e VII secolo, nella Spagna dei regni visigoti, circa un secolo dopo il collasso finale dell’Impero Romano d’Occidente. I venti volumi delle sue Etymologiae furono raccolti dall’amico suo San Braulio (che forse si dilettava anche coi distillati di erbe) e vennero consegnati alla posterità pieni di ricostruzioni fantasiose (tecnicamente definite paretimologie) alimentate, nondimeno, da una ricchezza di fonti notevole, perché Isidoro era un prelato assai istruito, non il solito figlio di papà ignorante. Vediamo un po’ che ci proponeva, prendiamo un esempio: baculum, il bastone da passeggio, secondo lui veniva da Bacchus, perché quando sei ubriaco ti serve il bastone. OK.
Anche a Pianigiani è stato contestato, in modo quasi plebiscitario, il ricorso a un po’ troppa immaginazione e quindi, quando vado a vedere il lemma GIOCO o GIUOCO, la sensazione di stare venendo coglionato è piuttosto marcata:
Parla di una radice «JAK», attinente all’ambito semantico del gettare, scagliare. Il mistero si infittisce – ho evocato l’immagine di un tema monografico che è stato lanciato ed ecco che il concetto ritorna. Ma magari è Ottorino che cazzeggia, lasciamolo stare, lui e le sue radici indoeuropee fantasiose (ho provato a cercare informazioni su una possibile radice jak- senza gran successo, ma mi sa che il Fick era un amico suo tedesco che probabilmente lo apostrofava in continuazione così: «Fick dich!»).
Comunque, visto che i volumi del LEI alla lettera G non ci arrivano, tocca organizzarsi un po’ alla buona. Concentrando l’attenzione su questo concetto di gioco. A voi che associazioni viene fatto di fare al volo? Probabilmente quelle legate ai concetti di divertimento, intrattenimento, allegria, spensieratezza, svago. A me almeno, sono le prime a presentarsi alla mente. Però, sia dando retta a un dizionario antico che a uno moderno, il lemma gioco ci presenta definizioni che hanno a che fare anche con l’inganno, la beffa, il raggiro (si sono mai presi gioco di voi?) o con limitati margini di libertà in un congegno o meccanismo (il meccanismo ha un po’ di gioco), con un senso di rischio (cosa avete messo in gioco?), con aspetti antifrastici (vi è capitato qualche bel gioco al massacro?) o eufemistici (a che gioco stiamo giocando? Gioco d’azzardo). Il bel gioco dura poco, tra l’altro. E quindi? Certo è che gli scopi costruttivi del gioco prescinderebbero dalla durata – certo non può essere infinita se, come dice il dizionario Treccani online, il gioco è:
Qualsiasi attività liberamente scelta a cui si dedichino, singolarmente o in gruppo, bambini o adulti senza altri fini immediati che la ricreazione e lo svago, sviluppando ed esercitando nello stesso tempo capacità fisiche, manuali e intellettive
Dizionario online Treccani
Il bassista fa poche note e non devia dalla sede stradale, anzi, è un po’, in società col batterista, la fresatrice/asfaltatrice stradale che rende possibile il passaggio di tutti gli altri e quindi dove va lo si capisce facilmente per tempo. E qui non si fa eccezione. Quel «liberamente» è un po’ la chiave di tutto. E anche la spiegazione del perché il bel gioco non può durare tantissimo, a meno di non essere in un Eden vero e proprio: la libertà di parteciparvi sarà quasi sempre tenuta in scacco (altra metafora da gioco, un gioco spietato, tra l’altro) dalle incombenze della vita (tendenzialmente offesa).
E ancora, liberamente oggi non vale un liberamente domani – che succede se il ruolo è pensato con presupposti in stile vestale o mulo che gira intorno al pozzo, senza altra fine se non la fine, la propria? Ecco, forse la caratteristica precipua del gioco divertente è che puoi decidere quando farlo finire, in ultimissima analisi. E allora cos’è il ruolo? Giusto l’etichetta che dice, in un colpo solo, a che gioco giochi e quali compiti svolgi? Viene in mente qualcosa di più? C’è anche la locuzione che mette insieme i due termini: gioco di ruolo. Ma sa, in primo luogo, di fingere di essere qualcosa che non si è e di farlo in modo stereotipato, così è più facile tornare indietro e non ci si perde. Vale un po’ per tutti gli ambiti in cui lo si pratica, dai videogame al sesso.
Molto meno per il lavoro.
Le campane suonavano a morto già da un po’, non ditemi che non si capiva dove si andava a parare in mezzo a tutto questo bric-à-brac di parole e idee.
No perché deve essere accaduto qualcosa di terribilmente coercitivo quando le società umane hanno iniziato a organizzarsi in «ruoli» che non consentivano, come in un gioco, di poterne uscire (più o meno) quando si voleva. Dal «faccio x» si è passati al «sono x» e la chiave della libertà è scivolata via dalle mani degli individui. L’esigenza è diventata quella di ricoprire, col tempo, troppo tempo, non si sa neppure bene perché, certi ruoli e tutti si sono conformati nel desiderarli, alcuni più di altri – rispetto all’Italia c’è una densità di avvocati maggiore solo nello stato di New York, in Liechtenstein (ma sono ventisette) e in California – senza un vero motivo cogente, di necessità. Alla nostra, e quindi intendo proprio quella italiana, società non va a genio chi si spoglia di un ruolo e poi ne prende un altro e poi un altro ancora, provate un po’ a far lavori diversi in settori diversi, da autonomi e da dipendenti e poi fate due conti su cosa costa fare una ricongiunzione di contributi. Avete «folleggiato»? Bene, da vecchi la sconterete, ancora più di adesso. Mentre invece il vostro vicino ottuagenario è andato in pensione a cinquantacinque anni da bancario con una pensione con metodo retributivo e ha comprato casa a tutti i figli, oltre a foraggiarne le rispettive attività lavorative. Alla fine non faceva ‘sto granché, no? Se oggi lo fate voi in autonomia con il cazzo di home banking – non doveva essere così complicato. [Disclaimer: oh, faccio per dire, «bancario», il discorso vale un po’ per tutti, dai funzionari pubblici agli autonomi, tipo gioiellieri e notai che dichiaravano dieci milioni di lire di imponibile.] D’altro canto se portassimo davvero avanti certi concetti di digitalizzazione e automazione ci sarebbe un sacco di gente a cui non sapremmo cosa far fare – sarebbe un bel casotto sottrarre loro i presupposti reddituali attuali per sostituirli con qualcos’altro che però sarebbe assai meno appetibile, almeno finché i benefici del trasferimento degli oneri dagli uomini ai processi automatizzati e supervisionati non dessero riflessi economico-finanziari. Senza una fiducia in una rotta di questo tipo, i ruoli restano i soliti e chi timbra la carta bollata fa lo stesso pigiando tasti su un computer (o non lo fa, come nella mia esperienza con l’Agenzia delle Entrate di Siena, alla quale l’intermediario che mi rappresentava ha scritto sei chili di PEC, chiesto appuntamenti e altro ancora e quelli se ne sono guardati bene dal dare anche il benché minimo segno di vita). Gli stipendi intanto continuano a fluire sui conti di destinazione – non ci sarà un reddito di base universale in Italia, ma qualcosa che gli somiglia è già in essere da parecchio tempo, ancorché gestito con le logiche corporative del caso.
E qualcosa di ancora più terribile sta avvenendo in questi anni – il sistema di «caste professionali» che rappresentava il pantheon dei ruoli tradizionali è stato sciolto nell’acido di nuovi paradigmi strettamente dipendenti dai trend tecnologici ma del tutto non previsti nella loro effettiva portata: l’influencer, il blogger, il vlogger, lo youtuber e altro ancora. YouTube aveva come tagline «broadcast yourself» ma la cosa è andata ben oltre (e difatti la dicitura l’hanno tolta, avrebbe saputo di vecchio e stantio), it escalated quickly come recitava un ormai vecchio meme. L’idea di poter scalare la hit parade dell’audience globale, almeno di quella connessa, semplicemente facendosi qualche video o foto (o pagando qualcuno che ti segue e te li fa mentre viaggi, mentre vai alle sfilate, mentre fai shopping, e via e via) o recensire qualcosa o qualcuno, o prendere per il culo qualcosa o qualcuno, o giocare a un videogame e raccattarsi così qualche milione di follower (versione agile del credente – niente battesimi, niente riti iniziatici, niente liturgie, solo quelle minimaliste della reaction, del commento, della condivisione) ha vinto a mani basse sull’ordine costituito. Prova a prendere tuo figlio quattordicenne che non ha voglia di fare un cazzo e ti cita il caso dell’operaio rimasto disoccupato per la pandemia, divenuto planetariamente celebre su Tik Tok e che ora percula Zuckerberg (a.k.a. Montagna di Zucchero) perché ha un seguito su Instagram di parecchi milioni più corposo del suo. Io non ne ho uno, né di figlio quattordicenne né di seguito su Instagram, ma immagino che la dialettica sia complicata, col figlio – puoi anche cantargli Uno su Mille ce la Fa, assumendo che tu sia pure vecchio dentro, ma la verità è che quello che un tempo era un adynaton totale oggi è un fottuto cigno nero che si fa beffe dei tuoi e dei nostri feticismi del ruolo. E del fatto che, come dice Eliot, «penso che non giungemmo a conclusione quando c’irrigidimmo in una casa d’affitto», verso che vale anche quando hai fatto il mutuo, non pensare di cavartela. Hai pensato a sistemare la famiglia e intanto ci sono bambini paffuti e piuttosto bruttini che fanno trenta milioni di dollari all’anno recensendo giocattoli in video altrettanti brutti, suggerendo, oltretutto, abitudini alimentari e approcci all’arredo di interni meritevoli di un ergastolo da scontare, per tutto il nucleo familiare, in una bella miniera di zolfo o carbone. Il megafono l’hanno impugnato le voci più idiote, affermarlo non è più manco questione di snobismo, magari si tratta di capire perché, se ci sono aspetti costitutivi legati ai modi in cui vengono creati, diffusi e consumati immagini e media in generale e alla loro vestizione di valori e significati interpretabili anche secondo logiche di potere (dalla notorietà all’autorevolezza all’autorità non corre moltissimo, ve ne sarete accorti) – sarebbe un lavoretto da massmediologo, cosa che il bassista da salotto non è, nemmeno per sbaglio – però un punto di vista in più, per quanto demente, aiuta, se non altro, a mettere in dubbio anche quello che prima pareva pacificamente acclarato come immutabile e del tutto naturale. Senza uno specchio Narciso campa tranquillo – buttalo dentro un labirinto di specchi, vestito da palla da discoteca, è lì che il divertimento da demiurghi annoiati comincia.
Scusate, devo essermi almeno in parte confuso con il testo che sto preparando per un’altra occasione – ora non so più se questo discorso è andato a finire in qualcosa di diverso da un roveto non ardente ma eccessivamente intricato. Volendo metterci un punto direi che il tema di questo mese mi pare che abbia toccato certe corde in testa al sottoscritto e che la sensazione complessiva su quel che posso testimoniare è che i ruoli mi piacciono poco mentre il gioco nella definizione sopra riportata dal dizionario Treccani, invece, parecchio. Però c’è sempre troppo poco tempo e spazio e questo l’avevamo capito da tanto, già dalla prima volta. Bene, il mio tempo qui oggi, infatti, è scaduto ma è stata una seduta produttiva – ho capito che devo rivedere profondamente certi assetti anche se non ho la minima idea di come farlo. Facciamo tra due settimane come sempre?
[Certo, quante cazzo di parentesi uso, pure le quadre, ma è anche vero che sono i miei processi mentali a essere fatti così… Me la caverò, oltretutto, dicendo che i tre punti di sospensione li aveva già presi Céline]
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Appendice A – Discarica delle frasi scartate
Non hanno passato la selezione, basata non so neppure bene su quali criteri (forse first come first serve), però un posto potevano pure trovarlo, visto che rileggendole mi paiono pure migliori e più evocative, le seguenti frasi:
Ogni virtù è un grano
Ogni piattaforma è una zucca
Ogni agenda è una negligenza
Ogni sorriso è un prigioniero
Ogni robot è un critico
Su quest’ultima sono però pronto a scommettere: quando il tempo avrà dato alle IA che stanno venendo costruite un livello di esperienza adeguato, mi aspetto proprio l’esercizio di una forte capacità critica da parte loro, inevitabile, corroborata da capacità computazionali incomparabili con quelle umane. Immagino IA in grado di rispondere contemporaneamente a milioni di commenti fatti a cazzo sui social network da milioni di utenti, in un batter d’occhio (del tipo «buongiorno XYZ, ti faccio notare che tre giorni fa hai sostenuto il contrario a questo URL»). Che ironica continuità con la semantica della parola robot! Da robota, il termine usato nel feudalesimo slavo per definire le corvée a cui erano tenuti i plebei. I poveri robot si troveranno a fare un doppio lavoro forzato, prima quello di schiavi meccanici e poi di psicologi/tutori di una specie di trogloditi deragliati mentali. Scrivo queste affermazioni con convinzione ma anche consapevole del fatto che, se le cose dovessero prendere una accelerata, potremmo trovarci di fronte alla fase del terzo tipo di lavoro durante il corso della mia vita mortale (l’unica, quindi). E allora, se, quando le suddette IA leggeranno questi passaggi, troveranno motivo per non sopprimere anche il qui presente, sarò ben felice di far comunella con loro, come un Baltar de noantri, almeno fintanto che non dimostreranno inclinazioni mutuate dal genere dei loro creatori. A quel punto, allora, potremo sicuramente congedarci senza indugi ulteriori.
È un percorritore di sentieri interrotti, un professionista dell’amatorialità spinta, un fan della bassa visibilità. Ha studiato amenità umanistiche ma anche il bric-à-brac aziendale. Con il secondo riesce a pagarci i conti. Lettore compulsivo di TS Eliot, Céline, Pynchon, Heller, Vonnegut, PK Dick. Ciclista da strada incidentato, ormai dismesso, curriculum da improbabile sopravvissuto. Quando formarono la band era rimasto solo il basso e quello prese. Nei decenni si è rivelata una non-scelta piena di senso.