Giù il cappello: Sanpei Shirato (15 febbraio 1932 – 8 ottobre 2021)

Paolo Interdonato | Pantomime del Calisota |

La notizia è arrivata ieri e fa malissimo.
Aprendo la pagina di “Fumettologica” per sapere quali fumetti usciranno in occasione di “Lucca Comics & Games”, mi accorgo di uno strillo posto sulla colonna di destra che, senza troppa enfasi, dà notizia della morte di Sanpei Shirato. Il sito di informazione dice dell’autore che è «noto in particolare per manga come Sasuke e Kamui, sui quali sono state basate anche popolari serie animate» e, dannazione!, ha ragione. In Italia – ma più in generale in occidente – non si può dire molto di più di questo gigante.
A meno che non stia prendendo un clamoroso abbaglio, abbiamo visto quattro volumi di Kagemaru den e uno di Akame: The red eyes tutti editi da Hazard. Il suo fumetto che più mi emoziona, Kamui den, è uscito parzialmente a puntate, nella prima metà degli anni Novanta del secolo scorso, su “Mangazine” di Granata Press. Se vuoi leggerlo tutto e non leggi il giapponese, ti tocca affidarti alla bella edizione francese in 4 volumi monumentali edita da Kana. In un momento in cui i manga vendono così tanto da consentire il recupero di classici e anticaglia, l’assenza di un’edizione italiana di Kamui den grida vendetta.
Shirato per me è un mito. Aveva 89 anni e ha fatto una rivoluzione che si chiama “Garo”. L’ho raccontata in un paio di occasioni. Recupero quegli articoli, li ricucio insieme e te li propongo come se fossero stati scritti per l’occasione. Se hai già letto altrove quanto segue, perdonami. Mi pareva doveroso omaggiare un gigante.

Il primo numero della rivista “Garo” esce nel luglio del 1964.
Come sai, la storia non si concede casualità. Quell’evento non è buttato nella freccia del tempo da un dio burlone in vena di scherzi. Pochi mesi dopo l’uscita del primo numero della rivista, in ottobre, a Tokyo ci saranno i giochi olimpici. Per favorire il commercio e il turismo, il Giappone liberalizzerà finalmente l’ingresso degli stranieri nel paese. Pochi giorni prima dell’inaugurazione delle Olimpiadi, inizierà a sfrecciare lo shinkansen, lo straordinario treno ad alta velocità.
“Garo” esce negli anni del miracolo economico giapponese, quando, grazie all’insorgere del benessere, le famiglie possono permettersi «i tre tesori divini»: la lavatrice, il frigo e la televisione. Sono gli anni dell’opposizione al manga per ragazzini da parte di Yoshihiro Tatsumi e di tutti gli autori che, dal 1957, definiscono i loro fumetti Gekiga. Sono anche anni duri e difficili, durante i quali è necessario prendere posizione.

Katsuichi Nagai è un editor di manga molto bravo. Sta lavorando con gente del calibro di Sanpei Shirato e Shigeru Mizuki, quando la tubercolosi da cui è affetto peggiora terribilmente. Il medico cui si rivolge non gli dà molte speranze: gli restano pochi mesi di vita. Di fronte a una scoperta che avrebbe paralizzato chiunque, Nagai decide di dedicare i suoi ultimi mesi a un’impresa folle. Una rivista di fumetti rivoluzionaria, mossa da un profondo senso etico. Una volontà di raccontare la società e di vivere nel presente. E di farlo costruendo fumetti. Perché quello è un modo potente per riuscire a raccontare l’oggi, senza perdere la tenerezza. Si licenzia dalla casa editrice per cui lavora e con la liquidazione fonda “Garo”: il primo autore pubblicato è proprio Sanpei Shirato, figlio di comunisti e con una visione molto chiara della lotta di classe. Sulle pagine della rivista, fin dalla copertina del primo numero compare Kamui Den, serie dedicata al ninja Kamui con cui Shirato vuole raccontare l’opprimente sistema feudale giapponese del XVI secolo: il popolo sfruttato è una metafora delle masse contemporanee giapponesi entro la società industriale avanzata. Il fumetto ha una carica di rivalsa sociale e di lotta di classe così forte che, quando gli studenti giapponesi occupano le università alla fine degli anni Sessanta, il ninja Kamui è una presenza costante sugli striscioni delle proteste. Le avventure di Kamui, sulle pagine di “Garo”, continuano senza sosta fino al 1971.
Le previsioni del medico di Katsuhiro Nagai erano quantomeno avventate. Il fondatore di “Garo” – che avrebbe potuto dire, senza timore, « Spiacente di deludervi, ma la notizia della mia morte è grossolanamente esagerata» – dirigerà la rivista fino alla morte, che avverrà nel 1996, trentadue anni dopo.

“Garo” arriva in un paese che, dopo aver perso la guerra, ha subito l’occupazione statunitense. Gli americani hanno sovrapposto la loro cultura a quella millenaria nipponica. Ignorandone i fondamenti filosofici, etici e culturali, hanno imposto una costituzione a immagine e somiglianza della loro. Hanno anche rimosso dall’immaginario visivo tutte le istanze nazionaliste e ciò che reputavano osceno.
Una censura, forzata dall’esterno e non dalla maturazione di regole sociali endogene, che ha prodotto la rimozione di tutti gli elementi visuali che sentissero di sesso e violenza. Una censura che non è mai riuscita a diventare, assecondando la definizione di Learned Hand, «il punto di equilibrio tra candore e pudore». Una censura che, al suo meglio, è riuscita a essere una lista delle cose da non mostrare: una checklist applicata puntigliosamente per non incorrere in ritorsioni legali.
Dopo la guerra, un po’ alla volta, il Giappone ha ricostruito un sistema di valori nazionali: la propria politica corrotta e schifosetta, un’industria aggressiva, un mercato del lavoro alienante, una mafia locale feroce, un sistema educativo omogeneizzante, una distinzione in classi sottile e sotterranea… E sotto questi elementi di superficie, immediatamente riconoscibili perché indistinguibili da quelli di una qualsiasi grande democrazia occidentale, ha costruito un sistema di valori narrativi irresistibili.

Kamui Den è la storia di tre ragazzi appartenenti a tre classi distinte. È ambientato durante l’interminabile feudalesimo nipponico e presenta una ricostruzione storica e ambientale ineccepibile. È raccontato da un dio del fumetto come Sanpei Shirato che è capace di usare codici nuovi, lontanissimi dall’imperante modello omoshiroi del grande Osamu Tezuka, per affrontare una storia del passato del proprio paese da leggere come una metafora dell’oggi.

Pagine bellissime, successivamente copiate – più o meno consapevolmente – da decine di fumettisti che amo, nate per essere serializzate su una rivista politica, “Garo”.

Sul decimo numero di “Garo”, nel maggio del 1965, appare un editoriale firmato da Shirato. S’intitola “Cosa vogliamo dai nuovi disegnatori” e fa più o meno così:

«Fino a oggi, ho sconsigliato a tutti il mestiere di fumettista, perché, se le cose si fossero messe male, cambiare professione sarebbe stato difficilissimo. Ma oggi la crisi economica ha condotto le aziende piccole e medie al fallimento, facendo crescere l’inflazione e aumentando il divario tra ricchi e poveri. Oggi è obbligatorio che il manga denunci questa situazione e, per fare questo, una nuova generazione di fumettisti deve sostituirsi alla vecchia. Stare chiusi nella propria stanzetta a disegnare caricature non è più sufficiente. Fare l’assistente di un autore celebre non basta più. Bisogna costruire dei racconti pertinenti, densi di significato, senza cercare di ammaestrare e pervertire il proprio stile. Bisogna sperimentare, per trovare se stessi e stimolare gli altri. È da queste sperimentazioni e da questi stimoli che nasce il progresso. E siccome queste sperimentazioni sono assenti negli altri giornali, noi le accoglieremo in “Garo”.»

Nello stesso numero di “Garo”, compare un fumetto di due pagine di Shigeru Mizuki (firmato, stranamente, con il vero nome dell’autore, Shigeru Mura), che chiarisce meglio il concetto. Si tratta di un adattamento della favola che Esopo dedica alle vicende della cicala e della formica. Mentre la formica raccoglie briciole di “gioia” e “gioventù”, la cicala resta chiusa in casa, avvinghiata a una briciola di “dolore”.
La formica le chiede: «E tu chi sei?»
La cicala risponde: «Un disegnatore.»
«E quella è la sola cosa di cui ti importi?»
«No, ma è tutto quello che mi resta.»

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