(Le illustrazioni sono di Lucia Lamacchia, che è responsabile di quanto segue almeno quanto lo sono Ugo e Michel.)
Invecchiare significa anche non avere più bisogno della sveglia. A un certo punto, indifferente all’alba, al numero di ore dormite, alla stanchezza che ancora mi appesantisce il corpo, indifferente a tutto, ecco, sono sveglio. Posso fingere che il sonno mi stia ancora lambendo, ma so che non è così. Il sogno diventa sempre meno fumoso. Le idee si chiariscono. I pensieri diventano più lucidi. Aspetto. Non voglio ancora aprire gli occhi. Voglio conquistare la consapevolezza del mondo muovendomi nello spazio noto. Il mio odore, il sapore acre della bocca al mattino, la fragranza delle lenzuola, la consistenza del cuscino, le aree luminose che filtrano dagli scuri serrati e dalle palpebre abbassate.
Poi arriva l’odore di bosco. Terra bagnata. È un profumo dolce e agro che mi assale. Ha una nota ferrosa che mi si ferma in gola. Non riesco a distinguerla. Muovo le spalle e godo della sensazione del lino che si arriccia assecondando il mio movimento. Visualizzo il drappeggio e allargo le braccia.
Un corpo.
Accanto al mio. Non ricordo di essermi coricato con qualcuno. Nella vita mi è già successo di non riconoscere il mio compagno di letto. Una volta sono stato addirittura svegliato da singhiozzi e ho dovuto consolare uno sconosciuto. Non me ne vergogno. Ai rimpianti ho sempre preferito i rimorsi e, come dice un vecchio adagio argentino, nessuno potrà togliermi i balli che ho danzato. Mentre l’odore ferroso diventa più insistente nelle nari, allungo una mano di lato, quasi fosse un movimento casuale, fino a quando non tocco un corpo nudo. È caldo e morbido. Il contatto è il segnale che aspettava. Quel corpo, che ancora non oso guardare, si muove lentamente e mi si riversa di sopra, con la naturalezza di un’onda sulla spiaggia. Sento un seno pieno che mi si appoggia sul torace e una gamba sull’addome. L’odore diventa un puzzo. È sempre più acre. Apro gli occhi. È Michela, cazzo. Il respiro è profondo. Sembra stia dormendo. È nuda e mi strofina il pube sul fianco. E puzza, cazzo. Quanto puzza. Sudore, piscio, terra e… ruggine. Guardo la mano che mi tiene sul petto. È sporca. E lascia tracce sulla mia t-shirt bianca. Tracce rosse… Cazzo!
Quando Michel spalanca la porta della stanza, Ugo si è tirato a sedere sul letto e ancora grida. Michela, completamente nuda, si solleva lentamente. Ha la faccia di chi non capisce cosa stia succedendo. Ha il corpo infangato. Le lenzuola si sono tinte di rosso e marrone, soprattutto il corrispondenza dei piedi. Ha sangue rappreso sulla bocca e sulle mani, ma non sembra ferita.
«Se avete voglia, poi mi spiegate.», dice, «Adesso mentre fate una doccia, io butto ‘ste lenzuola a lavare… forse le incenerisco… e cambio l’aria in questa stanza.»
Michela non parla. Volge uno sguardo vacuo nella stanza. Ugo l’aiuta ad alzarsi e la accompagna in bagno, mentre Michel, facendo attenzione a dove appoggia i piedi, raggiunge la finestra e la spalanca. Poi libera un cuscino dalla federa che diventa un sacco in cui infila con cura le lenzuola e il coprimaterasso. A quel punto ramazza il pavimento con cura e passa uno straccio, rimuovendo le tracce fangose che lo conducono fino all’ingresso di casa. Mentre pensa a cosa racconterà al portiere quando si lamenterà per lo sporco, afferra la caffettiera e la smonta. Soffia nell’imbuto e si lascia cadere il fondo compatto nel palmo. Con precisione lava i pezzi della caffettiera con acqua e prosegue il rito della preparazione.
Prende le tazzine, i cucchiaini e la zuccheriera e li dispone sul tavolo. Poi si siede nell’attesa del borbottio della caffettiera. Ed è quello il momento in cui lo vede. E anche lui è sporco di fango.
Gli eventi più assurdi hanno la straordinaria prerogativa di trasformarsi in normalità in pochissimo tempo. Basta una lunga doccia calda, l’abbraccio di un accappatoio, il profumo dello shampoo e del detersivo per i pavimenti e tutto ritorna al suo posto. Adesso Michela e io siamo seduti al tavolo della cucina e facciamo colazione in silenzio. Caffè, succo di frutta e pane tostato con la marmellata di fichi. Ugo è in piedi davanti al lavandino. Ha in mano uno spazzolino e sta pulendo meticolosamente la statuina del pensatore misteriosamente ricomparsa in casa. Michela sembra più interessata alla marmellata che all’operazione di pulizia certosina. Sorride cospargendo abbondantemente delle fette di pane e ci spiega che la maggior parte dei romanzi di Ira Levin è introvabile in italiano; ce n’è addirittura uno, Son of Rosmery, che non è mai stato tradotto. Dice che dovremmo fare una casa editrice e rimediare.
Michel annuisce e spazzola.
Nessuno fa domande.
Non c’è fretta.