La vedo seduta con un paio di ragazzi.
Faccia concentrata, coda di cavallo, assorta in qualcosa che non comprende gli amici.
Giocano con un pallone tra i piedi che si passano sotto il tavolo di legno mentre parlano annoiati.
Uno dei due ragazzi a un certo punto liscia.
Il pallone rotola verso un altro tavolo, quello corposo e maggiormente coperto dalla tenda, quello che c’è da almeno quarant’anni, il novanta per cento della mia vita finora vissuta.
Attorno a quel tavolo, sopra, sotto, ci ho mangiato, mi ci sono seduta per asciugarmi dopo la doccia, ci ho giocato a carte con “il gruppo dell’estate”, ci ho bevuto il mio primo bicchiere di vino a una Gradisca – la festa che finiva con i fuochi d’artificio, quella nella quale i bagnini si mettevano d’accordo e facevano un’unica lunga tavolata di legno per oltre trenta bagni, grigliavano sardoncini e distribuivano boccali di trebbiano dalla botte –, ci ho raccolto una figurina, un asso di bastoni del piscialetto, un tovagliolo caduto, ci ho scattato una foto alla mamma e alla zia estremamente giovani e abbronzate, e alla nonna prima che morisse, con quel suo volto sempre così arcigno.
Scatta lei a riprendere il pallone – uno di media pesantezza, un cuoio sfruttabile in spiaggia, giallo evidenziatore sporco e rovinato.
È il suo, è evidente da come lo coccola tra i piedi, un tocco dal destro al sinistro a camminarci insieme fino al palleggio che lo riporta tra le mani, appoggiandolo su un fianco, la destra dondolante come alcune calciatrici nella foto di rito.
Un triangolo colorato, un verde acceso classicissimo per i costumi da ragazze, a coprire un seno appena accennato e un pantaloncino dell’Adidas blu con le tre strisce laterali bianche. Altrettanto, è un modello classico tra i ragazzini.
Sono io.
Quella ragazzina sono io.
Quarant’anni dopo.
Mi crogiolo in un sorriso impercettibile.
Quarant’anni fa io ero l’unica bambina che giocava a pallone lì, tra quei tavoli e quelle cabine, sulla riva e in mare.
Se oggi quella ragazzina è libera di essere se stessa, e di giocare a pallone senza che la cosa susciti troppo stupore, mi crogiolo nel pensiero che forse, oltre ai tempi che cambiano, questi tempi cambiano anche grazie alle lotte che alcune di noi hanno fatto.
Io ho provato a farlo coi miei fumetti, e, prima, nell’incoscienza della giovinezza e delle possibilità che pretendevo essere mie nonostante ci fossero divieti: volevo giocare a pallone e, semplicemente, seppur donna, l’ho fatto, facendo spallucce alle imposizioni sociali del bigottismo di quegli anni.
Ai pantaloncini da calcio in spiaggia però ci è dovuta arrivare la moda.
Anche se una foto di me sedicenne con i pantaloncini del Bayern Monaco – ahimè, persi – confermerebbe che non sempre sono stata alla moda, anticipandola a volte, mancandola clamorosamente altre.
Come quella delle biciclette.
Vecchi telai verniciati, manubrio alla mountain bike o con le corna d’ariete, ruote col profilo alto, gomme colorate e puntualmente senza parafango.
I ragazzini, almeno qui tra Rimini e Senigallia, ne impazziscono, se non le hanno e non le parcheggiano a scuola non sono nessuno. Perfino le ragazzine non ne sono esenti, in una parità che viaggia di pari passo in molteplici aspetti.
La moda dei pantaloncini da calcio in spiaggia va avanti da quasi un decennio, ma solo ultimamente ha catturato la mia attenzione, conquistandomi infine.
Una vetusta tipografia ereditata dal padre in un vicolo di Senigallia a fianco di Porta Mazzini. Angolo suggestivo, apparentemente disabitato, a fianco del teatro della città. Sembra uno di quei negozi di una volta che, inutilizzabili al commercio, vengono usati come garage dai proprietari. Una sola vetrina dall’unica porta vetrata che si apre con una vecchia maniglia col pulsante degli anni Sessanta. Se il proprietario non fosse così poco serio e professionale, ci passerei un sacco di tempo. Suppongo per altro che il suo lavoro lo sappia anche fare, è che ha quel modo da bar di fare affari che, nel 2021, si accetta di vedere solo in uno sceneggiato di Rai Uno con Pierfrancesco Favino che si trasforma nell’ennesimo sindacalista, politico in esilio in Tunisia, papa o statua di un museo americano, meno nella vita reale. Va da sé che è proprio in questo modo che le migliori idee e i migliori fumetti sono venuti fuori, ma questa è un’altra storia.
Una mattina, in modo abbastanza arrogante, si affaccia all’uscio un ragazzo che dalla fretta che sembra avere non ha nemmeno l’educazione di togliersi il casco o almeno gli occhiali da sole per non parlare della mascherina, accessorio per lui evidentemente superfluo, per altro interrompendo la nostra conversazione, non meno importante della sua. Sganascia qualcosa. Essendo entrambi due che lavorano come fossero al bar si dicono due parole completamente inutili mentre io aspetto con l’espressione che la mia faccia assume matematicamente ogni qual volta che c’è qualcosa che mi urta terribilmente. Come i modi di questo ragazzo col casco in questo momento.
Lo squadro. Indossa un paio di pantaloncini del Milan della stagione che presumo sia 2017/2018, neri con le tre strisce rosse dell’Adidas. Li riconosco abbastanza facilmente, un po’ perché in realtà le tre strisce rosse sul pantaloncino nero contrariamente a come si può pensare, lunghe così fino all’orlo senza giochi di cuciture, era dalla stagione 2009/2010 che l’Adidas non le riproponeva, e poi perché semplicemente l’ultimo modello prima di questo è nel mio armadio.
Per altro Adidas in quel lustro, andando contro Nike all’epoca contestata per il lavoro minorile dei palloni nei paesi poveri, come azienda tentava di sterzare e distinguersi nello studio avanguardistico dei tessuti traspiranti. La scritta “Clima Cool” che compare poco invasiva su un lato come una specie di adesivo dovrebbe sentenziare una comodità e una traspirazione d’eccellenza.
Alla prima volta che ci vado in acqua, torno a casa e sono ancora bagnati.
Il Sea Sun era nato dalle ceneri del baretto del molo di Rivabella, frazione di Rimini tra San Giuliano (e il suo borgo felliniano) e Viserba. Un chiosco dimenticato, fatiscente e ideale per i graffiti nascosti, con poca luce e tante possibilità di farsi male.
G. era uno di quei ragazzi in pari con gli esami all’università ma che considerava altre attività più o meno redditizie. Era un ragazzo carino, piacente, col ciuffo imbellettato anche dopo il bagno in mare, che inseguiva una perfezione estetica impossibile da raggiungere di cui era e ci rendeva consapevoli ma che rischiava sempre lo scivolone: un filo tirato del calzino, un bottone lento, un pezzettino di prezzemolo tra i denti, qualche segno visibile di forfora.
Mi si avvicinò un pomeriggio dicendomi che quando era arrivato lì con i suoi compari, nel risistemare e riverniciare il chiosco avevano trovato un ERON originale. Sapeva che disegnavo fumetti e per attaccare bottone si tuffò in un argomento come quello dell’arte altamente rischioso, soprattutto per chi, come lui, aveva scelto una vita da ufficio, a parte quelle parentesi estive. Non è un mistero per nessuno, siamo cresciuti, noi riminesi, andando in cerca dei graffiti di Davide prima che diventasse ERON (si firmava già così) e, nonostante esponga al MoMA con Banksy, continua ad andare in giro di notte a regalare il suo messaggio dell’originaria idea della street art, quella cioè di critica, di protesta, di anti qualunque cosa non rientri in un mondo uguale per tutti. Per cui ERON, negli anni di scorribande a rischio inseguimento della polizia e decisivi per il suo percorso di ricerca che lo ha portato allo stile di oggi, trovava questi luoghi – muri, sottopassi, colonne – bui e traballanti e ci disegnava sopra. La stragrande maggioranza sono stati cancellati o, nel caso dei pannelli, comunque persi oppure, come quelli lungo il molo di Rimini che lo decoravano, talmente usurati dalla salsedine da costringere il comune a coprirli. Oggi, gironzolando per il borgo felliniano, per esempio, sono persino illuminati, un’onorificenza ormai riconosciuta persino dal sindaco e dal premio dei premi riminesi, “Il Sigismondo d’oro”, alla cui premiazione ERON mandò sul palco uno dei neretti più conosciuti in città, che entrava nei negozi gentilmente e gentilmente se ne andava, sfidando il razzismo sottile – e la paura instillata da alcuni politici della cui rappresentanza in Europa un paese dovrebbe vergognarsi– che da sempre serpeggia.
In un istinto markettaro, alla seconda stagione lo staff del Sea Sun decise di fare i pantaloncini, distinguendosi dalle solite shopper e magliette. Presero uno stock di pantaloncini basici Nike, chiesero l’adesione e li stamparono con nome e numero.
Da allora, nel mio armadio ho un paio di pantaloncini Nike verde lucido, col mio numero di quando giocavo, l’8, e il nome Mabel sopra il ginocchio.
L’attenzione all’abbigliamento ecologico era, tredici anni fa, relegato alla carta riciclata dei quaderni e a poco altro; nell’abbigliamento vero e proprio, Patagonia a parte, era molto difficile trovare un cotone bio, per cui anche la grandissima Nike era un po’ in ritardo sull’argomento e il suo pantaloncino al 100% poliestere, entrando in acqua una mattina di inizio agosto, mezz’ora dopo, sulla spiaggia sotto il sole, era ancora bagnato.
A Chiavari, roccaforte sampdoriana, è paradossalmente l’orgoglio genoano a essere mostrato con maggior vigore.
Nei dettagli s’intende: il casco di un motorino, l’adesivo sopra il fanale, la cover dello smartphone, il portachiavi di casa, il telo mare steso sulla spiaggia sotto la nuova colonia Fara, il guardrail colorato di rosso e di blu, i pantaloncini da calcio d’estate.
Il modello del Genoa della stagione 2019/2020 a parte la variante verde e giallo del portiere comprendeva il classico blu navy con banda rossa e, nel modello away, bianco e rosso. Anche il Napoli aveva lo stesso concetto: a colori invertiti, lo stesso modello.
Il Brescia invece presentava la spaccatura laterale ma non la banda sostituita dalla coppia a gambe piegate tipica del logo ripetuta lungo tutto il fianco.
Lo sponsor tecnico Kappa sono almeno due decenni che studia una moda non solo tecnologica, ma anche eco, a rendere lo sforzo fisico elegante, sostenibile e, naturalmente, confortevole per l’atleta.
Orde di ragazzini che, nel pieno della pubertà, sfoggiano i pantaloncini del Genoa o anche solo quelli che tra di loro vanno di moda, principalmente svariati modelli Adidas.
È una delle ultime immagini che mi porto dentro di un’altra estate strana, un’estate sportivamente (incredibilmente) italiana, di tanto lavoro e di pillole vacanziere.
Sotto la nuova Colonia Fara, una mezza testa di capelli lisci castani inzuppati spunta dall’acqua. Gli occhi vispi e attenti verso tre ragazzini. Due sulla spiaggia che provano le punizioni e un altro, in mare, che si tuffa in pose plastiche stirando i muscoli che si stanno formando.
Il pallone tra le mani, il respiro affannoso in un sorriso tra il sapere di essere figo e ancora quel po’ di innocenza in un gioco che a quell’età dovrebbe solo divertire. Scuote la testa di lato e il ciuffo si stende e si appiccica sopra l’orecchio rilasciando goccioline saline. La mezza testa castana è in visibile giubilo. Lui lancia il pallone ai due astanti di quel momento raulboviano vanziniano, scivola nell’acqua e raggiunge la ragazzina stampandole un bacio in bocca.
Quando si alza in piedi in posa da portiere sbeffeggiando i due sulla spiaggia, i ruoli sono drammaticamente già decisi come nelle migliori sceneggiature: è lui che comanda, è lui che ha già la ragazza in uno sviluppo evidentemente più precoce rispetto agli amici che sembrano di un paio d’anni più piccoli ma forse hanno la stessa età ed è lui che detta le regole. Tanto che i due indossano lo stesso pantaloncino Adidas, un modello Squad 17 di colore bordò standard con le tre linee bianche e la linea intorno alla gamba a chiuderle perpendicolarmente.
Lui invece indossa un modello Errea, la scritta gialla semi laterale su un blu navy e le cuciture bianche che collimano nella piccola v letta al contrario che rendono arioso il pantaloncino a metà ginocchio.
Li osservo. Penso al tessuto di quei pantaloncini. Poliestere presumibilmente.
Conosco la sensazione del poliestere bagnato. Quando è tanto caldo è davvero fastidioso.
Io indosso il pantaloncino del Brescia, nel meraviglioso tessuto Kappa, un capolavoro di efficienza.
So già che si asciugherà perfettamente in una tempistica umana mentre vado a fare l’ultimo bagno della stagione.
Nel mio ultimo romanzo a fumetti, Il giorno più bello edito da Rizzoli Lizard, Vanessa sfoggia un paio di pantaloncini del Parma irridendo Fabio perché lui indossa un comune pantaloncino Adidas. Sono quelli della stagione 1993/1994 che posseggo anche io e francamente non ho memoria di dove e come li abbia acquistati, e sono di Umbro, marca britannica che in quella che una volta veniva chiamata First Division (ora la loro Serie B) e che divenne nel 1992 la oggi conosciutissima e ricchissima Premier League, era un caposaldo dell’abbigliamento sportivo inglese dell’epoca. Non a caso la vestiva anche l’Inghilterra nei Mondiali di Italia ‘90, quelli della famosa battuta di Gary Lineker che disse, all’ennesima sconfitta contro la prima Germania Ovest che, unita, partecipava a una competizione ufficiale: «Il calcio è un gioco semplice. 22 giocatori rincorrono un pallone e, alla fine, la Germania vince.»
Complice una cura del mio fisioterapista, sono gli ultimi della mia collezione da provare valutandone comodità, freschezza, asciugatura, bellezza estetica – che in questo caso è indiscutibile tra un misto di nostalgia e vintage vincente.
È ancora estate.
Rimini 1975, disegnatrice di fumetti, fumettara, illustratrice. Pubblica dal 1999. Qualche titolo: la fanzine “Hai mai notato la forma delle mele?”, le graphic novel Io e te su Naboo e Cinquecento milioni di stelle, il fumetto sociale Dalla parte giusta della storia, il reportage a fumetti scritto dalla giornalista Elena Basso Cile. Da Allende alla nuova Costituzione: quanto costa fare una rivoluzione?.