Ho messo nel “frigidaire” una cosa ed è ora di tirarla fuori. Altrimenti poi è da buttare.
La mostra “Andrea Pazienza. Fino all’estremo” a Bologna è finita il 26 Settembre 2021 ma io ve ne parlo ora per due ragioni. La prima: sono nuova della rivista e questo è il mio primo articolo. La seconda: ho dovuto lasciare che diventasse un evento lontano nel tempo per poterne parlare in maniera più obiettiva.
A Bologna Paz non è un argomento obiettivo, non è un discorso che si esaurisce con “grande artista / morto giovane”. È un vaso di Pandora che una volta aperto fa uscire di tutto. Non parli di Paz se non parli anche degli Skiantos (mitico gruppo rock demenziale), della droga che mieteva vittime come la falce miete il grano in giugno e delle lotte studentesche. Quando vai nel profondo il discorso si fa duro e va sugli amici che non ci sono più e sulle lotte che si sono perse.
Alla mostra ci sono andata due volte. Una con amici e una con mia madre, capirete perché.
Con gli amici da Paz
Arriviamo alla mostra che non siamo sudati, siamo spolti. Spolti e carichi di fumetti. Siamo gli appassionati, i fan. Siamo quelli che non erano nati o erano piccolissimi quando Pazienza disegnava, quelli che “queste cose” non le hanno vissute, ma che le hanno solo lette. Siamo lanciatissimi.
La mostra inizia (nel corridoio) con un video intervista a Pazienza che guardiamo, poi entriamo nelle sale e ci immergiamo nelle tavole esposte. La maggior parte viene da collezioni private di persone vicine all’artista (amici e famigliari). Alcune le conosciamo, e ad alcune siamo legati sentimentalmente.
Ad esempio c’è la tavola finale del primo capitolo de Le straordinarie avventure di Pentothal, inserita all’ultimo minuto da Pazienza a causa dell’omicidio dello studente di Lotta Continua, Francesco Lorusso. Una storia che a Bologna fa ancora male.
«Mentre lavoravo a queste tavole, nel mese di febbraio ’77, ero convinto di disegnare uno sprazzo, sbagliando clamorosamente perché invece era un inizio.
(Le straordinarie avventure di Pentothal in “Alter Alter”, 1977)
Ne avessi avuto il sentore, avrei aspettato e disegnato questo bel marzo.
Così mi ritrovo di colpo a non saper più bene che fare.
Ho già consegnato tutto il materiale a Linus venti giorni fa, ma Cristo sono cambiate tante cose nel frattempo e tante altre cambieranno fino al giorno in cui il fumetto sarà pubblicato che mi sento male e mi do del coglione per non averci pensato.
Cioè disegnare fumetti non è come scrivere per un quotidiano.
Se capite cosa intendo.
Allora disegno questa tavola qui e provo a portarla a Linus in sostituzione dell’ultima pagina originale, sperando di fare in tempo.
L’ultima tavola originale aveva in fondo al posto del “fine” di prassi in basso a destra un “allora è la fine” che suona decisamente male.
Madonna vi giuro! Credevo fosse uno sprazzo. Era invece un inizio. Evviva! Andrea Pazienza, 16 marzo ’77.»
Quella tavola è storica, anzi: è Storia. È la rappresentazione grafica del momento in cui il movimento studentesco e la sinistra istituzionale si separano. Allo stesso tempo è una dichiarazione estremamente privata. Perché Pazienza, come Pentothal, si inseriva male nella lotta ideologica: era un outsider e si era «completamente tagliato fuori».
Poi c’era, neanche a dirlo, l’ultima tavola de Gli ultimi giorni di Pompeo, quella che non potè comparire nell’edizione in rivista, ma apparve in chiusura della prima edizione integrale in volume. Troppo dura da mandare giù l’ultima immagine di Pompeo che sta per impiccarsi, mentre centinaia di ragazzi cadevano nella bugia della droga. La tavola è veramente un pugno nello stomaco, ma non è un eccesso di “cattiveria” verso il pubblico. Mostra quello che molte famiglie non volevano vedere sulle facce e sulle braccia dei loro figli.
Ci soffermiamo sulle tavole, sull’urgenza del segno. Il bisogno di disegnare di Pazienza si esprimeva anche su fogli a quadretti, e quando cominciava si estraniava da tutto quello che lo circondava. Tavole che sembrano ricordare l’horror vacui medioevale, piene di segni, di teschi, di nero dato a pennarello. Ghirigori e puntini, ovunque. Paz era un filtro capace di adattare stili diversi dal suo, imparava da tutti ed è difficile non vederci Jacovitti in tutto quel disordine creativo.
Ci fermiamo parecchio anche nella sezione dedicata a Zanardi: c’è una tavola, tratta dalla storia medievale, la penultima avventura di Zanna, uscita per Comic Art (1984), che per me è significativa della poetica di Pazienza. In un sogno ambientato nel medioevo, Zanna si appiccia una sigaretta, ne esce un discorso su cosa è lecito fare o no per aderire alla realtà medievale del sogno. La risposta di Zanna è un manifesto: «Bah! La realtà!».
Se diamo questa risposta all’intera opera di Pazienza cominciamo, forse, a capire tutto quell’orrore per il vuoto: quel nero, quei personaggi che si spingono fino al limite estremo, sono tanto più reali quanto sono circondati da un mondo pienissimo ma semi-incomprensibile. Troppo pieno, a ricordarci che spesso la realtà è sopravvalutata.
Usciamo che quasi applaudiamo. I migliori muoiono giovani, si sa.
Da Paz con mammà
Mia madre è del 1963, e ha molte frecce al suo arco: sa tutto del punk, conosce usi fantasiosissimi delle spille da balia ed è in grado di fare pipì ovunque (lo ritengo un super potere). Però deve vestirsi bene quando va alle mostre e oggi è armata di ben tre tipi di occhiali. Perché sa cosa andiamo a vedere e vuole avere gli occhiali giusti a seconda della tavola.
Entriamo e mia madre bypassa il video. Con mia grande sorpresa perché solitamente mi costringe alla visione di tutti i documentari delle mostre, ma questo, mi spiega, l’ha già visto. Così capisco: mia madre non è venuta solo per vedere la mostra, ma perché ha della roba da ricordare e ha anche un pochino fretta di farlo. Con Pazienza è un gioco facile, soprattutto perché non era un “compagno” o un attivista nel senso stretto del termine, era un termometro sociale, una spugna che il disagio di quegli anni se lo era direttamente bevuto.
Si drogavano e poi bevevano per stare lontani dalla droga, poi tornavano a drogarsi. Non era così semplice, ma da fuori lo sembrava. Non una parola davanti alla tavola finale di Pompeo.
Mia madre faceva l’istituto d’arte quando Paz, Skiantos e Bonvì avevano fatto di Bologna una delle capitali della creatività. Se non state attenti vi racconterà, più volte, di quando scontrandosi per strada con Bonvì si fece aiutare a recuperare le tavole dei suoi disegni da studentessa dell’Istituto d’arte. Ovviamente anche questa volta non sfuggo al racconto familiare dello scontro, ma incasso meglio.
Poi arriviamo a Zanardi. Con i miei amici era semplicemente Zanna (eroe negativo, ma sempre eroe), con mia madre prende una forma compiuta, molto più in linea con il messaggio che la mostra voleva dare: accoppiate alle tavole di Pazienza c’erano delle foto che raccontano il Massacro del Circeo.
L’orribile storia delle sevizie subite da Donatella Colasanti (1958-2005) e Rosaria Lopez (1956-1975), ostaggio di tre ragazzi “perbene” (Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira), in una villa del Circeo (la villa dei genitori di uno di loro), aveva colpito gli italiani nel 1975. Non era solo la violenza ma anche il fatto che quei tre ragazzi erano proprio il tipo di “giovanotti” che le mamme speravano che le figlie frequentassero. Violentatori, torturatori e assassini, molto perbene.
Zanardi è un loro cugino minore, meno ricco ma sicuramente non un personaggio positivo né un “eroe oscuro”. Di eroico Zanna ha solo il naso.
Finita la mostra mammà è più loquace, parliamo della sua generazione, della droga.
Mi racconta di nuovo dei suoi amici – storie che so già ma che mi deve ridire – sopravvissuti dal passato strano: ragazzi drogati (lei ha conosciuto soprattutto maschi dediti alle droghe), con una situazione famigliare solo superficialmente diversa, sensibili (non buoni, semplicemente più esposti al mondo) e lasciati a vivere la loro sensibilità in solitudine, come se dovessero vergognarsene.
Usciamo dalla mostra un po’ peste. Povero ragazzo.
Paz, me e il frigidaire
Io con Paz ci sono cresciuta, è morto sei giorni dopo la mia nascita. Si tratta di un nume famigliare. Solitamente io apro le mostre e le sventro, le smonto pezzo per pezzo per capirne i pregi e i difetti, per questa ho avuto bisogno di un pochino di tempo, l’ho messa in frigo e ho aspettato che arrivasse il momento.
Si trattava sicuramente di una buona mostra, con tavole stupende e che poteva essere visitata a più livelli: appassionati di fumetto e persone legate al periodo in cui Pazienza operava. All’inizio credevo che fosse una mostra per tutti. Poi ho cambiato idea: è difficile imparare ad amare Paz capitandoci per caso, perché è stata una mostra tristissima. Dal punto di vista emozionale devi esserci un pochino dentro: niente Skiantos a tutto volume e clima da “balotta”. Non che si andasse là per soffrire, ma diciamo che i momenti rilassati, durante la mostra, erano pochini.
Alcune tavole provenivano dall’esperienza di “Frigidaire”.
“Frigidaire” era la prima marca di frigoriferi moderni, ma anche il nome della rivista nata nel 1980 alla cui fondazione Andrea Pazienza aveva contribuito, ma alla mostra non si è celebrato il clima incredibilmente creativo della Bologna di quegli anni. Anzi, dalla cupezza era impossibile divincolarsi, veniva ribadita in ogni sala.
Le tavole de Gli ultimi giorni di Pompeo erano affiancate da altrettante immagini della Via Crucis. Il calvario del “drogato” come simbolo della società indifferente. Scegliamo sempre Barabba? Sembra proprio di sì.
Zanardi, come abbiamo detto, era messo in parallelo col massacro del Circeo, mentre Pentothal porta la croce della morte di Lorusso. Scegliere la profondità del sentimento mantenendo salda la narrazione artistica è un aspetto che ho apprezzato della mostra, ma che inevitabilmente la connota e la rende impegnativa a vari livelli (mentale ed esperienziale). Ma solo se si è un minimo preparati. Non si tratta di sentimentalismo o di quello che per molti è il suo contrario, l’intellettualismo, ma di un discorso aperto con il proprio sentire che esclude un pubblico non disposto a inserire un artista nel suo tempo, nei suoi errori e nelle sue fragilità.
La mostra non era per tutti, proprio perché Pazienza non era per tutti. Per fortuna.
Sembra una trentenne ma in realtà è un unicorno. È alla continua ricerca di cose nuove da imparare. A differenza degli altri unicorni, non servono magici aiutanti per scovarla, basta portarle una pizza.
2 risposte su “La mostra di Andrea Pazienza a Bologna: Fallo uscire dal “Frigidaire” che altrimenti scade”
Antonio Barile
Brava! continua a scrivere, a freddo, raffina i sentimenti, raffina i sentimenti, trasgredisci i rituali
Marco Mattiussi
Grazie. Per chi come me non è potuto andarci, la possibilità di avere almeno la sensazione di esserci. E bello anche il confronto generazionale con mammà (io ho solo un anno meno di lei, quindi sono di parte però…)