Lo spiega bene Francesco Nuti, detto il Toscano.
Sono anni nei quali per girare un film si doveva fare una ricerca importante di scenografie, spesso luoghi veri, appartamenti, scorci, strade e stradine.
L’appartamento di Nuti è disordinato e modesto per i canoni italiani dell’epoca, persino trasandato e fintamente artistico (nei film americani sarebbe stato un loft di Brooklyn motivo di innamoramento feroce e pellegrinaggio studentesco), nella struttura cabarettistica di attori teatrali prestati al cinema le pellicole erano un insieme di gag collegate insieme.
A un certo punto, Nuti e la protagonista femminile si ritrovano in quell’appartamento.
Nuti deve rispondere a una domanda della donna.
Lo ascolta Giuliana De Sio, un’attrice molto in voga al momento ma che per noi adolescenti era solo la Maestrina dalla penna rossa dello sceneggiato Cuore. Un personaggio che non poteva essere cattivo, anche se quel genere di film non era adatto a noi ragazzini. Erano i film che gli adulti degli anni Ottanta andavano a vedere al cinema, ci lasciavano dai nonni e ci salutavano sulla porta di casa vestiti bene e stranamente sorridenti e rilassati. Quei film che in realtà abbiamo poi visto lo stesso e che hanno formato il nostro spirito di nostalgia che va molto di moda oggi, un oggi nel quale avere nostalgia di Dragon Ball è stato sdoganato da Zerocalcare per cui non è più motivo di superficialità anche solo da parte di chi, per esempio i genitori, avevano nostalgia dei Beatles. Come potevamo, noi, osare di aver nostalgia delle Spice Girls quando era così ingombrante il loro ‘68, i loro Beatles, la loro Woodstock, il loro Porci con le ali, il loro «il PCI votato da 11 milioni di italiani nel 1976»?
Lo Scuro del titolo è un signore qualunque. Né più né meno di tanti uomini di quegli anni, dalla corporatura robusta, dal volto uguale a tantissimi altri da mischiarsi candidamente nella folla e faticare a ricordarlo, dalla pettinatura anonima, lontanissimo dai “cattivi” iconici che caratterizzavano gli eroi e antieroi del tempo, da Ivan Drago a Darth Vader.
Lo Scuro si chiamava Marcello Lotti e il suo soprannome nella vita reale era davvero lo Scuro ed era davvero un campione di biliardo nelle specialità Cinque birilli (Internazionale 5 quilles) e nella Nove birilli (la Goriziana).
Il film Io, Chiara e lo Scuro, successo cinematografico del 1983 di Francesco Nuti, la pellicola inizia proprio con una gara tra il Toscano e lo Scuro che il primo, nel silenzio rumorosissimo generale degli astanti, sorprendentemente vince.
È il prologo della storia e, verrebbe da dire, dei guai del Toscano. Che si sta preparando per il campionato italiano a Chianciano Terme.
L’Hotel Milano di Chianciano Terme si staglia lungo un vialone leggermente in salita (o in discesa, dipende da dove si viene) pieno di altri alberghi, negozi, bar e palazzi residenziali. Ci è passata anche una tappa della Tirreno – Adriatico, la gara ciclistica “dei due mari”. Ho riconosciuto subito il vialone dalla tv, ho riconosciuto subito un albergo che mi è rimasto nel cuore, perché entrarci è un tuffo nel passato.
Dal bancone di marmo nero pesantissimo incastonato in un muro decorato di capitelli e dettagli in oro alla sala delle colazioni e del ristorante, dall’ampia hall completa di un pianoforte bianco alle tre cabine del telefono munite di oblò nell’anta a spinta a fianco della maestosa scala, dal salottino coi divani in pelle scura elefantiaci per le dimensioni delle case di oggi al bar in totale stile anni ‘70 con gli amari perfettamente sistemati sulle mensole in vetro: tutto è un avvolto in una patina, per quanto pulitissima, polverosa. Sembra di entrare nelle case dei nonni, quelle nelle quali appena varcata la soglia è l’odore di minestra, la tv accesa sul primo canale («che fa comodo che poi inizia il tg», cit. di qualunque nonno), la cameretta con la coperta di lana e il crocifisso sopra la testa del letto a investire ogni senso e ogni anno di rughe sul volto.
Una volta forse l’ Hotel Milano era un albergo da diverse stelle, oggi pur mantenendo una struttura classica si è aperto a piani adibiti a conferenze o eventi. Uno di questi, al primo piano, è una sala sorprendente. Si apre su un biliardo, moquette rossa tutto intorno insieme a poltroncine foderate di color tortora da cinema e ad alzare lo sguardo tre piani e altrettante balaustre che si affacciano sopra il tavolo da gioco, fino al lucernario dipinto e di vetro prezioso, in una corte di fantasmi su una partita invisibile. Per cui quando ho guardato per l’ennesima volta il film di Nuti, il fatto che la finale del campionato si giocasse a Chianciano Terme non mi ha stupito più di tanto.
Lo spiega bene Francesco Nuti, il Toscano, quando dopo un paio di scambi, la valigetta con la stecca torna finalmente tra le sue mani. Spiega prima la differenza tra la stecca di legno e quella di alluminio, dell’anima di quella di legno che poi perdura per sempre se la si conquista, e poi con quella sua espressione del volto, gli occhi che si chiudono in una fessura e il sorriso scanzonato e accondiscendente dice:
«Fatti conto che questo è il biliardo, panno verde, palle, pallino e birilli. Pahh! Luce sopra.Tutto buio ‘ntorno. Il silenzio più totale. Quando tu te hai la stecca ‘n mano e mi metto sul biliardo e colpisco la palla si sente fare: ‘toc, la palla colpita; stumb, la prima sponda; stumb, la seconda; stumb, la terza; tac, l’altra palla colpita; frrrr, i birilli in terra’. Cioè ‘unnè un rumore: toc, stumb, stumb, stumb, tac, frrrr… è un suono, musica!»
Ė probabilmente il miglior monologo e la miglior dichiarazione d’amore nei confronti del biliardo di tutti i tempi.
Negli stessi anni in una Rimini scura, dalle strade bagnate e dagli angoli nei quali i ragazzi si bucavano, io ero una bambina felice.
Nella stessa strada della pizzeria dei genitori dei fratelli Stecca – pugili medagliati, Loris campione del mondo, Maurizio oro olimpico -, proprio lì di fronte sorgeva un palazzone costruito negli anni del boom economico e del nuovo piano regolatore che incentivava l’allargamento del centro storico. A fianco della pizzeria, il mini market di Sergio, proprietario di una Nissan Micra grigia il cui acquisto per me è sempre stato un mistero in anni nei quali il mondo era diviso in due e nel quale non esisteva il libero mercato per cui le auto giapponesi fino al 1992 erano tabù in Italia. La sua drogheria faceva angolo con una stradina che poco più in là, in un sottoscala, ospitava la sede dell’MSI di Rimini.
Sotto quel palazzone di fronte, un bar, il Bar Roma occupava due delle sei vetrine che davano su quel lato.
La scritta scimmiottava le lettere romane, il dentro era un classico arredamento da anni Settanta, poi rimodernato negli Ottanta ma l’effetto, anche nei ricordi, è sempre retrò, da casa di Renato Pozzetto nel film La patata bollente dopo il passaggio di Massimo Ranieri.
A fianco del bancone la porta che dava sul retro, non solo per la toilette ma anche per le sale biliardo. Lì, due biliardi e otto luminarie classiche, dal cappuccio verde a illuminare il feltro e a sferzare la nebbia bassa delle sigarette abbandonate nei posacenere.
Naturalmente, fu il nonno a iniziarmi al biliardo.
Un paio di colpi, con una stecca che era molto, molto più lunga di me, il suo aiuto prezioso e le sue mani delicate sulle mie piccole, un paio di colpi alla biglia bianca, un contentino ma per me ancora oggi un ricordo caldo, un cenno al barista per la mia cocacola, gli immancabili vizi dei nonni.
Le ricordo ancora quelle partite. Io seduta su uno sgabello, la schiena appoggiata alle pareti ricoperte di assi di legno, il gessetto blu col quale avrei voluto disegnare su quelle lavagne intonse, le loro sigarette e le loro risate mentre spostavano il pallottoliere dei punti quadrati come quelli del biliardino targato Fernet Branca.
Il babbo rideva sempre quando davano Fantozzi in televisione.
Anche adesso, seppur separati, guardiamo insieme dei film.
Uno è Fantozzi. I vari film, si capisce.
Farebbe a gara, io credo, oggi chi cerca lavoro ad avere una situazione come quella del ragioniere: un lavoro sicuro, fuori alle 17, sabato, domenica e ogni festa comandata a casa, eppure all’epoca Fantozzi e tutto ciò che rappresentava era un’idea e un’immagine da perdente, da ultimo, da sfigato. Sono questo genere di film quelli che subisco di più. Perché vedo come e quanto è cambiata la società e le sue caratteristiche, oltre agli arredamenti alla Hotel Milano.
Ma soprattutto ci sono le passioni degli italiani, quegli sport che ci hanno reso italiani folcloristici quando si tratta di sport: dal calcio, la famosissima partita tra scapoli e ammogliati che è diventato gergo universale, al tennis dell’elegante visiera verde con la scritta Casinò Municipale di Saint Vincent e del «Allora Ragioniere che fa, batti?» «Ma, mi da del tu?» «No no, dicevo batti lei?» «Ah, congiuntivo!», dal ciclismo e l’altrettanta famosissima Coppa Cobram al, appunto, il biliardo voluto dall’Onorevole Cavaliere Conte Catellani e il suo «coglionazzo».
In pochi si premurano di conoscere le etimologie delle parole o anche solo la provenienza delle stesse. Spesso alcune sono così entrate nel lessico comune che non le si collega nemmeno alla loro origine. «Calma e gesso» per esempio, «giocare di sponda» per superare un ostacolo, «fare filotto», «prendere una stecca», «mandare in buca» sono tutte espressioni mutuate dall’arte del biliardo, persino la più sorprendente, quel «primo acchito» che significa «al primo colpo» espressione usata ovunque e dappertutto deriva dalla posizione della biglia all’inizio del gioco del biliardo.
Lontano nel tempo, lontano dal film di Nuti, dal Bar Roma, da Fantozzi e Catellani, ancora più lontano da quelle sere di sigarette alla finestra nella notte blu e silenziosa, i campionati di biliardo nella specialità Snooker sono esclusiva di Eurosport.
I giocatori di biliardo non sono molto cambiati dai tempi dello Scuro, certo, nell’estetica sicuramente, nelle stravaganze altrettanto, nello spirito no, sono sempre appassionati. Per loro il toc, stumb, stumb, tac, frrrr è sempre e ancora musica.
Le specialità sono diverse, mescolanze per altro di molte culture come quella americana che negli anni, dal Piano Marshall in poi, ha evidentemente usato un soft power in ogni aspetto della nostra vita, persino nel mito della 8 ultima biglia. E a noi giovani, che quel soft power lo subivamo e lo incameravamo senza rendercene conto, le gestualità del biliardo ci piacevano da matti.
Le tipologie e le varianti del gioco del biliardo sono numerose, variano sia in base al tipo di tavolo sul quale si gioca, se senza buche o con le buche, anch’esse poi si suddividono in buche strette o larghe, dalla dimensione del tavolo, dal numero di biglie che entrano a far parte del gioco, dalla presenze o meno dei birilli, ed anche dal modo in cui le biglie vengono giocate, se con la stecca oppure lanciate con le mani. Per esempio, tra le discipline del tavolo con le buche esistono “La palla 8 in stile americano” (quella della 8 come ultima e con regole variabili sulla decisione di quale buca e quando deciderlo), lo “Straight Pool” (reso famoso dai film Lo spaccone e Il colore dei soldi con Paul Newman), lo “Snooker” (che sta prendendo molto, molto piede, il tavolo ha sei buche e Snooker non è solo un nome divertente ma anche: quando si snokera un avversario si crea una situazione disagevole per lui che non può colpire la palla in una linea semplice e diritta, costringendolo a un tiro difficile e di non sicuro successo), il “Biliardo inglese” (quello con le tre biglie, una bianca, una rossa e una gialla).
Ventitré anni fa ho scritto un romanzo. Si intitola Assolutamente perfetto e dal cassetto è passato a essere un file Open Service. C’è una scena, tanto nel mio stile anche nella scrittura, in un luogo perduto, che non esiste più ma che gode della mia testimonianza. Era un circolo ARCI, un capannone in una zona periferica della città e oggi gentrificata, rimesso più o meno a nuovo arredato con tavolini e sedie diversi, un banco del bar lungo con la vetrinetta, una libreria, un panno bianco per le proiezioni d’essai, il biliardino e il biliardo in un ampio angolo. Era un luogo molto anni Novanta da centro sociale, ma erano anche questo gli anni Novanta, un decennio di discoteche, benessere, cuori infranti e colori fosforescenti. Nel romanzo racconto la storia di Martina. Un giorno incontra di nuovo Sara, sorella di un’amica, che non riconosce perché nei suoi ricordi era rimasta una ragazzetta di qualche anno più piccola con la quale ogni tanto giocava. In una scena, un sabato sera di quelli spensierati di ritorno dalla settimana universitaria, spensierati e potenzialmente indimenticabili, Martina e i suoi amici si accingono a giocare a biliardo. Si unisce Sara. E come si suol dire, il resto è storia, non foss’altro perché nel primo numero di Hai mai notato la forma delle mele? le protagoniste del racconto Se è sì, è la tua risposta definitiva? sono proprio loro, Martina e Sara. E il biliardo.
Rimini 1975, disegnatrice di fumetti, fumettara, illustratrice. Pubblica dal 1999. Qualche titolo: la fanzine “Hai mai notato la forma delle mele?”, le graphic novel Io e te su Naboo e Cinquecento milioni di stelle, il fumetto sociale Dalla parte giusta della storia, il reportage a fumetti scritto dalla giornalista Elena Basso Cile. Da Allende alla nuova Costituzione: quanto costa fare una rivoluzione?.
Una risposta su “Lo Scuro, la 8 nell’angolo, il gessetto azzurro”
R Good
Mi hai fatto venire una gran voglia di suonare quella musica
toc, stumb, stumb, stumb, tac, frrrr…
5 birilli e il resto silenzio
saluti e grazie