Attraverso rapidamente il centro commerciale, cercando di evitare che qualsiasi rappresentante della popolazione umana mi si avvicini troppo. Non mi è mai stato troppo facile interagire con il prossimo e sono naturalmente misantropo. Già normalmente cerco di stare lontano da chiunque, i decreti e le normative hanno solo assecondato la mia paranoia. Sono completamente pazzo. Normalmente pazzo. Proprio come te.
E siccome sono pazzo, prima di uscire, benché stia male in quel posto, mi infilo nella libreria. Proprio come avresti fatto tu.
È il punto vendita di una grande catena libraria nazionale. L’ultima volta che ci sono passato dedicava spazi importanti ai libri per bambini e ai fumetti. Decido di dare un’occhiata, nella speranza di trovare qualcosa che mi faccia stare meglio. Una piccola fitta di sconforto mi si sviluppa tra il naso e gli zigomi quando mi accorgo che entrambe le sezioni sono state ridimensionate in modo drastico. Gli albi illustrati hanno abbandonato l’isola centrale, nella quale mostravano il fulgore delle copertine, per arroccarsi di costa in una striminzita fila di mensole. I fumetti si sono spostati in uno spazio più angusto. Poi sollevo lo sguardo e mi accorgo che, alle spalle di quello spazio, si sviluppa una parete lunga una quindicina di metri dedicata ai manga.
È un periodo strano. I manga vendono così tanto da aver colonizzato le ridicole classifiche librarie e da aver modificato significativamente il prezzo medio di copertina dei libri in commercio. La trasformazione del mercato del libro ai tempi del coronavirus passa anche attraverso quel formato commerciale.
Non è la prima metamorfosi del fumetto in libreria: il terzo millennio si è aperto con l’invenzione del formato “graphic novel”. Sì, lo so, quella formula commerciale potrebbe risalire al 1986, quando sono usciti The Dark Knight Returns di Frank Millere la prima parte di Maus di art spiegelman, oppure a A Contract with God di Will Eisner (1978), Una ballata del mare salato di Hugo Pratt (1967), Jungle Book di Harvey Kurtzman (1959), Mon livre d’heures di Frans Masereel (1919), o ancora, risalendo la freccia del tempo senza paura dei paradossi, qualcuno potrebbe dirti dell’Arazzo di Bayeux o della Colonna Traiana. Ma, poche menate, il motore per l’imposizione del formato “graphic novel” in Italia è stato l’arrivo, nel 2000, della casa editrice Coconino diretta da Igort: sono le cose che durano più a lungo – e che producono più conseguenze – a segnare il tempo.
Uno dei generi tipici del formato è l’autobiografia. Sembra quasi che la volontà di costruire una lunga narrazione autoconclusiva, decisa a non svilupparsi intorno alle vicende di un eroe seriale, autorizzi a costruire fumetti spudorati intorno al racconto di sé, partendo dall’assunto che il racconto della propria vita meriti l’esborso di un pezzo della vita di chi legge.
Abbiamo, tutti, letto alcuni fumetti autobiografici straordinari ed emozionanti. Per farlo, abbiamo dovuto immergerci in una fossa biologica che un’editoria senza editori ha riempito di buoni sentimenti, ambiguità, opportunità, equivoci, noia e normalità placcata di stupore. È andata come è andata.
Lascio correre lo sguardo sulla parete di manga. La libreria è piena di ragazzi che si muovono con disinvoltura, spesso in coppia e in atteggiamenti amorosi, da un titolo all’altro. Cicalano e si riassumono le vicende narrate nelle serie. Cercano di ricordare a che punto sono arrivati. Consultano il cellulare per identificare il numero mancante. Sembrano interessati, vitali, pronti a stimoli laterali. Uscendo da un non-luogo, mi ricordo che ci sono forme di vita senziente sul pianeta.
Prima che qualcuno chiami la polizia e segnali lo strano tipo attempato che guarda con interesse i ragazzi, afferro i due volumi de La ragazza in riva al mare di Inio Asano e stacco il passo verso l’uscita. Ancora sognante, vengo intercettato da un libro bellissimo. Un’unica copia del sesto e conclusivo volume degli Sketchbook di Robert Crumb esige la mia attenzione più completa: in copertina una ginnasta formosa, muscolosa, «a forma di fagiolo» direbbe l’autore, si esibisce in una posa plastica, mentre un incomprensibile adesivo – che dichiara “adults only” – le copre le terga. Lo prendo, deciso ad affiancarlo agli altri cinque che lo aspettano allineati su una mensola di casa.
Nel 2012 e nel 2014, la casa editrice Taschen ha pubblicato due cofanetti, contenenti sei volumi ciascuno, curati da Dian Hanson, che sistematizzano gli sketchbook di Robert Crumb. Il costo di millequattrocento euro e la mia onesta povertà mi hanno tenuto alla larga da quei gioielli. Fortunatamente, a partire dal 2016, con cadenza quasi annuale, la benemerita casa editrice tedesca ha iniziato a pubblicare una versione abbordabile di quel lavoro eccezionale (una trentina di euro per ciascun volume contenente oltre quattrocento pagine di bellezza). Adesso sono tutti qui: sei libri, duemilacinquecento pagine, scelte dai taccuini su cui Robert Crumb ha disegnato tra giugno 1964 e marzo 2011.
Robert Crumb disegna moltissimo. Continuamente. Mostra nei confronti del disegno un rispetto quasi sacrale.
Il primo novembre 2014, dopo l’incontro con Crumb e Gilbert Shelton avvenuto a Lucca nell’auditorium San Romano, siamo nella sagrestia di quella chiesa sconsacrata, attendendo che il pubblico defluisca. Claudio Curcio, che ha reso possibile l’incontro, ha raccolto dal pubblico dediche e omaggi a Crumb: consegna al disegnatore un plico di foglietti autografi alto due o tre centimetri. La scena è indimenticabile: Robert Crumb ringrazia con un sorriso e prende il mazzo di fogli, tenendolo con rispetto con due mani, proprio come farebbe un giapponese con un biglietto da visita; poi inizia a passare in rassegna i disegni, riservando a ciascuno almeno una decina di secondi; li guarda tutti, estraniandosi dall’ambiente; è inespressivo, non mostra piacere, ma neanche disprezzo; quando ha finito, li raccoglie, allinea i bordi per ottimizzare l’occupazione ed evitare che si pieghino, e infila quei fogli, con cura, nel tascapane.
La sera siamo a cena, ospiti del Comicon. Ci sono Crumb, Aline Kominsky-Crumb, Shelton, Lora Fountain e Paolo Bacilieri. Mentre sorseggiamo il caffè, Paolo regala a Robert una copia di Sweet Salgari. Crumb ringrazia con un sorriso e prende il libro con due mani tenendolo davanti a sé, a lungo, con rispetto. Inizia a sfogliarlo e riserva un’attenzione speciale a ogni pagina. Fa domande precise. Si fa raccontare la vicenda. Chiede notizie delle architetture rappresentate. Si fa raccontare i luoghi, il fatto biografico. A un certo punto, si ferma e chiede in che anno siano ambientati i fatti e, quando ottiene risposta, indica la tastiera della fisarmonica e segnala un anacronismo, con precisione assoluta, ma anche con il grandissimo rispetto dovuto a un disegnatore.
Sono seduto sul divano con i sei volumi accanto. Li sto sfogliando, di nuovo, meticolosamente, imponendomi il dovuto rispetto nei confronti di ogni singolo disegno: non devo dedicare ad alcuna immagine meno di dieci secondi. A volte mi perdo. A volte le pagine a fumetti o le pagine fitte della grafia meravigliosa di Crumb cambiano il ritmo della mia lettura. Quando inizio, sono nel giugno del 1964: Robert ha ventun anni, poco più che un ragazzo; disegna come un Dio e lascia fluire le sue pulsioni e le sue innumerevoli nevrosi sulla pagina. Lo seguo. Pagina dopo pagina, il tempo passa e compaiono i volti, i ritratti, i personaggi tipici e iconici, i segni del tempo, le mode, gli stili, le lotte, le aspettative, le delusioni, il mondo che entra con il suo rumore in ogni immagine. Non mi molla mai. Mi colpisce con bellezza inattesa, una pagina dopo l’altra. E, mentre guardo, sono costretto a ricollegare tutto quello che so a quelle pagine. I fumetti di Crumb, la sua vicenda personale, i litigi, la frustrazione, la musica, il gatto da uccidere, le ossessioni, il rapporto con il femminile, i corpi, la rabbia repressa, i dischi dei primi vent’anni del secolo scorso, le amanti, il rapporto con Aline (e le sue emozioni, e i suoi dolori), gli amici, i litigi… Tutto. Una pagina dopo l’altra.
Robert Crumb arricchisce ogni secondo che dedico alla sua vita. Ogni suo disegno merita il mio più assoluto rispetto. I suoi sketchbook sono il più grande fumetto autobiografico che sia mai stato pubblicato.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).
2 risposte su “Robert Crumb Sketchbook: la vita, in presa diretta”
Patrizia
Non credo che potrò impossessarmi di questi volumi (grazie delle immagini che hai postato, dunque) – ma, e scusa la domanda irrilevante, cos’è la questione del “gatto da uccidere”?
Paolo Interdonato
Copio da un pezzo che ho pubblicato altrove:
“O, ancora, l’assassino di Fritz il gatto. All’inizio degli anni Settanta, Ralph Bakshi vuole fare un film sul personaggio. Non riuscendo a mettersi d’accordo con il fumettista, il produttore Steve Krantz ottiene i diritti di sfruttamento cinematografico da Dana, la moglie da cui Crumb si sta separando. Quando, nel 1972, esce il film di Bakshi, Crumb prova un senso di sconforto e umiliazione: vuole morire. Non avendo la vocazione al suicidio, nella storia Fritz the Cat “Superstar” uccide il gatto, per mano di Ann Struzzo, piantandogli un punteruolo da ghiaccio nella schiena. Il cinema è una macchina vorace. Indifferente ai dolori dell’autore, Krantz produce, nel 1974 e senza Bakshi, un nuovo, bruttissimo, film. Per dileggiare Crumb, la pellicola viene distribuita con il titolo Le nove vite di Fritz il gatto.”