Il secondo numero di QUASI si apre con una mia intervista a Manuele Fior. È una chiacchierata molto interessante e, se te la sei persa, puoi recuperarla quando vuoi QUI. In quest’anno e mezzo di equilibrismo sul limitare delle concessioni per decreto, la cartoleria / tipografia / galleria “Bonvini 1909” di Milano è riuscita a infilare una bella mostra degli originali di Celestia. È il due ottobre e, due giorni prima del mio cinquantaduesimo compleanno, mi regalo una chiacchierata con Manuele. Alla fine gli organizzatori, persone splendide davvero, ci portano a cena. E la chiacchierata continua e diventa più informale. Manuele e io condividiamo un amore per gli X-Men degli anni Settanta e Ottanta. Da questa comune passione scaturisce, durante la cena, un’accesa discussione su alcuni fumetti di supereroi che reputiamo, ancora oggi, meravigliosi. Poi il discorso devia su altro. Rimaniamo però negli Stati Uniti e, come due veri monomaniaci che hanno trovato un argomento prezioso, iniziamo a raccontarci le emozioni prodotteci dai comic book Fantagraphics degli anni Novanta e Zero. Parliamo di quella casa editrice, di quanto abbiamo amato il “Comics Journal” e, naturalmente, di Kim Thompson e Gary Groth. A un certo punto, Manuele piega il capo in avanti e, puntandomi lo sguardo più luminoso e sorridente che tu possa immaginare, mi racconta del suo soggiorno a San Diego. Fantagraphics è il suo editore americano e nel 2018 è stato ospite del Comic-con. Mi dice che, negli Stati Uniti, lo strapotere economico e commerciale del fumetto mainstream – quello di supereroi, per capirci – ha strangolato così tanto lo sviluppo e le possibilità di qualsiasi altra forma e genere che le posizioni di Groth sono estremamente radicali: è difficilissimo che abbassi la guardia e confessi di trovare elementi di bellezza in una serie di eroi con superpoteri.
La frase di Manuele mi resta in testa per un po’. Penso che il fatto di essermi formato, come lettore di fumetti, in un momento in cui le edicole mi porgevano, con la stessa noncuranza, narrazioni diversissime sia stata una fortuna. Posso spegnere, per brevi istanti, la puzza sotto il naso, concedendomi di divertirmi con qualsiasi cosa.
Capita che gli statunitensi disprezzino i fumetti in cui si muovono figurine che dialogano tra loro, invece di scazzottarsi, svolazzando tra i grattacieli ed elargendo eroismo e sarcasmo. Chiamano gli albi in cui l’azione non domina ogni scena “talking heads comics”. Lo so: anche tu, come me, appena senti Talking Heads, pensi subito al gruppo di David Byrne e a quel trittico di dischi meravigliosi, prodotto da Brian Eno e culminato in Remain in Lignt del 1980. In realtà Talking heads è proprio un insulto. Chiedo a “Urban dictionary” di chiarirmene il senso (e mi perdonerai per la traduzione):
«“Talking Head” è una persona che non smette mai di parlare. Si affianca alla tua auto, dopo una lunga giornata di lavoro, e spettegola del vicinato o ti chiede dettagli sulla tua giornata, così che poi possa distorcerli e distribuirli tra i vicini.
Non tutte le “Talking Head” sono maligne, ma tutte sono idiote e perditempo.
È importante interromperle immediatamente, anche sembrando bruschi e rischiando di finire nella loro “lista nera del vicinato”. La maggior parte delle “Talking Head” è, a propria insaputa, odiata e disprezzata da tutti.»
Insomma, quando un americano parla di “Talking Heads comics” non sta facendo un complimento.
Passo un sacco di tempo con fumetti francesi tra le mani, pur non avendo mai studiato la lingua. Tutto il francese che intuisco, leggendo quei fumetti, l’ho imparato così, a intuito e sentimento. Ci sono cose che riesco a leggere speditamente, guadagnandone un senso non troppo distante da quello colto da altri lettori che capiscono la lingua. Quando il registro linguistico diventa articolato o le sfumature – comiche, emotive – che si annidano nelle parole diventano fondamentali per capire quello che succede, mi perdo un sacco di cose. Me ne dispiaccio profondamente e maledico gli editori che non mi stanno permettendo di leggere una versione in italiano di quelle storie (magari tradotte da qualcuno che non vada a intuito e sentimento, come spesso ho la sensazione che accada). Di recente, approfittando di un’edizione integrale, ho cercato di leggere L’encyclopédie des bébés di Daniel Goossens. Dopo un po’ mi sono infranto sulla complessità e l’articolazione del linguaggio dell’autore. Sono un pusillanime e, per non rattristarmi di fronte ai miei limiti, mi sono detto che, siccome è un ricercatore di intelligenza artificiale, costruisce articolazioni del racconto che non possano essere trattate con le grammatiche generative di Noam Chomsky (quando sono in difficoltà, per tranquillizzarmi, estraggo dal cilindro concetti con nomi difficili che non mi ricordo più).
Insomma, ho smesso di leggere. Ma non per questo ho riposto il volume. Ho continuato a sfogliarlo a lungo e, pur negandomi il contenuto verbale e non capendo nulla dello svolgersi delle vicende, ho goduto tantissimo. Un fumetto di Talking Heads, completamente privo di azione, a meno che tu non voglia considerare tale il cambio di un pannolino. Eppure in quelle pagine succede di tutto. Basta guardare le mani dei personaggi. C’è questo professore che spiega come capire meglio i neonati e che è spesso seduto, accanto ad altri personaggi, in salotti televisivi, sulle panche di un bar, o nel suo studio. Si muovono tutti molto poco e parlano tanto, tantissimo. Ma mentre muovi lo sguardo sulla pagina osservi il modo in cui intreccia le dita, fitte, serrate, indissolubili. Poi, a un certo punto le mani si distaccano e lui comincia un breve elenco. E quando menziona il primo punto, si afferra forte con l’altra mano il pollice. Lo copre tutto. Non lo indica con un dito, non lo prende tra indice e pollice: lo fa sparire completamente nel pugno serrato. E la stessa cosa fa quando passa al secondo tema del suo discorso e deve spostarsi sull’indice. Quella testa che si piega pochissimo, quel sorriso contenuto che si sposta minimamente, quelle mani che simulano i gesti misurati di chi ha avuto un’educazione altoborghese ma trasmettono un fare grossolano, ci dicono molto di quell’uomo corpulento, dall’eloquio ampio e complesso.
Goossens, in italiano, lo si è visto pochissimo (potrei sbagliarmi, ma credo solo in qualche numero di “Totem comic”, la sola rivista che, per alimentare il proprio indice, pescava senza timore dalle pagine di “Fluide Glacial”, facendoci leggere, soprattutto, Edika). Ripenso ai lavori di due fumettisti che lo hanno molto influenzato. Il primo è Gotlib, suo mentore sulle pagine di “Fluide”, che ha pubblicato quasi tutti i suoi fumetti; la seconda è Claire Bretécher.
Esistono sequenze esilaranti di Gotlib in cui un personaggio, inquadrato, senza alcun movimento di campo, mentre è seduto in un posto e parla, subisce un crescendo irrefrenabile nei movimenti. Proprio per evitare le “talking heads”, Gotlib inserisce in situazioni che potrebbero essere poco movimentate sequenze di azione immotivate, fini a se stesse, che conducono a un orgasmo e quindi a una nuova stabilità.
Bretécher agisce in direzione contraria. Personaggi seduti sul divano o al tavolo del bar che si muovono con assoluta naturalezza. Il suo racconto di normalità metropolitana mostra corpi borghesi che agiscono normalità borghese, muovendosi tra banalità e affermazioni deprecabili. Bretécher non ama i suoi personaggi, e neanche i suoi lettori. Per questo motivo non hanno mai alcuna eccezionalità. Certo: agli inizi di “L’Echo des Savanes”, il suo personaggio viveva avventure straordinarie per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina per la madre. Ma si chiamava Giovanna d’Arco. I Frustrati sono goffi, proprio come noi, si muovono male, come noi, si agitano mentre stanno provando abiti che mettono in evidenza difetti del corpo, proprio come noi.
Goossens è lì, in quello stesso territorio narrativo. Disegna vignette sempre uguali in cui i personaggi si muovono pochissimo. Eppure, anche se non puoi o non vuoi leggere quel muro di parole, basta che ascolti quelle mani: raccontano tantissime storie.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).