Lo sai. Quella locuzione – «hic et nunc», «right here right now» – significa, molto semplicemente, “io”. Indica quel nodo di paure e perversioni, amore e morte, pulsioni e nevrosi, con cui abbiamo la presunzione di ostentare la nostra unicità. Quel groviglio inestricabile di sensazioni che ci si sviluppa tra le orecchie, dietro gli occhi, il naso e la bocca, sotto la pelle. Usiamo tutti la parola “io” e ognuno di noi si riferisce a qualcosa di diverso, qualcosa che reputa unico. Con quel suono semplice, appena un dittongo, indichiamo la cosa più preziosa che abbiamo, quella cui prestiamo una cura amorosa spasmodica e che, al tempo stesso, disprezziamo e cerchiamo di distruggere, un giorno dopo l’altro, con metodo.
Durante il mese appena concluso, ci ha lasciato Gino Strada. Lo ha fatto nello stesso giorno in cui, sulle pagine del quotidiano “La Stampa”, aveva pubblicato un articolo in cui sintetizzava, con precisione dolorosissima, i fallimenti delle società in cui viviamo. È settembre. Sono passati vent’anni dall’evento che ha dato la stura alla nostra sconfitta: «La guerra all’Afghanistan è stata – né più né meno – una guerra di aggressione iniziata, all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti, ai quali si sono accodati tutti i Paesi occidentali».
Proprio l’11 settembre di quest’anno, simbolicamente nell’occorrenza del ventennale, avrebbe dovuto concludersi il ritiro delle forze statunitensi da Kabul. Poi quella data – comunicata con un anticipo così largo da consentire la preparazione meticolosa dell’offensiva talebana – è stata anticipata al 31 agosto. Pare che Joe Biden, che continuiamo a considerare il male minore, abbia voluto in questo modo evitare la disfatta. Troppo tardi. Come sempre. Il dolore dei profughi si riversa nel mondo. E trecentomila persone, che non riescono o non vogliono lasciare Kabul, sono in pericolo di vita per aver creduto nella solidità commerciale del prodotto “democrazia”, importato nel loro paese da una multinazionale incapace di progetti a lungo termine.
Gino Strada rifiutava di essere chiamato pacifista. Non cercava la pace; gli faceva schifo la guerra. Davanti alla porta di tutti gli ospedali che ha costruito, faceva affiggere un cartello che diceva «Non si entra con armi». Mica un pensiero rotondo da trasformare in un aforisma buono per le bacheche di Facebook. Niente di filosofico o illuminante. Un’indicazione precisa che dovrebbe essere riportata, con chiarezza e senza ambiguità alcuna, sulla porta di ogni luogo destinato alla cura degli umani e non al loro macello: ospedali, cliniche, biblioteche, cinema, redazioni di giornali, sale giochi, ristoranti, enoteche, teatri, discoteche, stadi, osterie, … E puoi aggiungere all’elenco un qualsiasi altro posto che ti fa stare meglio.
Nelle stesse ore in cui i nostri canali di informazione e conoscenza si riempivano, al contempo, di necrologi sofferti e delle consuete oscene stronzate di sciacalli in pessima fede, Luca Bernardo, candidato sindaco di Milano per il quale portare un’arma in ospedale non è mai stato un problema, è riuscito a dire: «Io non distinguo le persone tra fascisti e antifascisti».
Proprio qui proprio ora.
Non esiste un piano di realtà in cui noi si riesca a riconoscere lo statuto di interlocutore a un individuo capace di fare schifo senza pudore.
QUASI, la rivista che non legge nessuno, è fatta da persone particolarmente affezionate alla propria individualità. Nessuna delle quali riesce con facilità a dichiarare un’appartenenza. A muovere adesione, piena o lasca che sia, a un partito, un club, una scuola, un circolo, un’associazione, … Non riusciamo a riconoscere la nostra piena affiliazione neanche ai luoghi che ci fanno stare quasi sempre bene. Perché c’è sempre un QUASI. Perché almeno una volta qualcosa non ci è piaciuta. Perché siamo umani. Perché c’è almeno un aforisma – uno di quelli che, associato all’immagine giusta, conquista l’immediata pubblicazione sulle bacheche di Facebook – che ci è rimasto addosso come pelle: «Non vorrei mai appartenere a un club che mi accettasse come membro» (Groucho Marx).
Eppure, pur non aderendo a nulla, dichiariamo, senza paura di essere smentiti, e senza aver fatto un giro di consultazioni interne prima, che tutte le persone che fanno QUASI fanno una netta distinzione tra fascisti e antifascisti e si qualificano sempre come antifascisti.
QUASI, la rivista che non legge nessuno, è tornata. Proprio qui proprio ora.