Io non gioco. Anzi, io sto sempre giocando. Non amo i giochi a somma zero, quelli in cui si vince o si perde: mi piacciono i giochi collaborativ,i, infatti da 10 anni gioco un’interminabile campagna di Dungeons and Dragons in cui sono un elfo chierico-ladro. Nel tempo i miei compagni di avventure sono cambiati, ma La Combriccola – così ci siamo battezzati – continua a compiere le sue prodezze nel mondo di Mystara.
Ma come faccio a giocare da sola? Se sei stata una bambina solitaria che leggeva molti libri è facile: prendi un’attività qualunque e la fai diventare un Gioco, un’Avventura.
Da qualche mese ho inventato il Gioco di Camminare. Ho cominciato perché prendevo un farmaco per il mio disturbo bipolare che dava quello che io chiamo lo sbrano cioè, tecnicamente, l’iperfagia: dramma e disperazione, in una settimana sono aumentata 6 chili! Di colpo, ogni vestito che possiedo era diventato una guaina. I pantaloni dovevo abbottonarli o zipparli sdraiata sul letto. E siccome qualunque psichiatra ti dirà che per combattere gli effetti del disagio mentale fare movimento almeno mezz’ora al giorno è benefico quasi quanto un farmaco ho cominciato a camminare. Anzi, a Camminare. Adesso il mio campo giochi è la mia città, e giocare è facilissimo: servono due piedi e due occhi. Se la giornata è buona puoi usare anche altri sensi, compreso il sesto, che a me serve per orientarmi. Ho un’incapacità patologica di costruire mappe mentali, quindi avventurarmi per le strade ha anche una componente di suspence: sarà la strada giusta, o sto facendo una deviazione demenziale solo perchè il mio punto di riferimento è quella casa lì, quella sfilata di portici?
Mi ha ispirato un piccolo gioiello, L’uomo che cammina di Jiro Taniguchi. Piccolo per le dimensioni, ma luminoso nela sua assoluta, sorprendente semplicità. Un uomo si trasferisce in una nuova casa, e comincia ad esplorarne i dintorni in una serie di passeggiate, in cui i dettagli più comuni e insegnificanti acquistano la poesia di un haiku. La vita quotidiana, in ogni suo disegno, si schiude come un fiore, rivelando preziosi particolare, oppure, per essere più giapponesi, si raccoglie come un origami, rivelandoci la forma dell’esistente, la sorpresa perenne della vita umana.
Perché Camminare, se ti guardi intorno, è un’attività spettacolare. Adesso, all’inizio di giugno, i prati incolti sono giardini coperti di fiori bianchi e viola con qualche spruzzata di giallo. Incroci le persone e esegui il rituale della mascherina: su la mascherina, giù la mascherina quando le hai sorpassati, e cerchi di sorridere con gli occhi. Tutti i pedoni sono impegnati, nella mia testa , a fare il mio stesso gioco. Con i piedi puoi andare dappertutto, attraversare le aiuole anche se è vietato, tagliare percorsi che con l’automobile sono tortuosi o inaccessibili, cercare le strisce d’ombra e farne un sentiero a zig zag. E se c’è il vento puoi sentirlo che ti accarezza dappertutto.
I gelsomini sono esplosi in pareti bianche e profumate. A volte i rami di una magnolia antica, o di un cedro si protendono oltre le cancellate di una casa e ti regalano lunghi tratti di frescura in cui il vento cambia consistenza, diventa quasi solido, una dolce gelatina in cui ti muovi con la gioia di un pesce nell’acqua. Mi guardo intorno, mentre pian piano le mie gambe riacquistano intelligenza propria e prendono la cadenza di una musica che suona solo nel mio cervello. Sono partita dalla periferia nord per raggiungere il centro. Di solito prendo la metro, o l’automobile. Meraviglia… ci sono miliardi di particolari che non avevo mai notato e scopro, ancora ai margini della città: un filare di ortensie, decine di varietà di rose, un edificio dipinto in cinque diverse gradazioni di verde chiaro, le piramidi trasparenti della metropolitana, stazione Europa, che emergono dal cemento. Mi ricordo di quando ho visto un palloncino intrappolato tra quegli spigoli. Avrei voluto liberarlo: quel palloncino credeva di lanciarsi verso il cielo. La metropolitana della mia città corre profondissima perché dappertutto ci si imbatte in resti romani, perciò lo scavo della Talpa è andato giù, giù, decine e decine di metri, e il soffitto pieno di lucernari sembra uno strano cielo. Quel particolare palloncino aveva la forma di un orsacchiotto, chissà che fine ha fatto. Immagino che a un certo punto abbia perso abbastanza elio da tornare pian piano giù, tutto appassito. Io amo ricordarlo schiacciato contro il vetro, come un bambino che vuole guardare fuori.
Camminando ti accorgi che nessuno di quelli che incroci o superi cammina allo stesso modo. Ci sono i frettolosi, i lenti, gli incazzati al telefono, sfiori conversazioni di persone, cogli qualche parola e ti domandi come andrà a finire. Un africano senegalese mi ferma e facciamo una lunghissima conversazione in inglese sulla Casamance e ci salutiamo alla fine dicendoci che magari ci incontreremo perché questa è una città piccola. Nel mio gioco dell’oca sono capitata sulla casella della Prigione: ferma un turno. Ma è un lusso che posso permettermi, sto andando a trovare un’amica che mi aspetta a un’ora imprecisata, e quando ci arrivero, fra cinque o sei chilometri, avrò vinto.
È un tiro di dadi, a volte sfigato, come quando passi lungo una sfilata di cassonetti e devi smettere di rspirare, o quando arrivi un attimo priima che il semaforo pedonale passi dall’arancio al rosso. I tiri fortunati sono passare vicino a una siepe fiorita, o a una pasticceria che invade la strada di profumo di vaniglia e brioches.
E piano piano le le macchine diventano oggetti strani che passano velocissimi. Dei ciclisti, invece, vedi la faccia. Anche loro hanno stili di pedalata diversi, agonistica, svagata, sbadata: impari a riconoscere il fruscio delle ruote in arrivo alle tue spalle , perché certi percorsi sono amati sia dei pedoni che dei ciclisti, e devi stare attento a non farti stendere. Anche loro, rispetto a me, sono dei razzi supersonici, ma almeno sentono il profumo dei gelsomini.
E i negozi: ce ne sono tantissimi che non ho mai visto. Ci saranno sempre stati o avranno aperto da poco? Sfioro con uno sguardo le vetrine, non sono interessanti perché c’è troppa roba da vedere intorno! Alzo gli occhi e vedo i tetti delle case, qualcosa che di solito nessuno guarda, ma che rende il mood di una strada completamente diverso. Finestre, fili per stendere, terrazze, cascate di fiori. E sopra, il cielo! Col naso all’aria, avanza di sei caselle. Ora è coperto di piccole nubi, pecorelle candide e soffici in una giornata di luminoso azzurro.
Sono felice al pensiero di tutte le persone che hanno piantato i Gelsomini, nei giardini e nei vasi, perché attraverso banchi di profumo intenso, che ripulisce i polmoni e la testa. Mi piacerebbe mappare la città sulla base dei profumi: a volte da un lato della strada c’è solo gas di scarico, e dall’altro un profumo abbagliante di gelsomini, lavanda, rose.
Il mio Gioco dell’Oca – mi penso così, vista dall’alto – prevede spesso lunghe deviazioniper per attraversare sulle strisce. Ma puoi barare e allora te ne freghi, e attraversi ovunque, a tuo rischio e pericolo, guardando prima a sinistra e poi a destra. Se ti va, corri. La mia mente ansiosa immagina perennemente che arrivi una Maserati velocissima e mi spiani. Lo faccio lo stesso. Le scorciatoie mi appassionano.
Mi avvicino al centro, la case cambiano, e anche le vetrine lungo i marciapiedi. Lavaggio auto self-service è pieno di persone vestite nei modi più diversi, dai calzoncini tamarri ai kurta dei pakistani, c’è persino un sik col turbante – immagino i metri di capelli neri e lucidi arrotolati sotto quella stoffa nera – e anche lui amorosamente sta lucidando la sua automobile, di cui non riconosco il modello perché le automobili non mi sono mai interessate, noto solo che è di un verde intenso, e scintilla sotto il sole sempre più caldo.
Mi inoltro in strade sempre meno ampie, leggo le targhe vicino ai campanelli e noto, senza troppa sorpresa, che qui, nella mia città ultracattolica, un sacco di posti appartengono alle suore: palazzi giganteschi e bellissimi, spesso costruiti all’inizio del novecento, tutti dedicati a una miriade di sante e marie. Chissà, dentro, cosa succede. Sono sbarrate, con gli scuri abbassati dal lato della strada. Zero fiori, erba tagliata.
Che gioia, le vie sono sempre più strette, sono le migliori perché passano poche automobili e c’è più silenzio. Puoi perfino sentire anche il rumore delle foglie secche dell’inverno passato che rotolano dolcemente sul marciapiede facendo un fruscio delicato. Ho le orecchie spalancate, il naso di un segugio, e le mie gambe vanno, vanno.
Piano piano sono entrata in una sorta di trance, non so più dove sono né quanta strada ho fatto. Mi diverto a prendere delle deviazioni a caso, e a scoprire strade che in automobile non percorro mai, o viceversa scopro il nome di strade che ho percorso un milione di volte in automobile, ma di cui non mi sono mai preoccupata di sapere a chi sono dedicate. Patriota. Medico. Vescovo. Sindaco. I vicoli sono i migliori, però: vicolo dell’Anguilla, vicolo dei Millefiori. Questa la so: i mille fiori erano le prostitute, che aspettavano i clienti sulle seggioline, all’ombra dei muri stretti stretti. Adesso la gente, mi avverte il mio naso, ci va a pisciare. Maledetti.
Quando le gambe cominciano ad andare da sole scopri di essere molto più veloce di quanto pensavi, i tiri di dado sono tutti 6, non costa nessuna fatica, è come essere su un’altalena ma l’altalena sei tu, con le tue gambe che fanno destra sinistra destra sinistra. Puoi cantarci sopra quqalunque canzone, ma il blues è il più adatto. Sto cantando dentro di me I’m a woman di Koko Taylor. Da-da-da da-DAM.
[Quanti locali hanno chiuso dopo la pandemia! Guardo quelli che hanno resistito e provo un po’ di tristezza, lì c’era il bar che faceva il chai, là un bar dove accanto al bancone c’era una giraffa di legno alta come me. Fa un po’ tristezza, però teniamo duro e vediamo cosa succede.]
Ancora gelsomini. È incredibile, mi rendo conto che la mia così città trabocca di gelsomini, neanche fossimo in Marocco o in Tunisia.
Guardo con compassione le colonnine del parcheggio in cui devi inserire i soldi: io sono libera, vado dove voglio, gratis.
Più mi avvicino al centro, sono vicina adesso, più mi sfilano accanto banche, appena poco numerose dei bar. Deprimente, ma basta alzare gli occhi ed ecco un tetto strano, un balcone pieno di gerani rossi.
Sto camminando con dei calzoncini e una maglietta senza maniche: gli anziani indomiti che incrocio sono coperti da capo a piedi, alcuni hanno persino un golf di lana. Sudo solo a guardarli. Si vede che sono vicina al centro, c’è molta più gente in giro a piedi. Umanità: i miei pensiri vagano, leggeri, e a volte immagino delle backstory per le persone che incontro. Dove stanno andando? Perché?
Privilegio del Gioco di Camminare: vedere e sentire migliaia di cose. Per esempio gli uccelli, che stanno cinguettando dappertutto. Riconosco i merli, e le loro canzoncine meravigliose. Le voci, c’è un campetto da calcio dell’oratorio pieno di bambini che giocano. «Dai, su, osti!», sento gridare. Dopo un po’ è proprio come appartenere a una specie diversa: la specie dei Camminanti. Una specie che riesce a sfruttare occhi naso la pelle a cui il vento fa il solletico e che asciuga il sudore.
E adesso sono quasi arrivata alla fine del mio gioco dell’oca: vedo il castello, e la torre Mirabella imbandierata, e quel vento ancora primaverile è fresco e piacevole, le bandiere della città, dell’Italia e dell’Europa sventolano con entusiasmo nell’azzurro, E così pure i tendoni dei bar con, quelle gale da gonne della festa che li incorniciano, sembrano anche loro bandierine.
Non so da quanto tempo sto camminando, mi rendo solo conto che ho fatto un sacco di strada, e un senso di piacere e benevolenza verso il mondo si insinua pian piano insieme alle endorfine che si riversano generosamente nel sangue. E mi domando, perché hai aspettato così tanto tempo per scegliere di Camminare?
Ma non ha importanza, perché camminando il tempo smette di esistere e anche i posti diventano di colpo senza età, edifici nuovi e cortili misteriosi che profumano come il giardino di mia nonna centomila anni fa, e poi ancora gelsomin, i gelsomini ovunque Tra poco sarà il momento dei tigli e la città esploderà di profumo. Ho finito il gioco, sono nel centro della città, suono il campanello della mia amica. La mia città, mi sembra mia veramente solo in momenti come questi. Ho vinto! E non vedo l’ora di attraversarla di nuovo.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.
2 risposte su “Il Gioco di Camminare”
Album
Grazie, per camminare e per raccontarlo qui. Stamani rileggevo un articolo sull’esplorazione dei luoghi abbandonati, o Urbex come la abbreviano gli anglofoni. Non potendo né andare in giro in solitudine relativa, né guardarmi attorno, sono entrambe attività di cui a volte c’è un bisogno quasi fisico; solo i libri, le narrazioni in genere, riescono ad offrire un surrogato accettabile, anche se restano pur sempre soltanto parole. E quindi grazie, di nuovo.