Siamo ancora qui, nella nera e rossa città al centro della Mappaterra. È una metropoli con strane costruzioni da visitare e porte magiche, il cuore pulsante di questa landa atemporale. Conviene, prima di uscirne e proseguire, capire come funziona la rosa dei venti quaggiù, per potersi orientare meglio. Altri cartografi e viaggiatori hanno parlato di dimensioni superiori alla nostra, alle quali poter accedere da qui, dimensioni con nomi strani e inconcepibili come spessitudine, seezza, quasità.
Non so quando Alan Moore sia venuto in contatto con The Fourth Dimension di Rudy Rucker (in italiano è uscito per Adelphi come La quarta dimensione), ma di certo durante le ricerche per From Hell lo aveva ben presente. Rucker, che Moore nelle note al fumetto definisce un «matematico pop», è insegnante di matematica e scrittore di fantascienza, nonché pronipote di Hegel (il nome esteso è Rudolf Von Bitter Rucker). Nel 1984 ha pubblicato questo bel libro divulgativo sulle varie teorie spaziotemporali legate alla quarta dimensione, dove, per introdurre il lettore non iniziato al lavoro di Einstein, parla di Flatlandia e degli scritti di Charles Hinton.
Flatlandia, io che sono del 1984 come il libro di Rucker, ho avuto la fortuna di incontrarlo in prima superiore, grazie ad un’insegnante di lettere illuminata (non credo fosse nei programmi ministeriali, e non credo ci sia nemmeno oggi) ed è stato una vera e propria rivelazione: naturalmente avverso a quelle materie, scoprii che la geometria, la fisica e la matematica potevano essere interessanti e persino avvincenti. Certo, l’infatuazione è durata poco, giusto il tempo di finire il libro, ma rimane il fatto che il teologo Edwin Abbott Abbott ci ha lasciato un’opera inestimabile per districarci nel complesso spaziotempo della nostra realtà. Anzi, secondo Rucker, è stata proprio la sua opera del 1884 uno degli scritti alla base delle teorie che si sarebbero sviluppate di lì a poco.
Abbott, tramite le avventure del suo A Square, il Quadrato (Rucker suggerisce che A Squared, leggibile anche come “A al quadrato”, potrebbe celare un “Abbott Squared” abbreviato, ovvero il doppio cognome dell’autore), ci trasporta in un mondo bidimensionale fatto di figure geometriche dai movimenti estremamente limitati, e si interroga su come questi esseri potrebbero interagire con una realtà tridimensionale: spostando tutto di una dimensione in più, Abbott si sta certamente domandando come l’umanità potrebbe tentare di conoscere la realtà 4D.
Scrive all’inizio del suo romanzo a più dimensioni: «Immaginate un vasto foglio di carta su cui delle Linee Rette, dei Triangoli, dei Quadrati, dei Pentagoni, degli Esagoni e altre figure geometriche, invece di restar ferme al loro posto, si muovano qua e là, liberamente, sulla superficie o dentro di essa, ma senza potersene sollevare e senza potervisi immergere, come delle ombre insomma – consistenti però, e dai contorni luminosi».
Abbott paragona i suoi esseri bidimensionali alle ombre, e fa scattare automaticamente un parallelo con il mito della caverna di Platone, fola citata fino allo sfinimento e spesso fuori luogo, ma qui necessaria per inquadrare il discorso delle dimensioni superiori. Le ombre che i prigionieri teorizzati da Platone vedono riflesse sul muro davanti a loro sono innanzitutto un perfetto esempio di cinema o, ancor di più, di fumetto. Ma la cosa importante è che quegli inconsapevoli spettatori, immobili e incatenati da tutta la vita senza possibilità di vedere altro che quelle ombre sul muro, sono convinti che ciò che guardano sullo schermo di pietra, sulla pagina di parete, sia la realtà e che quegli esseri bidimensionali siano loro stessi. Quella visione è l’unica esperienza che hanno della realtà, e perciò deve essere la realtà. Ciò che vedono e ciò che sono è un tutt’uno.
Rucker fa notare: «(…) una delle conclusioni che possiamo ricavare dall’allegoria di Platone è che non dovremmo essere troppo sicuri che la quotidiana visione che abbiamo del mondo sia la più corretta e completa possibile. Il senso comune può essere fuorviante e la realtà potrebbe contenere molte più cose di quelle che colpiscono l’occhio».
E così arriviamo a Charles Howard Hinton.
Che cos’è la quarta dimensione è il titolo di un suo libricino del 1884, contemporaneo di Flatlandia, nonché leitmotiv di From Hell. Nella fiction di Moore e Eddie Campbell il migliore amico di William Gill – il migliore amico di Jack Lo Squartatore – è James Hinton, il padre di Charles. In una scena del secondo capitolo, Uno stato di oscurità, anni prima degli omicidi, Gull e Hinton padre, passeggiando, entrano in una delle chiese di Hawksmoor. Il medico, al solito, espone la sua erudizione massonica, raccontando di come l’architetto abbia riportato nelle misure della cattedrale quelle dell’essere umano: «Prendendo a prestito le proporzioni dal tempio costruito da Dio, il corpo umano, [gli architetti di Dioniso] cercarono di creare qualcosa che fosse un tutt’uno con i processi della natura e quindi che fosse IMMORTALE».
A Hinton vengono così in mente le recenti strane teorie del figlio «per le quali il tempo è un’ILLUSIONE dell’uomo e tutti i tempi CO-ESISTONO (…). I motivi tetradimensionali presenti nel monolito dell’Eternità apparirebbero, lui dice, come eventi fortuiti a chi percepisce solo tre dimensioni, eventi che si ergono verso una convergenza inevitabile come le linee di un’arcata. Notiamo che qualcosa di singolare accade nel 1788. Un secolo dopo si verificano eventi correlati. Poi 50 anni dopo. 25 anni dopo. 12 anni e mezzo dopo. Una curva invisibile che si estende nei secoli».
Gull, a quel punto, come trafitto, trapassato dal futuro, gli chiede: «Si può allora dire che la storia possieda un’architettura, Hinton?» E poi, senza attendere risposta, confermandolo a se stesso: «È una possibilità grandiosa e terribile».
Se sia in quel momento che Gull concepisce la sua visione architettonica degli omicidi, non ci è dato saperlo. Ma viene da pensare che la sua ossessività morbosa per le costruzioni, interiori e esteriori, abbia a che fare con l’ordine prestabilito che intravede nel mondo. Uccidendo, Gull, costruisce. Mette in ordine, traccia una mappa, innalza una cattedrale. Una casa.
Curioso notare come anche Lars Von Trier nel suo capolavoro del 2018, The house that Jack built, utilizzi la stessa analogia fra l’omicidio e la costruzione. Il punto d’incontro fra i due Jack, quello americano e contemporaneo interpretato da Matt Dillon e quello vittoriano disegnato da Campbell, è la famosa nursery rhyme quasi omonima del film – This is the house that Jack built – che anche Moore cita alla fine del prologo di From Hell. La filastrocca è una sorta di Alla fiera dell’est, non ebraica ma anglosassone, e anche qui si procede per accumulo: per ogni topo che ruba il malto dalla casa che Jack ha costruito, c’è un gatto che lo uccide e che poi sarà ucciso a sua volta da un cane, e via così, potenzialmente all’infinito. Una canzone per bambini in perfetto stile delle fiabe dei Grimm e di Perrault (e in effetti la composizione è stata fatta risalire alla metà del XVIII secolo).
Il Jack di Von Trier di mestiere fa l’architetto e alla sua attività pubblica e al suo disperato tentativo di progettare una casa perfetta, alterna la costruzione di una casa di cadaveri dentro a una cella frigorifera, fatta coi corpi delle donne che uccide. Entrambi i Jack, terminata la loro opera, avranno accesso a un’esperienza mistica iniziatica che li lascerà poi come svuotati dalla vita (in uno dei due casi, letteralmente). Gull, penetrando lo spaziotempo, vedrà il XX secolo di cui è stato la sanguinaria levatrice, mentre Matt Dillon finirà in una zona metafisica in tutto simile, anche per gli abiti che ha indosso, all’inferno dantesco. Entrambi, grazie alla loro architettura omicida, avranno accesso a una dimensione superiore.
Non è tanto la loro azione ad averglielo permesso, quanto la differente visione che hanno del mondo. Una visione folle, criminale, ma altra, non partecipe a quella del senso comune. Fortunatamente, Einstein, Hinton, Rucker e tanti altri, ci dicono che per intuire la quarta dimensione non bisogna per forza essere dei serial killer in fissa col patriarcato. Serve però una visione diversa. Serve credere che «la realtà potrebbe contenere molte più cose di quelle che colpiscono l’occhio».
[Continua]
Arnesi del cartografo
I dialoghi citati vengono da From Hell di Alan Moore e Eddie Campbell (Magic Press, 2005), mentre gli altri stralci di testo sono presi da Flatlandia di Edwin Abbott Abbott (Adelphi, 1966) e da La quarta dimensione di Rudy Rucker (Adelphi, 1994). Nel libro di Rucker si trovano tradotte anche parti delle opere di Charles Hinton, altrimenti inedite da noi.
The house that Jack built è un bellissimo film di Lars Von Trier del 2018. In Italia è tradotto come La casa di Jack, ma il consiglio è di vederlo in lingua, e soprattutto nella versione più libera da censure possibile (quella italiana è parecchio tagliata). Il film è decisamente crudo e esplicito.
Scrive fumetti e scrive di fumetti, poi scrive anche canzoni e le canta, insieme a quelle degli altri che gli piacciono. Il suo sito è www.francescopelosi.it.