Il cuore nero di Sonny: La vita senza pace di Charles L. Liston

Boris Battaglia | Vite ammaccate |

Se mi incontri di persona potresti chiederti perché sono così storto. No, non è il vino, anche se alle volte sì. è che ho passato il mezzo secolo e comincio a ripiegarmi su me stesso, ma forse non è nemmeno quello. Forse sono state le botte. Niente di epocale. Niente manganellate di fascisti o celerini prese mentre difendevo la rivoluzione, niente risse al comando della mia ghenga per il controllo di una zona, solo due cazzotti ben assestati presi da un ultraquarantenne che faceva sparring con un diciottenne. Due vertebre cervicali incrinate e la spalla destra fuori uso. Vagamente storto per sempre, e dolori cervicali ricorrenti. Robetta. Come tutta la mia vita.
Però, cazzo, il ring! Mentre sali su quell’ossimoro (è quadrato e lo chiamano ring) ti caghi addosso. Non vorresti esserci. Non ora, non lì. Eppure tutte le volte ci torni su. Adesso e qui. A prenderle, finché non sono troppe. Di solito quello è il limite.
Da oggi, in questa rubrica ti racconto le vite di quegli incredibili personaggi che io amo e che sono arrivati a quel limite e lo hanno superato.

DOVEROSA PREMESSA

Sonny Liston è un personaggio complesso, difficile, ambivalente. Ho fatto fatica a trovare la voce per questo mio pezzo con cui volevo raccontarlo . Ho assecondato e privilegiato la parte leggendaria delle memorie su di lui. Ho trascurato colpevolmente, ma consapevolmente, la parte sentimentale della sua vita per dare tutto il peso a quella simbolica. Chiedo anticipatamente scusa a chi resterà insoddisfatto da questa mia scelta, rimandandolo alla lettura di due libri bellissimi:

  • LeRoi Jones, Sempre più nero, Feltrinelli, 1968
  • Nick Tosches, Il Diavolo e Sonny Liston, Mondadori, 2005
Disegno di Paolo Castaldi

Settimo Round.
Cazzo se ho fatto fatica. Mica ci sono andato a scuola, ma a contare sono capace, e li ho contati. Purtroppo devo, e allora la faccio finita qui. Al tappeto non ci vado, gliel’ho detto che non ci penso nemmeno. E che non devono chiedermelo. Adesso al suono della campana mi invento qualcosa, ma non ci vado giù, non gliela do questa soddisfazione a quel pagliaccio. Lo stendo in due riprese quel frocetto di negro arrogante e ballerino.
Dai. Non voglio pensarci più. Faccio quello che devo.

Al suono del gong Sonny Liston non si alza dal suo angolo. Sputa rabbiosamente il paradenti e dichiara di non potere continuare l’incontro perché ha la spalla slogata. Lo stupore del pubblico è palpabile. È difficile credere che Liston sia fuori combattimento. Fino a quel momento l’incontro era stato di perfetta parità, e questo perché Liston si era risparmiato. Strano che ancora non avesse tirato fuori la sua furia distruttrice.
Quella furia che al giovane sfidante che adesso si sbraccia sul ring per la vittoria, aveva fatto, per sua stessa ammissione, sempre una gran paura. Adesso però Cassius Clay balla vittorioso nel centro del quadrilatero, nuovo campione del mondo dei pesi massimi, mentre Liston se ne sta seduto nell’angolo, i pugni stretti e la sottile fessura degli occhi carica d’odio.
Sembra un re che ha appena abdicato, un gigante caduto, un campione battuto. Ma non sconfitto.
È il 25 febbraio del 1964.

Mi piacerebbe scrivere che questa storia è cominciata trentadue anni prima. Ma non sarebbe vero. Perché la data dell’8 maggio 1932 stampata sui documenti di Sonny Liston quale data della sua nascita è solo una pura formalità. L’ha scelta lui, certo, ma perché serviva ai suoi manager: senza una data di nascita non ci si può iscrivere alle federazioni. Una data bisognava pure inventarsela, e così ha fatto.
In realtà nessuno conosceva la data di nascita di Charles L. Liston. Nemmeno sua madre, Helen Baskin, si ricordava l’anno in cui l’aveva messo al mondo. L’unica cosa certa è che nacque in Arkansas a Sand Slough, una paludosa e insalubre piantagione di cotone, tra il 1925 e il 1932, uno dei venticinque figli del mezzadro che si occupava di quella piantagione, Tobe Liston. Il nono dei dieci che Tobe ebbe dalla sua seconda moglie Helen. Il nome di Charles L. non gli fu dato né dalla madre né dal padre, ma dalla levatrice. Per cosa stesse quella elle puntata nessuno l’ha mai saputo.

Non avevo niente da bambino. Nemmeno le scarpe. Solo degli stracci sporchi e consumati per vestito e un sacco di fratelli e sorelle. Non me li ricordo nemmeno tutti. A dire il vero non ne ricordo nessuno. Mia madre è stata la persona più inutile che ho conosciuto e mio padre il più grande degli stronzi bastardi. Se lavori, mangi, diceva quel cane. E ci faceva raccogliere il cotone appena eravamo capaci di camminare. Lavoravo duro. Mi ammazzavo di lavoro e lui, quel figlio di una cagna, mi ripagava con botte e frustate e un piatto di minestra. Porto ancora i segni della sua frusta. Lo odiavo. Avrei voluto vederlo morire. Se non me andavo via, lo uccidevo io, con le mie mani, appena diventavo abbastanza forte per farlo.

Aveva mani enormi Charles L. Liston. Quando stringeva i pugni ognuno di essi misurava una circonferenza di 40 cm.
Appena comincerà a salire sul ring i guantoni glieli dovranno fare su misura, non ce n’è di adatti a pugni così grandi. Pugni che fanno paura.
Nel 1946 segue la madre a St. Louis nel Missouri. Helen non riusciva più a sopportare la miseria della loro condizione e la violenza del marito. Lo abbandona e se ne va in città a lavorare in una fabbrica di scarpe. Dopo poco Charles la raggiunge. Potrebbe avere tra i 14 e i 21 anni. È un gigante e l’unica cosa che possiede sono quei due pugni enormi, quelle due mazze.
Nell’America depressa del dopoguerra non ci sono molte possibilità di lavoro per un negro analfabeta e senza la minima qualifica. La soluzione che si prospetta a un ragazzo in quelle condizioni per sopravvivere e affermarsi è solo una. Il crimine.
Rapine, estorsioni, aggressioni. In poco tempo quel colosso a cui bastano solo i pugni per rapinare passanti e commercianti, diventa il capo di una piccola banda. Sono in tre. Compiono rapine a mano armata: un ristorante, una pompa di benzina, un bar. Violenti e spietati non brillano certo per lucidità e furbizia. Il bar, l’Unique Cafè, che rapinano è praticamente dietro casa di Liston. Lui era indicato nei rapporti della polizia come il negro con la camicia sgargiante, gli altri come negro 2 e negro 3. Lo identificano in fretta. Proprio per la camicia. Sul finire del 1949 li beccano tutti e tre, mentre sono a casa a spartirsi i pochi dollari dell’ultimo bottino.

Mi hanno beccato per colpa della camicia. Lo so. Non avevo paura di niente e mica ci ho pensato che non dovevo farmi riconoscere e con questa camicia colorata sembro una specie di semaforo. Coglione maledetto che sono stato. Gliel’ho praticamente detto io agli sbirri dove venire a prendermi. Quando abbiamo rapinato l’Unique Cafè ce ne siamo tornati a casa a piedi. Cazzo! Cinque anni! Cosa ha detto quella merda incravattata dell’avvocato? Che se mi comporto bene due e mezzo e sono fuori? Non ci resisto mica io. Sento già la rabbia che mi mangia dentro. Mi sa che finisce che spacco qualche testa, faccio qualche stronzata. Ci impazzisco due anni là dentro. Mi ammazzo prima.

È un posto di merda il carcere. Se sei povero, analfabeta, negro il Missouri State Penitentiary di Jefferson City sarà sicuramente un inferno. Ci sono gerarchie e ruoli che ricalcano quelli della società razzista del Missouri, solo più estremi. E i neri sono una minoranza là dentro.
Ma.
Liston pesa 92 chili per un metro e novanta, ha un collo taurino, spalle enormi e braccia possenti. E quei due incredibili pugni. Scardina tutte le gerarchie insieme alle teste di chi vorrebbe fargliele rispettare. Charles L. Liston non si piega.
Certo. Il cappellano del carcere dovrebbe occuparsi del conforto spirituale dei detenuti e della salvezza delle loro anime. Ma lì non c’è molto materiale su cui lavorare in quella direzione. Così Padre Edward Schlatman si dedica all’altra cosa che sa fare bene: occuparsi della salute fisica dei detenuti. Gestisce la palestra del carcere con assoluta competenza e ottimi risultati. E’ rispettato e apprezzato dalla popolazione carceraria. E subito individua in Liston la sua principale qualità. Così decide di insegnargli a usare quei magli che si trova al posto delle mani nel modo più appropriato: sul ring.
«Senti un po’ Charles», gli dice dopo l’ennesima rissa in cui ha mandato in infermeria tre carcerati bianchi, «ho visto come hai steso ieri quei caproni razzisti. Ora ti tocca un bel po’ di isolamento. Però ho pensato una cosa, sai che sono il responsabile della palestra di questo posto del cazzo. Ti insegno i rudimenti della boxe e vediamo se ci sei portato. Io credo di sì, mi ci gioco il crocefisso. Se accetti con il direttore ci parlo io e ti eviti l’isolamento. Ti va?»-

Certo che mi va, sono mica scemo! Così in pochi giorni il prete non ha più niente da insegnarmi. Mi alleno tutti i giorni come un matto con un ragazzetto che mi fa da sparring. Si chiama Sonny. Mi piace quel nome e lui mi è simpatico. Se divento famoso lo uso io. Sonny Liston. Campione del mondo. Suona bene. Meglio di Charles.
Oggi Padre Edward mi ha detto che non ha più pugili dilettanti contro cui farmi combattere, glieli ho stesi tutti. Adesso se ci riesce dice che ne fa venire uno da fuori, uno forte, un campione. Vediamo.

Padre Schlatman conosceva Maureen Harrison che viveva a St. Louis e che era il manager di Joe Louis. Gli chiede di venire a vedere questo ragazzo prodigio che si allena nella palestra del carcere.

«Ha già mandato tutti i miei dilettanti al tappeto. Ha una rabbia che a riuscire a incanalarla e a disciplinarla, unita a quei due pugni incredibili, lo può fare arrivare sulla vetta, al titolo mondiale. Vieni a vederlo per favore.»
Harrison va e si porta un pugile professionista.
«Vediamo quanto resiste questo pivello contro Thurman.»
Thurman Wilson è un buon peso massimo, che ha già qualche bella vittoria all’attivo nel professionismo. Liston lo stende in quattro riprese.
«Dobbiamo tirarlo fuori da qui.», dice Harrison a Padre Schlatman, «Deve arrivare a combattere per il titolo. Credo di sapere io come fare.»

Frank Mitchell è il proprietario del “Saint Louis Argus”, uno dei giornali più letti della città. Prima di fare i soldi con le assicurazioni faceva lo sparring partner nelle palestre di St. Louis. Aveva incrociato i guantoni anche con Joe Louis. Conosce ancora tutti nel giro. Con Harrison sono molto amici. Mitchell è amico di tutti quelli che contano in città. In particolare di John Vitale. A St. Louis il controllo del territorio (estorsioni, prostituzione, droga e scommesse) è diviso tra siriani e italiani. John Vitale è il referente di Cosa Nostra e risponde direttamente a Frankie Carbo.
Carbo si era messo in luce negli anni Trenta, durante il proibizionismo, come esponente di punta della Murder Inc. Killer spietato diventa presto uomo di punta della famiglia Galliano fino a diventare il responsabile di Cosa Nostra  per le scommesse legali e clandestine degli Stati Uniti orientali. La boxe era la sua grande passione e oltre a organizzare gli incontri più importanti degli anni Quaranta cercò di avere sotto contratto i pugili migliori.
Jack La Motta è il campione più importante che Carbo ha sotto contratto. Quando Mitchell, presentatogli da Vitale, gli racconta di questo negro giovane e potentissimo da tirare fuori di prigione per portarlo nel professionismo, Carbo sa che La Motta è ormai agli sgoccioli. Il 14 febbraio del 1951 Sugar Ray Robinson glielo ha massacrato in quell’incontro passato alla storia come Il massacro di San Valentino.
Ha bisogno di carne fresca, di nuovi campioni su cui puntare. E puntare forte.

Una campagna stampa perfettamente organizzata da Mitchell con il suo giornale unita alla giusta dose di corruzione tra le maglie dell’amministrazione giudiziaria del Missouri e nel 1952 Sonny Liston è scarcerato.

Nel 1946 Duke Ellington, con la fondamentale collaborazione di Billy Strayhern, dà alle stampe un disco incredibile. Deep South Suite, un’opera jazz, per i tempi, di assoluta avanguardia che non ebbe un grande successo commerciale. Il quarto movimento di questa suite, intitolato Happy go lucky local, intriso di elementi blues, diede però a Jimmy Forrest, talentuoso sassofonista che aveva suonato nell’orchestra di Ellington alla fine degli anni Quaranta, un’idea brillante.
Ci attaccò un riff iniziale preso direttamente da That’s the blues old man, un vecchio blues di Johnny Hodges e ci integrò in modo geniale parti di sassofono e batteria, con un memorabile assolo di sax tenore. Ci mise sopra un testo scritto per l’occasione da James Simpkins (proprietario della United Records, l’etichetta per cui pubblicava), la intitolò Night Train e ai primi di marzo del 1952 la buttò sul mercato discografico. Così trasformata in un bellissimo R&B la canzone rimase in classifica per venti settimane e per ben due mesi consecutivi si piazzò al primo posto.
Night Train passa alla radio la sera prima che Charles L. Liston venga scarcerato. Se ne innamorerà e diventerà il suo mantra personale.
Non salirà mai sul ring senza averla prima ascoltata almeno due volte.

Il 30 ottobre 1952 Charles L. Liston ottiene la libertà condizionata, sotto la tutela di Mitchell; il quale gli trova un lavoro in un’acciaieria, un appartamento e una palestra dove allenarsi. La palestra è quella della sua scuderia di giovani pugili dilettanti. La carriera dilettantesca di Liston, che da quando è uscito di prigione si fa chiamare Sonny, è fulminea. Comincia a febbraio del 1953 e culmina a marzo, quando stende Ed Sanders (medaglia d’oro per i pesi massimi alle Olimpiadi del 1952) che pochi mesi dopo l’incontro morirà per un’emorragia cerebrale che la famiglia imputerà alla violenza dei colpi di Liston. Si chiude a giugno dello stesso anno quando manda al tappeto alla prima ripresa il campione europeo Herman Schreibauer e si aggiudica l’International Golden Glove.
A settembre Sonny Liston combatte già da professionista, sotto contratto con Carbo.
Trentacinque incontri tra il ’53 e il ’61, con in mezzo un anno, il 1957, trascorso nuovamente in carcere per avere picchiato e disarmato un poliziotto.

Disegno di Paolo Castaldi

Adesso che stai mangiando il fango della strada, frigni. Mi preghi di non ucciderti. Mi sa che ti sei pisciato sotto. Dove è finito il tuo disprezzo per questo negro? Cosa volevi? Che lo sporco negro si togliesse di torno velocemente, lui e la sua carretta dal tuo parcheggio? Lo sporco negro che ti ha rotto la faccia, sbirro del cazzo, adesso è indeciso se bere il tuo sangue o sputarti su quello che resta della tua faccia? Tu cosa preferisci?

Tutti gli incontri vinti per KO. Una serie incredibile di pesi massimi mandati al tappeto. Emil Brtko, Calvin Butler, Johnny Gray, Larry Watson.
Sconfitto una volta sola. Ai punti. Contro Marty Marshall. Il 7 settembre 1954 a Detroit.
Alla settima ripresa in realtà Sonny l’aveva buttato giù. Ma quello risalta su con un urlo che sembra Tarzan. Liston scoppia a ridere e Marshall approfitta di quella disattenzione, penetra la sua difesa e gli arriva dritto sulla mascella, fratturandogliela. Liston terminò l’incontro con la mascella penzoloni e perse ai punti.

Non lo so perché i ragazzi di Vitale mi hanno detto di non vincere l’incontro. Di farlo durare quanto volevo, ma di non vincerlo. Non lo so. Non le capisco queste cose. Non vale niente questo Marshall. È solo un pagliaccio. Se non mi faceva ridere col cazzo che riusciva a colpirmi. Va bene, dai. Io gliel’ho detto. Faccio come volete. Lo faccio vincere ma non ci vado giù. Non con quello lì che lo frantumo con una mano. Nemmeno se mi sparate vado giù. Gliel’ho detto.
Ecco adesso saranno contenti. Secondo i giudici ha vinto lui… Dio! Che male la mascella. Ma almeno ci facciamo un po’ di soldi con la sua vittoria. Nessuno se lo aspettava. Lo davano alto. In fondo ero io il favorito. Dicono tutti che sono invincibile.

Ma non era una questione di scommesse quell’incontro. A differenza di quello che si racconta e di ciò di cui fu più volte accusato gli incontri di Liston combinati dalla Mafia non furono più di tre. Quella volta fu una questione di strategia. Le quotazioni di Liston dopo la sconfitta avrebbero reso più facile trovargli futuri sfidanti e reso soprattutto molto più redditizie le scommesse su di lui.
Comunque era vero. Liston era invincibile. Nei due anni successivi atterrerà Marshall con violenti KO in due ferocissimi incontri. Che gli valsero la fama di essere una bestia feroce.
In realtà non lo era. Era un uomo. Un uomo ferito le cui ferite non si erano mai cicatrizzate. Aveva imparato a restituire tutti i colpi che aveva ricevuto. Con più rabbia e più forza. E questo spaventava, tanto, il pubblico bianco benestante e benpensante. Quel pubblico che invece adorava Floyd Patterson.

Il 27 aprile del 1956 Rocky Marciano si ritira imbattuto campione mondiale dei pesi massimi. Il 30 novembre Archie Moore, che aveva conteso invano a Marciano il titolo già due volte, si trova a disputarlo, in quanto vacante, con Floyd Patterson.
Patterson è un personaggio emblematico. In qualche modo chiude gli anni cinquanta che furono il decennio di passaggio verso l’integrazione razziale nella boxe. Fino ad allora al pubblico piaceva vedere bianchi e neri opposti sul ring e ogni incontro diventava, simbolicamente, uno scontro razziale. Quando Patterson vince, contro Moore, il titolo mondiale, chiude questo periodo e apre il decennio in cui il pubblico dovrà sempre scegliere tra due pugili neri. Non sarà più una lotta tra Bianco e Nero, ma tra Bene e Male.
Patterson, per la sua storia personale, per la sua indifferenza pubblica verso la questione razziale, per la sua disciplinata gentilezza rappresentava il Bene. Sonny Liston, per il suo passato, per il suo alcolismo (si beveva una bottiglia di Canadian Club senza battere ciglio), per il suo fare dentro e fuori dal carcere, per l’essere così intransigentemente negro, rappresentò il Male.
Fu difficile per lui arrivare a disputare il titolo detenuto da Patterson. La sua storia fatta di crimini, i rapporti con Cosa Nostra, lo identificavano come il peggior figuro del mondo della boxe. Il grosso negro pericoloso che terrorizzava l’inconscio di ogni bianco d’America.
Patterson ebbe gioco facile a rifiutare per lungo tempo la sfida. Ma alla fine dovette incontrarlo. Era talmente benvoluto che lo stesso presidente Kennedy gli raccomandò, prima dell’incontro, una sera a cena alla Casa Bianca: «Devi assolutamente batterlo quel tizio».

Appena la smette di girarmi intorno questo fottuto ballerino, lo stendo. Praticamente non ha guardia. Salta a destra, salta a sinistra, davanti e dietro, ma prima o poi dovrà fermarmisi davanti, dovrà pure provare a colpirmi… eccoti, bello! Ora vedi. Prova il mio gancio. Sinistro, sinistro, sinistro. Ti vanno giù le ginocchia eh, negretto da cortile?! Ma niente tregua, no. Destro, sinistro… montante destro… ma… dove sei finito… ah… sei andato giù, lo sapevo che la tua guardia era di burro. Ora stai giù. Sono io il campione!!

Il 25 settembre 1962, al Comistey Park di Chicago, Patterson finì KO. Alla prima ripresa. Dopo due minuti e dici secondi. L’anno dopo, per la rivincita a Las Vegas, durò venti secondi di più.
Liston mantenne il titolo fino al 25 febbraio 1964.
Era assolutamente il più forte. Ma il pubblico non era con lui. Ubriacone, molesto, violento e, in certo modo, troppo negro. Gli preferirono sempre i suoi avversari. E tra i suoi avversari amarono Cassius Clay, almeno fino al suo rifiuto di partire per il Vietnam.

Era, almeno al tempo del loro incontro, un pugile decisamente superiore a Cassius Clay. Non avrebbe mai perso quell’incontro del febbraio 1964 se non fosse stato minacciato dai Black Muslim. Non tanto lui. Nessuna minaccia di morte l’avrebbe convinto a perdere un incontro, quanto alla sua famiglia. Liston sapeva di cosa erano capaci quei fanatici se ti consideravano loro nemico. E lui già aveva rifiutato di entrare nella Nazione dell’Islam, mandandoli bellamente affanculo.
Il giorno dopo essere diventato campione del mondo invece Cassius Clay annuncerà la sua conversione, e cambierà nome in Muhammad Alì.
Elija Muhammad, capo dei Black Muslim, dichiarerà che i bianchi avrebbero voluto che Liston massacrasse Alì, ma lui e Allah l’avevano impedito. E Alì era diventato campione del mondo. Una brillante operazione di marketing, di cui, va detto, Alì era completamente all’oscuro.
È molto probabile che quando per la rivincita, il 25 maggio 1965, la Nazione dell’Islam chiese nuovamente a Liston di perdere, Liston dovette accettare. A febbraio avevano assassinato Malcolm X, non dubitava certo di quello che avrebbero fatto se avesse rifiutato.

Però non la ripeto una pagliacciata come la prima volta. Stavolta sai che faccio, vado giù secco. Quasi lo prendo per il culo Muhammad. Manco mi faccio colpire. Vado giù alla prima ripresa. Sì. Faccio così. Io attacco e quel ballerino comincerà a saltellare e schivare e tutte quelle mossette lì che fa lui. E poi, appena accenna a colpirmi, sbam, vado giù, come avessi ricevuto un pugno fantasma. E speriamo che questa farsa sia chiusa per sempre. Basta titoli. Se lo tenga.

Gli anni che seguirono sono di declino progressivo. Un periodo in Svezia e poi il ritorno negli Usa. Incontri sempre vinti, ma con pugili di mediocre levatura. I manager dei pugili più significativi tengono i loro pupilli lontani dal Grande Orso Cattivo (così l’aveva soprannominato l’esuberante Cassius Clay). Liston è depresso. Comincia a frequentare il suo antico idolo, a cui tanti l’hanno paragonato, Joe Louis. Probabilmente comincia a fare uso di eroina, iniziatovi dallo stesso Louis.
Il 5 gennaio 1971 viene trovato cadavere nella sua villa di Las Vegas.
Qualcuno sostiene che sia stato ucciso perché aveva deciso di raccontare i retroscena degli incontri del 1964 e del 1965. Più probabilmente è morto per overdose d’eroina.
Quando viene ritrovato è già morto da alcuni giorni. La data esatta della morte non si riuscirà mai a stabilirla.
Un uomo senza data di nascita e senza data di morte.
Tutto quello che sappiamo di lui è questo.

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