[A causa di una nevrosi congenita, in materia di scrittura preferisco l’estetica (ma pure la cosmesi) all’etica (in pratica il bello al buono): invece di usare * o ə come si dovrebbe, scrivo tutto al maschile, nonostante io creda fortemente in questa pratica. Altrettanto fortemente credo nel valore del simbolico, perciò sentitevi liberi di astrarre il vostro genere preferito a partire da articoli, sostantivi e aggettivi declinati arbitrariamente al genere maschile che leggerete qui].
Il buon esito del processo di integrazione del protagonista all’interno della società [consolidare i valori sociali offrendo al lettore un modello di comportamento cui adeguarsi a beneficio della società] è la materia del Blidungsroman nella sua forma primigenia – un luogo tanto comune che ce lo dice pure Wikipedia. Anche senza scomodare Franco Moretti, diciamo tranquillamente che il romanzo di formazione nella veste pura, quella che si suole far iniziare dal Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe, entra in crisi negli anni Dieci del Novecento, gemmando altre forme: la funzione del romanzo di formazione a un certo punto smette di essere il disciplinamento sociale, e si avvicina piuttosto alla messa in discussione delle strutture della società in cui l’opera viene prodotta [benvenuti nel XX secolo!]. La critica letteraria consueta direbbe che, arrivati a questo assetto, il filone si esaurisce, ovvero continua a fruttare romanzi di questo tipo, ma in termini pedissequi: le opere non riescono più a innovare la tradizione in cui si collocano, smettono cioè di apportare significativi elementi di eversione rispetto ai modelli cui si rifanno, ribadiscono strutture già consolidate e affermate all’interno del canone [questa prospettiva non mi trova del tutto concorde: non ne leggo molti, ma in America mi hanno insegnato a considerare i romanzi epigonici un ottimo esercizio di lettura, una di quelle frequentazioni che mettono in luce gli aspetti consolidati di una tradizione, fungendo da amplificatore, permettendo di saggiare variazioni, etc. Dopodiché, il giudizio di valore andrebbe bandito in sede di studi, ma qui siamo in un blog di critica quindi va bene così].
In pratica, all’inizio del Novecento, il romanzo di formazione puro ha detto tutto quello che doveva dire ed è diventato anacronistico: trasformazione dopo trasformazione, la narrazione del rapporto io-mondo ha esatto una diversa organizzazione rispetto a quella che vuole il protagonista entrare pacificamente a fare parte della società. A distanza di un centinaio di anni dalla sua crisi, verrebbe quindi da pensare che il Bildungsroman sia un fenomeno un po’ datato per trarne spunti utili a osservare i fumetti di Simon Hanselmann – quantomeno quelli che ho letto, cioè Megahex, Special K e Bad Gateway (peraltro in traduzione italiana).
E invece funziona ancora alla perfezione, se, naturalmente, lo ribaltiamo: e questa, per i miei 0,25 lettori, certamente non corrisponderà a chissà quale verità rivelata – però mi viene utile partire da qui. Perché la formula più adeguata a definire i fumetti di Hanselmann è quella dell’esibizione del mancato raggiungimento del rapporto individuo-società, nel segno del disfacimento strutturale della storia, cioè un sistema perfettamente speculare al romanzo (e poi al fumetto) di formazione classico: un plot in cui un protagonista, via via psicologicamente approfondito, intraprende un processo di trasformazione che lo conduce da uno stadio A a uno stadio B, anche attraverso il viaggio, o la relazione con altri personaggi, o il contatto con contesti diversi da quello da cui proviene (e così via). Riassumendo: un inizio [un dato assetto], uno sviluppo [una serie di esperienze], una fine [un nuovo assetto].
E ora qualcosa di completamente diverso: la quotidianità di tre soggetti marginali che interagiscono tra di loro prevalentemente intorno a questioni misere – hanno esaurito le scorte di stupefacenti/hanno perso il numero dello spaccino/hanno finito l’alcol/non hanno soldi per prendersi da mangiare/faticano a tollerarsi a vicenda/si feriscono in seguito a pratiche sessuali estreme/si perdono mentre raggiungono una festa/non sanno come gestire un bad trip – senza mai riuscire a risolverle veramente. Tuttavia, e questo conferma che la storia la fa il come si racconta, più che il contenuto in sé (quindi insegnate alla gente come leggere i testi, per dio), la chiave di lettura sta piuttosto nel fatto che, normalmente, oltre la conclusione inconcludente dell’episodio, Hanselmann aggiunge una o due vignette che continuano linearmente la narrazione [che va dalla singola tavola alle 10-11, eccetto il flashback alla fine di Bad Gateway, che vedo – e spero – come un’introduzione a un futuro prequel su Megg]. A significare che, nelle vite di Megg, Mogg, e, più che Owl, Lupo Mannaro Jones, nulla può veramente cambiare, ma tutto scorre impassibile, lasciandoli costantemente uguali a se stessi: pigri, indifferenti, abietti, incapaci di cambiare rispetto a quello che già sono, spiritualmente morti. Siamo nei paraggi di Trainspotting (che però ha una struttura più salda) e non troppo lontani (e molto più psicologicamente impegnativi) e di E morì con un felafel in mano (che però è una commedia) – per dire che Hanselmann non è certamente l’unica a impiattarci la tragedia del vivere secondo una struttura non apertamente tragica, o meglio, lo fa proprio tramite il disfacimento della struttura: vignetta di situazione, scambi tra i personaggi, decisione di agito presa insieme, esito (tendenzialmente dannoso) dell’agito, finale (a volte un commento da parte di un personaggio) e una o due vignette di riconferma della situazione e del carattere dei personaggi. Non è certo l’unica a farlo, ma, quanto meno, lei lo sa fare molto bene.
A questo giro faccio poco il fumettologo, e vi parlo un po’ meno del segno, del colore, del montaggio e più degli aspetti narrativi – chiedo scudo. Aggiungo solo un paio di considerazioni sui dialoghi di Hanselmann. Senza fare nomi (per non risultare più antipatica di quello che già sono), dico solo che la loro verisimiglianza, naturalezza, onestà sono una vera consolazione (complimenti ai traduttori di Coconino per la resa in italiano), se li confrontiamo con l’artificiosa affettazione di popolarissimi fumettisti bolognesi o giù di lì che fanno storie su quando si sono lasciati con la ragazza (abituate i cazzo di liceali a leggere roba decente invece di questi qui).
Ma attenzione: rappresentare ≠ promuovere. La storia di disfacimento alla Hanselmann, per come la vedo io, non ha assolutamente intenzione di offrire i suoi personaggi a modello del giovane pubblico – ma neanche a modello negativo: vedo piuttosto la volontà di consolidare certe strutture della società (è qui il Bildungsroman) attraverso la comprensione del mostro in noi, il contatto con l’orrore degli altri, la vicinanza al loro schifo. Non a caso i protagonisti provengono dall’immaginario classico horror-halloween [la strega, il gatto, il gufo, il mostro della palude, etc.], evocando un mondo infantile che ce li rende quasi teneri.
Ah sì, Hanselmann ieri l’altro ha vinto qualcosa all’Eisner Award, ma queste questioni mi interessano relativamente.