«L’ho steso, cazzo! L’ho steso!»
Chuck corre all’angolo esultando rivolto al suo allenatore, mentre l’arbitro conta.
«Si, bravo. Però adesso mi sa che si è incazzato di brutto», gli risponde l’allenatore indicandogli, dietro le sue spalle, Alì che si è appena rialzato e si sta avvicinando deciso e furente.
È stato un bel destro quello con cui Chuck Wepner ha raggiunto al petto Muhammad Alì alla nona ripresa. Alì racconterà che a farlo cadere fu il fatto che Wepner mentre lo colpiva gli aveva pestato accidentalmente il piede sbilanciandolo. È vero. Si vede nelle riprese di quell’incontro del 24 marzo 1975 al Richfield Coliseum di Cleveland, Ohio, disputato per il titolo mondiale WBA dei pesi massimi. Ma questo non cancella il fatto che Wepner è stato uno dei tre che, soli, sono riusciti a mandare al tappeto Ali.
Don King non è stato di certo uno stinco di santo. Mike Tyson, che lo ebbe come manager, lo ha definito «un miserabile, viscido, velenoso figlio di puttana». Però, a suo modo, è stato un genio. Alle idee balzane che gli popolavano la testa sotto quella assurda capigliatura per la quale consumava ettolitri di lacca, dobbiamo alcuni degli incontri più incredibili degli anni Settanta. Rumble in the Jungle, lo storico e indimenticabile incontro Alì vs Foreman a Kinshasa nel 1974; oppure nell’ottobre del 1975 lo spettacolare Trilla in Manila, in cui Alì incontro Frazier.
Anche quell’incontro lì di Cleveland, tra Alì e Wepner, è un’idea sua. Gli era venuta leggendo un numero di “Boxing Illustrated” in cui era riportata la classifica dei più forti pesi massimi di quegli anni. L’elenco era questo, in ordine gerarchico: Alì, Foreman, Frazier…al quarto posto un bianco Chuck Wepner. Se lo meritasse o meno, il quarto posto, era questione che, anche se molte erano le opinioni contrarie, a Don King non importava proprio niente. Lui se lo ricordava quel gigante bianco (95 kili per 195 cm) in un incontro notevole, era il giugno del 1970, contro Sonny Liston. Era partito anche bene il viso pallido, e nella prima ripresa aveva fatto piegare le ginocchia a Liston con un diretto potentissimo. Poi al terzo round un colpo di Liston gli aveva aperto l’arcata sopraccigliare destra. Wepner aveva cominciato a buttare sangue come una fontana, ma mica si era arreso. Al quarto round Liston lo aveva mandato giù, ma Wepner si era rialzato e nonostante il sangue sulla faccia era riuscito a stendere Liston a sua volta.
Sì, un grande incontro, si ricorda Don King, peccato che il medico di gara l’abbia sospeso alla nona ripresa per le troppe ferite in faccia di Wepner al quale fu decretato il KO tecnico.
Nonostante la vittoria avesse rilanciato la carriera di Liston, quello fu il suo ultimo incontro. Il 30 dicembre di quello stesso anno il Grande Orso Cattivo (così nel 1964 un Alì allora ancora Cassius Clay e abbastanza terrorizzato di sfidarlo, aveva soprannominato Liston) muore in circostanze mai chiarite in una stanza d’albergo di Las Vegas.
Raccontano che Wepner riportò 75 punti di sutura e il naso rotto. Certo è che dopo quell’incontro per Wepner ci fu, invece, una bella serie di vittorie: nessun incontro memorabile certo, ma un percorso imbattuto contro pugili di minore valore che lo portò ad essere il quarto peso massimo nella classifica che Don stava leggendo. E mentre la leggeva, si diceva: ci porto un sacco di gente a vedere un incontro in cui un pugile bianco sfida il detentore del titolo mondiale.
Infatti era dal 20 giugno 1960, da quando Floyd Patterson lo aveva ripreso allo svedese Ingemar Johansson, che il titolo non lo aveva più vinto un bianco.
Sai quanta gente ci porto a pagare per vedere un incontro tra il detentore e Wepner se c’è anche una remota possibilità che Wepner lo vinca.
E fu proprio così.
Non solo il Richfield Coliseum fu riempito fino a scoppiare (e il biglietto costava 12 dollari, una cifra rilevante per i tempi), ma l’incontro venne trasmesso a circuito chiuso nei cinema di tantissime città in tutta l’America.
In un cinema scassato del Greenwich Village, quel giorno ci è finito un giovane attore disilluso e squattrinato, indeciso se abbandonare o meno i propri sogni di gloria cinematografica. Il cinema finora gli ha riservato solo parti deludenti, forse sarebbe meglio smettere. Tutto quello che ha in tasca sono 30 dollari e 12 li ha appena spesi per vedere quell’incontro, nemmeno sa lui bene perché.
Gli stessi pensieri che probabilmente, qualche tempo prima di quell’incontro, attraversavano la testa di Chuck Wepner: ripensava alla sua carriera di pugile trentaseienne, ai tanti incontri senza storia e che diventavano ogni volta incontri sempre più irrilevanti; non riusciva nemmeno più a viverci con il pugilato professionistico e doveva arrotondare facendo il rappresentante di vini e liquori e il buttafuori in locali del cazzo.
La sua vita è stata una serie di topoi drammatici tra i più classici (e abusati da cinema e letteratura) della formazione dei campioni del pugilato. Abbandonato dal padre a un anno e mezzo (era nato il 26 febbraio del 1939 a Bayonne, insignificante cittadina del New Jersey), venne mandato a vivere a New York dalla nonna che faceva la custode e viveva in un vecchio deposito di carbone sulla ventottesima. Si arruola nei marines dove impara la Noble Art e quando lascia l’esercito deve fare l’operaio alla Wester Electric: per allenarsi si alza molto prima dell’alba e torna in palestra finito il turno di lavoro; è una vita massacrante ma gli permette di diventare campione dei Golden Gloves nel 1964, il più prestigioso riconoscimento del pugilato dilettantesco. Poi il 25 agosto 1965 la svolta; entra nel professionismo con un match contro George Cooper al City Stadium di Bayonne. E il 18 agosto 1969 l’incontro più importante, contro Foreman. Ovviamente Foreman lo massacra. Sangue su tutta la faccia. 35 punti di sutura e il soprannome di Il Sanguinolento di Bayonne.
Ecco. Foreman, Liston e poi solo incontri mediocri, mai qualcosa per poter aspirare al titolo. Forse adesso a 36 anni è ora di chiudere.
Wepner non andava al cinema per zittire quei pensieri, ma si guardava Kojak in tv bevendosi una birra.
Mentre se ne sta seduto davanti al televisore nel suo minuscolo appartamento di New York, sua madre lo chiama al telefono. Lui è scocciato. Non gli piace essere disturbato mentre guarda il suo telefilm preferito. Ma la notizia che riceve da sua madre gli fa dimenticare tutto. Lei lo ha letto sul “New York Daily News” che lui sfiderà Muhammad Alì per il titolo mondiale e gli dice se per caso è pazzo, perché Alì lo farà a pezzi, questo è certo. Chuck cade dalle nuvole, quel bastardo di Don King nemmeno si è preoccupato di chiederglielo, ma le risponde che non vede perché no, che a pezzi lo hanno già fatto Foreman e Liston, manca giusto Alì.
Una borsa di 100.000 dollari lo convincerà definitivamente.
Solo per la cronaca: quella di Alì di dollari che contava1 milione e duecentomila.
Wepner non è stupido. Conosce perfettamente le proprie potenzialità. Il 24 marzo 1975 sale sul ring con l’intento di resistere fino alla fine dell’incontro. Non andare al tappeto, quel giorno, era un obiettivo più che dignitoso; Wepner sa di essere un ottimo incassatore, si è sempre fatto rompere la faccia piuttosto che andare giù. Quando alla nona ripresa gli riesce persino di stendere Alì, ci si può immaginare come quella decisione di resistere fino alla fine ne venisse alimentata. Per un secondo gli è pure balenata l’idea magari di vincerlo quel dannato incontro.
Certo la furia e la tempesta di colpi che Alì gli scatena addosso dopo essersi rialzato, quell’illusione gliela cancella subito.
E ciò nonostante, Wepner resiste, sanguina e incassa, incassa e sanguina, ma non va giù.
Per 15 riprese resta in piedi fino a quel terribile diretto destro che a 19 secondi dalla fine dell’incontro lo butta in ginocchio contro le corde e poi lentamente a terra sul fianco. Con uno sforzo sovrumano Wepner si gira bocconi e si rialza ma l’arbitro chiude l’incontro per KO tecnico.
Alì mantiene il titolo e questo incontro si inscriverà nella sua storia solo come tramite verso il grande scontro con Frazier a Manila nell’ottobre dello stesso anno.
Wepner ne riporterà altri 35 punti di sutura al volto da aggiungere al suo record personale che a fine carriera ammonterà a 329.
C’è una persona però, la cui vita sarà cambiata per sempre da quell’incontro. Quel giovane attore che ha assistito al match in un fatiscente cinema del Grenwich. Mentre il pubblico sfolla soddisfatto, lui resta lì sulla seggiola scheggiata, a pensare all’idea che gli è venuta, una di quelle idee di cui non ti liberi finché non la realizzi. Scrivere un film su Wepner e su quell’incontro. Ha già il nome per il protagonista, Rocky Balboa e lo interpreterà lui, quanto è vero che si chiama Sylvester Stallone! In tre giorni scrive la sceneggiatura e riesce a farla leggere a Irwin Winkler che decide di produrlo, con una cifra iniziale di 360.000 dollari (il costo finale del film sarà di 1,1 milioni di dollari, e solo nei primi mesi di proiezioni di milioni ne incasserà 225).
A questo punto Stallone va a trovare Wepner e gli fa una proposta per poter utilizzare la sua storia: 70.000 dollari subito o l’1% su tutti gli incassi futuri. Wepner ha appena divorziato dalla seconda moglie, ha problemi di dipendenza dalla cocaina e ha dilapidato tutti i soldi che aveva. Prende i settantamila e firma la liberatoria.
Anni dopo farà causa a Stallone e vincerà, ma questa è una parte della storia che qui non ci interessa. Ci interessa tutto quello che in quel momento gli restava.
Cioè niente.
Per mettere insieme il pranzo con la cena il pugilato professionistico non gli era bastato quando era al massimo del suo splendore, figurarsi adesso. Si farà pure del carcere, sempre per storie di droga. E finirà a esibirsi in patetici incontri di Wrestling. Raggiungendo uno dei più bassi livelli della dignità di un lottatore (e della dignità umana degli spettatori che amavano cose simili), esibendosi in ben due incontri di pugilato contro un orso ammaestrato, con gli artigli segati e con la museruola e drogato di narcotici e coca-cola. L’uomo che aveva sfidato Sonny “Grande Orso Cattivo” Liston era finito a lottare contro Victor, l’orso del circo.
Per fortuna nel 1978 decide di ritirarsi. In quel momento, è suo il record di 329 punti di sutura. Non manterrà nemmeno quello. Vito Antuofermo lo batterà con 359 punti. Wepner corre dal suo manager e gli dice di organizzargli un incontro al più presto, se ci recupera i suoi solite 35 punti di sutura, riprende il titolo. Ma il suo manager si rifiuta, non vuole vederlo morire.
Gli resta la storia della sua faccia ammaccata. Ciò per cui, in fondo, noi ce lo ricordiamo.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.