Morte di Gilles

Boris Battaglia | Pantomime del Calisota |

«Io gli volevo bene.»

Enzo Ferrari

Comunque sia andata, quali siano state le cause, quali i torti e quali le ragioni, quello che conta è che quando, nel luglio del 1977, Niki Lauda lascia la Ferrari sbattendo la porta, mancano ancora due gare alla fine della stagione. A Lauda non importa, perché ha matematicamente vinto il titolo, ma la scuderia ha comunque la necessità di correrle, così Enzo Ferrari mette sotto contratto un giovane canadese esordiente che si è fatto notare per la sua guida aggressiva durante il Gran Premio di Gran Bretagna. Conducendo una obsoleta McLaren M23 Gilles Villeneuve aveva realizzato il miglior tempo durante le qualificazioni del mattino, e aveva impressionato il grande vecchio, convincendolo in modo quasi immediato (probabilmente più in spregio al “traditore” Lauda che altro; come a dirgli: per quel che vali, ti sostituiamo con l’ultimo arrivato!) a dargli il posto del pilota che se n’era appena andato.

L’esordio di Gilles con la Ferrari non è esaltante. Durante il Gran Premio del Canada deve ritirarsi, mentre durante quello del Giappone, al sesto giro, per la sua guida spericolata, entra in collisione con la Tyrrell di Ronnie Peterson nel tentativo di superarla. La monoposto di Gilles si staccò dal suolo prendendo quasi il volo e finendo al di là del guardrail. La zona era interdetta al pubblico, ma il divieto non era stato rispettato e la Ferrari falciò i presenti, causando due morti.

Sono cose che si possono dire sempre a posteriori, ma in questo inizio c’era già scritto l’epilogo che avverrà solo cinque anni dopo. Non senza una dose di ironico cinismo Villeneuve venne subito ribattezzato “l’aviatore”, e gli vennero mosse durissime critiche per il suo modo di guidare. Nonostante questo Enzo Ferrari lo riconfermò in scuderia per l’anno successivo.
Il 1978 non si aprì nel migliore dei modi, con una bella serie di ritiri e un tamponamento, durante un tentativo di sorpasso, con la Shadow di Clay Ragazzoni, che quasi costò al pilota svizzero la decapitazione.

Non ti annoierò con la cronaca della carriera di Villeneuve da qui alla sua morte. Trovi tutto su Wikipedia o, se hai voglia di cercarla per bancarelle o su eBay, che nessuno dopo Nada Edizioni l’ha più riproposta in italiano dal 1990, nella bella biografia che gli ha dedicato uno dei migliori storici dell’automobilismo, Gerald Donaldson: Gilles Villeneuve, vita di un pilota leggendario, (evita invece come il Covid, quella scritta da Scanzi). Saltiamo quindi direttamente al 1982, anno che già in molte altre occasioni ti ho detto essere stato un momento discriminante. E non solo perché il prossimo faranno quarant’anni che quell’anno lì vincemmo il nostro terzo mondiale…

…aspetta: sento già qualcuno menarmela con quegli insopportabili distinguo: ma come? Un anarchico, che a parole detesta ogni idea di nazionalismo, e poi invece cade in quello peggiore, quello calcistico. No, fotte niente a me della cittadinanza, dei confini e delle radici nazionali (solo i vegetali hanno radici), ma l’11 luglio del 1982, avevo 14 anni, ero bello, forte, pieno di speranze (tutte deluse, ma allora non lo sapevo e non mi importava… quante cazzo di scuse devo a quel ragazzetto!) e felice – fino ad allora per me era stato un anno di meraviglie e scoperte –, e quella sera lì, che ci fiondammo nudi tutti (e intendo proprio tutti, fu un momento interclassista e intergenere, senza altra implicazione che non fosse la felicità, come mai ne ricordo nella mia vita) a nuotare nella Baia del Silenzio, per festeggiare, beh, quello che mi è restato appiccicato addosso in questi successivi, e sempre più faticosi 40 anni, è solo quel meraviglioso festeggiare. Quello che mi è restato addosso di quella sera è uno dei dieci motivi per cui, probabilmente, sono ancora vivo: festeggiare insieme. Per cosa cazzo fosse il festeggiare, mi è tornato in mente giusto oggi, mentre ti racconto di una delle più incredibili scoperte che quell’anno lì fece il mio sguardo. Quindi, anche te ne pungesse vaghezza, sulla questione nazionalistico/calcistica, non mi rompere il cazzo.
Riprendo il discorso.

…il 1982 è l’anno in cui (te l’ho raccontato in un’altra pantomima) imparo a gestire le mie pulsioni erotiche grazie al corpo di Heather Parisi, che vola con incredibili divaricate sulle note di Cicale, una canzone da niente; e alla scoperta, grazie all’uscita di Heavy Metal, di Richard Corben e delle anatomie delle sue eroine. Non è che non sapessi cosa fosse il sesso, intendiamoci. Non avevo ancora fatto il militare a Cuneo (in realtà non avrei mai fatto il militare, ma anche questo te l’ho già raccontato in una bagatella), ma andavo in terza media in via Zuara ed ero un ragazzetto di mondo. Per andare e tornare da scuola attraversavo il parco di piazza Tripoli, dove conoscevo tutti i tossici e tutte le prostitute, sapevo le cose della vita, anche se non ne avevo ancora sperimentato gli effetti sulla mia, di vita. Quindi insomma, quel cazzo di 1982 è un anno importante, nell’inverno, quindi… boh, gennaio, forse febbraio, guardando la tele, cos’era “Fantastico”?, sperimento gli effetti del potere erotico delle immagini.
Ho appena fatto questa scoperta, mi faccio le seghe guardando le foto di Heather Parisi, e… boom! Me ne arriva un’altra, di scoperta e mi mette dannatamente in crisi.

L’8 maggio 1982 è un sabato. Torno a casa, dopo la scuola (si andava a scuola anche al sabato allora, sì, sia alle elementari che alle medie), per pranzare in fretta e poi trovarmi, come sempre, al parco di via Strozzi con gli amici. Il fatto accade alle 13:52, ma le notizie non viaggiavano così in fretta, quindi al TG1 delle 13:30, quello che guardavamo durante il pranzo, non dicono nulla. È nel telegiornale della sera, quello che accompagnava la nostra cena, che mi arriva addosso quell’immagine.
Durante le qualificazioni del Gran Premio del Belgio, la monoposto di Gilles ha urtato, mentre tentava un sorpasso, la ruota posteriore della March di Joachen Mass. Improvvisamente la Ferrari si impenna, decolla e si capovolge. Durante la carambola Gilles viene proiettato fuori dall’abitacolo, vola per 200 metri e si schianta contro un paletto della rete di protezione per il pubblico.
La foto è riproposta più volte durante il servizio. E, per quanto confusa, l’unica cosa che mi viene da pensare è che sia bellissima.

Il giorno dopo, sempre a ora di cena, sapremo che Villeneuve è morto. E allora devo fare i conti con il fatto di avere trovato bellissima, come trovavo bellissime quelle di Heather Parisi che saltava con le sue gambe senza fine, l’istantanea di un corpo che volava. E che quel volo si sarebbe concluso invece che tra le braccia di qualcuno, come capitava a Heather, con un colpo che gli avrebbe spezzato le vertebre. In quell’immagine era rappresentata la morte di Gilles. Ma era una rappresentazione solo in funzione del suo continuo venire riproposta. Quella morte era accaduta davvero e che diritto avevo io di sgranare in continuazione il mio sguardo irriverente di ragazzino su un momento così unico e irripetibile come la morte di qualcuno che, in fondo, non conoscevo?
Allora non sapevo nemmeno chi fosse André Bazin. Lo avrei scoperto e letto più di dieci anni dopo, ma che in quella mia esperienza estetica – in quella di tutte le persone che come me avevano guardato quell’attimo nella sua rappresentazione senza averlo visto nel suo istante fattuale – ci fosse un problema non tanto morale, quanto ontologico, in qualche modo confuso lo capivo.
Sulla foto di quella morte, su quell’immagine tanto bella quanto dolorosa, entrata nella mia vita con una violenza irresponsabile (nessuna immagine è portatrice di responsabilità, responsabile ne è chi ne fa uso e nessuno tanto allora quanto adesso, nelle redazioni dei TG e dei quotidiani, aveva e ha consapevolezza di quella responsabilità), il mio sguardo ha subito uno strappo. Quello che sono oggi, lo sguardo critico che so portare alle cose del mondo – adesso ne ho la consapevolezza – è il frutto del continuo (e per fortuna inutile, va da sé) tentativo di ricucire quello strappo.

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