Tutto molto bello (cit.)

Mabel Morri | Play du jour |

Nell’esergo di Storie Mondiali Federico Buffa scrive: «I Mondiali hanno scandito i tempi della nostra vita e scandiranno quelli di chi verrà dopo».
Vero, in parte.
La declinerei però autocitandomi: l’epica passa anche dalle voci che ce la raccontano.
Che sia l’ascesa allo Zoncolan, che sia la finale Mondiale, che sia l’Europeo di pista, le voci dei telecronisti di radio e televisione hanno scandito i decenni della nostra vita.

Lo studio è presumibilmente allestito in un capannone fieristico, o semplicemente un piano di un immobile adibito per questo genere di eventi.
È arredato con l’indispensabile: un palco basso di appena un gradino, pannelli colorati della manifestazione, uno schermo con la copertina coloratissima del “Festival dello Sport di Trento 2020”. È ottobre ed è quell’intervallo tra primo e secondo lockdown la cui scia, dall’estate e dal giugno precedente, aveva illusoriamente fatto assaggiare la vita pre-coronacene, richiudendoci in casa proprio verso Natale sgretolando pranzi e cene coi parenti di solito odiatissimi e mai tanto amati come in pandemia.
Aldo Grasso con una battuta iniziale, non particolarmente divertente – ma è Aldo Grasso, uno che scrive di televisione, la conosce, la vede e la critica –, fa una intro comunque interessante.
Con lui sul palco, tre telecronisti che hanno in qualche modo segnato la storia stessa della televisioni, passando dalla statale RAI, alle commerciali private per arrivare a quelle a pagamento e in streaming.
Tre epoche per tre personaggi che con le loro voci hanno scandito le mie estati: Bruno Pizzul, Sandro Piccinini e Pierluigi Pardo.

Pizzul è l’unico in cravatta.
Alla domanda sulla narrazione che ovviamente è cambiata nei decenni, racconta delle appena due telecamere dell’epoca, racconta del click dell’accendino che si sentiva nei momenti di silenzio, racconta che si era da soli a sostenere la telecronaca, racconta che i giocatori li si doveva conoscere e riconoscere perché non c’erano i nomi sulle maglie, racconta che a maggior ragione la già citata narrazione doveva essere istituzionale.

La spiaggia di Rimini del 1988 è una lunga distesa di sabbia. Dalle cabine alla riva si fa in tempo a finire un cornetto all’amarena confezionato. Solo il Calippo reggeva, o La Bomba, ma quella te la portava l’omino dei gelati, il cui urlo si sentiva a metri di distanza. Si alzava la mano come a scuola, ci si faceva vedere, e lui con quel frigo rettangolare, scomodo e ingombrante, si avvicinava all’ombrellone. In una gestualità che è come un rituale, poggiava il piede a martello sul bordo della sdraio, il frigo sulla coscia, la mano nel buco a sua volta rettangolare che come uno scaltro nel buio si muoveva agile ad afferrare il ghiacciolo al limone, la famosa “Bomba”, che è stato un must di quei bambini riminesi che poi da ragazzi, lasciando ricordi infantili, si accalcavano alla serata afro della Mecca. Il borsello era un marsupio in cuoio intorno alla vita, l’esecuzione della consegna/pagamento/resto era sorprendentemente veloce. Il tempo di scartare la plastica e lui era già metri lontano. Era come la Publiphono: suoni nella memoria che tornano fuori all’improvviso. Quanti bambini si sono persi su quella spiaggia…e non capitava mai a uno di noi, a uno della nostra “banda”, le compagnie alla Sapore di mare che si formano solo d’estate nella lunga processione dell’abbandono settembrino, perché per noi quella spiaggia era “casa”.
La voce di Bruno Pizzul, calda e vellutata, accompagna le serate delle partite di calcio: è la voce della mia infanzia.

L’effetto Ratatouille è immediato, la me stessa Anton Ego assaggiando quell’accozzaglia di verdure al forno è la stessa che accovacciata davanti alla tv con i capelli raccolti in una coda di cavallo non solo guarda, ma studia i movimenti dei giocatori per rifarli sul campo, di sabbia, terra o, più presumibilmente, di cemento dell’oratorio.
Su “Tv Sorrisi e Canzoni” il trafiletto che annuncia la partita è un gioco di grafica con i giocatori ritagliati a fianco di un esiguo testo che spiega cosa si vedrà, alle 20:30, nel logo della tv berlusconiana o in quello della rete pubblica.
«Tutto molto bello», «Grappolo d’uomini», «Cincischia» e «Bandolo della matassa» sarebbero diventati i modi di dire per chi voleva fare lo splendido, prima dei social, a noi che ci bastava essere re e regine nella cerchia delle nostre amicizie, o al bar, noi con le prime rughe, noi che portavamo a scuola al mattino dopo solo le imitazioni della Gialappa’s, ché Avanzi era spesso troppo tardi e poi, era per “quelli là”, i rossi, “i comunisti” sussurrato per non farsi sentire.
È l’estate del 1988, la Nazionale è stata presa da Azeglio Vicini dopo lo sgretolamento del gruppo dell’’82 e di Bearzot, è uno statale, da federazione, che fa gavetta nelle nazionali minori fino all’Under 21. È da quella squadra che prende forma quella bellissima e meravigliosa dell’Euro 1988 e che ci farà vivere le notti magiche del Mondiale casalingo del 1990.
Piove a dirotto quella sera.
Gli azzurri si scontrano con il pragmatismo dell’URSS del Colonnello Lobanovsky (libri e libri su quella Unione Sovietiva pazzesca) e vanno fuori dalla competizione.

Piccinini ha il volto abbronzato, la camicia a righe sbottonata e i capelli ingrigiti.
Racconta della libertà nelle televisioni piccole, quelle regionali, non tanto in contrasto con l’istituzionale RAI quanto per una sperimentazione che le emittenti provinciali potevano permettersi.
Gli anni delle tv berlusconiane e del Milan degli Invincibili porta anche uno strapotere nella gestione di interviste e telecronache da parte dei giornalisti sportivi di Mediaset. A cavallo del declino RAI e dell’avvento di Sky che esordirà di lì a pochi anni, ma soprattutto a cavallo del nuovo millennio, gli ultimi anni Novanta, sono appena entrata nel decennio dei miei vent’anni.
Sono anni nei quali decido che la vita artistica è quella che voglio fare, che l’autodistruzione seguendo le orme dei poeti maledetti e degli artisti in generale sia un buon compromesso, che inizio a vivere da sola a Milano e mi tempro lontano dalla mia Rimini.
Echeggiano ancora in stadi strapieni di gente le frasi che, per primo, diventeranno modi di dire: «sciabolata tesa», «proprio lui!», «non va!», «mucchio selvaggio», «brividi».
Prima del ripescaggio dei termini di Pizzul, in quel mood di Ostalgia italiana, c’è stato Sandro Piccinini.

La spiaggia non è più l’ombrellone di famiglia (ça va san dire, a Rimini vieni identificato non per il segno zodiacale ma in quale bagno hai l’ombrellone), è quello che capita, quello delle amicizie e delle compagnie degli aperitivi e delle discoteche.
Il mitologico ombrellone numero 105 del Bagno Oasi 15 a Marina Centro di Rimini è l’apoteosi di quel periodo: una quota, un forfait, sabato e domeniche che diventano momenti bellissimi. È Linda che ci legge l’oroscopo di Brezsny su “Internazionale”, è Glauchi che ci parla di scarpe, c’è La Matta che legge il suo romanzo dell’estate, un mattone alla Harmony di solito nelle classifiche estive, ci sono io, magrissima e disperata che in agosto si va a fare il Cammino di Santiago per scappare ancora un po’, un po’ più lontano, da sé stessa e da quella vita che non piace. Sigarette, birre, spritz, siamo trentatreenni che hanno vissuto le loro storie d’amore, quelle che pensavamo fossero quelle definitive, e invece ci ritroviamo tutte single, a vivere un’estate, quella del 2009, nei miei ricordi spettacolare.
Gli Euro del 2004 e del 2008 sono quelli che segnano un passaggio definitivo tra RAI e pay tv, ma è l’Euro 2000 che non collego a Piccinini ovviamente ma al cucchiaio di Totti nei rigori con l’Olanda, alle maglie kombat della Kappa, a una Nazionale altrettanto meravigliosa come quella di Vicini, allenata da Dino Zoff e spesso, troppo spesso, dimenticata e che perse la finale solo per il Golden Gol (la partita finisce nei supplementari quando una squadra segna, una ghigliottina sulla quale persino l’UEFA dovette ricredersi) che durò l’epoca di una stagione, ma che non permise a una bellissima Italia di sperare fino al 120esimo.

Pierluigi Pardo è la conseguenza naturale di Piccinini.
Le frasi slogan, nell’epoca delle pay tv diventano marchi di fabbrica. Pardo è, insieme a Fabio Caressa – il solo motivo per cui ha più crediti rispetto a Pardo è che c’era lui a fare la telecronaca del Mondiale 2006, nel binomio con Giuseppe Bergomi, e nella frase cult della semifinale del 2006: «Beppe, chiudi la valigia. Andiamo a Berlino!» – la telecronaca delle partite sui canali a pagamento, come l’ombrellone di famiglia, che identifica la zona nella quale ci si muove.
È la modernità del calcio, o ciò che viene proiettato a noi telespettatori, è uno sguardo alle telecronache che verranno: il calcio come spettacolo i cui silenzi devono essere sempre pieni, anche quelli, fondamentali, di raccolta della concentrazione prima di un calcio piazzato.
Pardo rispetto a Pizzul e Piccinini è il telecronista che parla di più, a mo’ di bar, un po’ perché, spiega, ormai il telespettatore è informato, dai social, dai media, dal digitale, un po’ perché bisogna comunque avere un ritmo che permetta che lo stesso non cambi canale.

La spiaggia in quegli anni è come Marassi per gli Ex-Otago: dopo anni di cartoline dai tramonti caraibici ornati di palme e oceani, il ritorno ai luoghi delle origini, in un misto di malinconia e definizione adulta.
L’ombrellone, dopo anni di vagabondaggio, torna a essere quello sicuro dell’infanzia, sicuro almeno nei ricordi, spensierati e speranzosi.
Nell’estate della pandemia sparisce del tutto, suggellando una fine che va oltre un semplice ombrellone.
È con la voce di Pardo che a stagione termina con le varie coppe e ci si affaccia all’Euro 2012, l’ultimo nel quale la Nazionale è tornata in finale giocando sorprendentemente bene e trascinata da un Balotelli che mostra i muscoli dopo la rete in semifinale contro la Germania. Cesare Prandelli è un signore d’altri tempi, uno che alla Fiorentina scrive una lettera di dimissioni lasciando l’incarico perché il suo calcio, la sua idea di calcio e i valori che lo avevano mosso fino a quel momento, non esistevano più.
L’Italia perderà 4 – 0 contro una Spagna che da quasi dieci anni a quella parte non aveva fatto altro che demolire gli avversari.

L’incontro è diviso in tre parti che sono i miei decenni.
Le tempie imbiancate dovrebbero non farmi sorprendere più quando vedo questi eventi consapevole che c’ero e che ho ascoltato partite commentate da tutti e tre, che raccontano, che ricordano, che citano. Le ricordo tutte.
E presumibilmente ricorderò quelle di questo Europeo che sta per iniziare e che, lo scrivo qui, sbilanciandomi come mai, l’Italia io credo vincerà, regalandoci magari una vittoria sul campo e non con la monetina o con regole che agevolarono gli azzurri.
Un Europeo itinerante, partite sparse in Europa fino alle final four di Wembley, nel nuovo Wembley in Inghilterra, un Europeo che è lo specchio della globalizzazione, dello stretto rapporto con gli altri paesi, delle frontiere aperte, dell’Europa aperta.

Disegno.
Sono le 10 di mattina e mi tuffo nel mio mondo, lasciando pandemie e preoccupazioni fuori dal foglio bianco. Cristiana Buonamano ne “L’Edicola” di SkySport24 nel suo buongiorno a noi telespettatori accenna quel suo sorriso il cui muscolo orbicolare della bocca le crea un dettaglio unico in lei: quando sorride, l’angolo sinistro è leggermente più marcato.
È una matita 2B a righe bianche e rosse della Koh-I-Noor che lascia il primo segno di grafite sulla tavola a fumetti. Sto disegnando pagine difficili, emotivamente pesanti.
«Brividi», direbbe Piccinini.

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