di Claudio Calia e Paolo Interdonato
Jim Shooter ha ventisei anni quando, all’inizio del 1978, assume l’incarico di editor-in-chief di Marvel Comics. Stan Lee si è trasferito a Los Angeles per seguire da vicino lo sfruttamento commerciale, da parte di cinema e televisione, dei personaggi che ha contribuito a creare. Nessuno dei precedenti redattori capo ha goduto della sconfinata distesa di libertà che la distrazione del “sorridente” offre su un piatto d’argento al giovane Shooter.
Per alcuni anni Marvel sembra vivere una rivoluzione felice. Gli autori ottengono riconoscimenti fino a quel momento insperati. Sembra quasi che la sopraggiunta libertà creativa faccia sbocciare gemme. Non può essere una coincidenza che, in un periodo tutto sommato breve, escano i cicli più importanti di “Uncanny X-Men” di Chris Claremont e John Byrne, “Fantastic Four” del solo Byrne, “Daredevil” di Frank Miller, “The Mighty Thor” di Walt Simonson, le serie di Spider-Man e “The Avengers” scritte da Roger Stern… Insomma sembra quasi che, per un po’ di tempo, negli uffici Marvel si respiri aria buona, mentre i successi commerciali di Star Wars di Archie Goodwin e Carmine Infantino e il ROM di Bill Mantlo e Sal Buscema tengono in piedi la baracca.
Shooter non è un personaggio trasparente. Leggendo a consuntivo le sue dichiarazioni e interviste, si scopre un individuo molto autoritario convinto che permettere agli sceneggiatori di firmare i fumetti che scrivono sia una forma di pura cortesia: il vero autore di un fumetto pubblicato da una major è l’editor, che ha il dovere di coordinare, con direttive precise, una distesa di esecutori che mettono in pagina le sue idee.
Più realista del re, il nuovo editor-in-chief impone progressivamente il suo pensiero agli autori, vincolandone l’operato all’interno di direttive industriali che ha spesso scritto personalmente.
Siamo convinti che Jim Shooter si sia mosso in un contesto fortunatissimo. Aveva limiti di budget stringenti e, volendo limitare la spesa, è riuscito a intruppare un gruppo di giovani autori che si era formata leggendo i fumetti Marvel. La prima generazione di fumettisti influenzati direttamente dai toni melodrammatici, dai supereroi metropolitani che – anche quando affrontano minacce cosmiche – abitano in città riconoscibili, dai superproblemi, dalla retorica roboante dei dialoghi di Stan Lee, dai cicli articolati con una continuity stringente, dalla costruzione mirabolante delle pagine di Jack Kirby e Steve Ditko (e Don Heck, Bill Everett, John Buscema, John Romita …).
A questi giovani autori non pare vero di poter giocare con i sogni della propria infanzia e, per farlo, sono disposti a tollerare le ingerenze sempre più insidiose di Shooter. Progressivamente il clima si fa sempre più teso. Pare che la sua uscita dalla Marvel sia stata accompagnata da festeggiamenti e sbronze colossali.
Nei primi anni di Shooter editor-in-chief, il malumore è solo strisciante. In generale il fumetto, a New York, sta vivendo un momento interessante, sbocciano albi indipendenti che cercano uno spazio commerciale al di fuori del mainstream, che per il fumetto statunitense significa eroi in calzamaglia pubblicati proprio da Marvel e da DC. E proprio sulle due case editrici che monopolizzano il mercato cominciano a fioccare critiche asperrime sul trattamento riservato agli autori. Si spazia dalla mancata riconsegna delle tavole originali al non riconoscimento della paternità di personaggi creati mentre si era vincolati da contratti firmati con leggerezza.
Le riviste iniziano a farsi notare. “Heavy Metal”, dall’aprile del 1977, traduce in inglese, a cadenza mensile, su carta patinata e a colori, i fumetti della francese “Métal Hurlant”, nata un paio d’anni prima. Nel 1980 escono, a pochi mesi e a pochi isolati di distanza l’una dall’altra, “Raw” di Art Spiegelman e Françoise Mouly e “World War 3 Illustrated” di Peter Kuper e Seth Tobocman. Ma queste sono altre storie e te le raccontiamo un’altra volta.
Tra i fumettisti si sa che è in produzione un lungometraggio d’animazione tratto proprio dai fumetti di “Heavy Metal”. Pare ci si stiano investendo soldi veri (9,3 milioni di dollari si saprà poi) e che alcuni degli autori della rivista siano coinvolti in prima persona nella realizzazione del film.
Sono tutte buone ragioni per infilarsi in un segmento editoriale redditizio e cercare di ripulire, al contempo, la propria immagine pubblica, concedendo agli autori di mantenere la proprietà intellettuale sulle opere. Inoltre, diciamocelo, le regole del comics code, il sistema di autocensura preventiva che affligge i comic book distribuiti nella rete delle edicole, delle drogherie e dei supermercati statunitensi, sono davvero insopportabili.
Nella primavera del 1980 esce il primo numero di “Epic Illustrated”, una rivista che fin dallo strillo in copertina promette «A new experience in adult fantasy and science-fiction adventure». La volontà di muoversi sulla scia di “Heavy Metal” è evidente. E anche quella di conquistare lo stesso pubblico che si immagina numeroso e abbastanza ricco da spendere due dollari e mezzo una volta ogni tre mesi per una rivista preziosa. Nel 1980 i tempi in cui i comic book costavano dieci centesimi erano ormai lontani. Quegli albetti spillati e poverissimi, stampati ancora sulla medesima carta usata per i quotidiani, che sembravano nati proprio per essere comprati dai bambini alla cui petulanza i genitori cedevano, sganciando un decino, ora di centesimi ne costavano ben quaranta. Nella maggior parte dei casi bisognava dare il resto all’acquirente e si era spenta la magia del baratto elementare: un singolo pezzo di metallo per un mucchietto di carta e un sogno colorato.
Possiamo immaginare che quando il primo numero di “Epic Illustrated” è uscito dalla tipografia, con la sua carta patinata, i suoi colori stampati decentemente, la copertina leggera e i due punti metallici, in Marvel si sia sentito un brivido. Fino ad allora, nel corso del decennio precedente, per liberarsi del morso del comics code e per vendere albi che avessero in copertina un prezzo più alto, si erano prodotte riviste in bianco e nero, stampate su carta comunque porosa, e dedicato a personaggi adulti che non riuscivano a staccarsi completamente dall’universo Marvel (e dal suo accurato sistema di property).
Chi si imbatte nel primo numero di “Epic”, magari esposto proprio accanto a “Heavy Metal”, rileva un’immediata differenza tra le due copertine. “Heavy Metal” recupera o emula le copertine – spesso meravigliose – di “Métal Hurlant”, la pubblicazione francese localizzata per il mercato statunitense. Si tratta di immagini di impatto che raccontano le sfumature della fantascienza: astronavi, robot, guerrieri, creature aliene sempre inquietanti e, qualche volta, mostruose, e umanoidi associati. Per il primo numero, “Epic” sceglie un’immagine di Frank Frazetta, “the Godfather of fantasy art”, il più noto e riconoscibile tra i copertinisti di libri fantasy, quello che ha dato forma e riconoscibilità ai mondi di Robert E. Howard. Un gruppo di legionari palestrati scruta con ostilità qualcosa da un avamposto senza aver cura di nascondersi. Negli stessi tre mesi durante i quali i culturisti di Frazetta svettano nei chioschi sulla copertina di “Epic”, “Heavy Metal” – che di dollari ne costa solo due ed è mensile – si offre ai suoi lettori con un cane rabbioso che distrugge la statua egizia che lo imprigiona (aprile, Tony Roberts), un’aliena formosissima, con quattro gambe tornite, che tiene giù la gonna sollevata dal getto d’aria proveniente da una grata, nel gesto reso indimenticabile da Marylin Monroe in Quando la moglie è in vacanza (maggio, Michael Kanarek), e con un demone cornuto in odore di Alien (Giugno, H.R. Giger).
“Heavy Metal” urla, fin dalla testata, tecnologia, “Epic Illustrated” è un’ovazione al fantasy fin dalla prima copertina e offre – come dichiara quello strillo in copertina – un’esperienza.
E poi c’è il nome dell’editore, Marvel comics, che tutti conoscono come casa editrice dei supereroi con superproblemi sorti attorno al nome, sempre in evidenza, di Stan Lee. È proprio il sorridente a salutare i lettori della rivista nell’editoriale e a firmare il fumetto di apertura.
Si tratta di The Answer, un episodio di Silver Surfer e disegnato da John Buscema e Rudy Nebres, con i colori di Rick Veitch. Il breve fumetto vuole probabilmente essere un bignami dei punti di forza di Silver Surfer, ritenuto il più “adulto” tra gli eroi Marvel, capace di presentare il personaggio al pubblico maturo cui la rivista è destinata. Purtroppo, l’eccesso di sintesi produce l’effetto di mostrare, in un colpo solo, tutti i difetti del personaggio e della sua serie, oscurando con accuratezza e precisione tutti i suoi pregi. Alla fine l’epica dello scontro tra il gigantesco Galactus e il suo schiavo argentato si riduce a un dialogo carico di retorica e istanze filosofiche la cui complessità possa essere ridotta alla misura di un balloon. Un petulante Silver Surfer continua a chiedere “la risposta” a una domanda che non si degna di esplicitare. Noi lettori siamo svegli e sappiamo che la questione posta è proprio quella. Sì, lo sai. Quella lì. Quella sulla vita, l’universo e tutto quanto. La divinità cosmica, celebre per la spiacevole abitudine di divorare pianeti in giro per l’universo, è quanto meno indisponente. Poi, alla fine, con fare magnanimo, dà soddisfazione al questuare struggente e querulo del surfista senza braccialetti hawaiani e tatuaggi: «la risposta è dentro di te». Un caffè, macchiato caldo, grazie.
Dopo questa comparsata, il sorridente Stan Lee si inabisserà e sparirà dalle pagine di “Epic”. Non ha bisogno di ulteriori apparizioni: con quel getto di urina ha già demarcato il territorio.
Più significativo è il fumetto breve pubblicato subito dopo la pillola di filosofia del frignone argentato: Homespun firmato da Wendy Pini. L’autrice e il marito Richard, che in quel momento preferiva non firmare i fumetti alla cui scrittura contribuiva, sono tra i fondatori dell’editoria indipendente del fumetto nordamericano. La loro casa editrice, Warp Graphics, pubblicava dal 1978 la serie fantasy “Elfquest”. Inserire, sulla nuova testata di fumetto autoriale Marvel, una storia breve di due paladini del fumetto indipendente, attentissimi a mantenere la proprietà e il controllo sui propri lavori, significava indicare con chiarezza ai lettori la particolarità di “Epic”. Inoltre pare proprio che i coniugi Pini si fossero conosciuti grazie a una lettera di Wendy pubblicata, nell’aprile 1969, sul quinto numero di “Silver Surfer”. Quell’albo conteneva l’episodio, struggente e doloroso fin dal titolo, “… And Who Shall Mourn For Him” scritto e disegnato proprio da Lee e Buscema. Nella sua lettera, Wendy poneva enfasi sugli eccessi ridicoli della tragedia del personaggio, spingendo Richard a iniziare un’articolata corrispondenza.
A indicare la terza chiave di lettura di “Epic”, la rivista dedica un quarto della foliazione del primo numero all’inizio di Metamorphosis Odyssey, una lunga storia, la cui pubblicazione continuerà fino al nono numero, realizzata in mezzatinta da Jim Starlin. Starlin è l’autore che, al suo esordio, ventitreenne, sulle pagine di “Iron Man”, aveva inventato Thanos, il mostrone viola con il guanto pieno di gemme attorno al quale è stato costruito gran parte del Marvel Cinematic Universe. Da lì aveva iniziato a sviluppare le sue saghe cosmiche, intrise di misticismo e morte. Un allegrone i cui personaggi si suicidano più spesso di quanto sia lecito aspettarsi. Dopo aver definito un modo epico per raccontare le storie di fantascienza Marvel (al punto che “Strange Tales” 179, datato aprile 1975 e contenente un episodio di Warlock, riporta in copertina la notazione «Approved by the Cosmic Code Authority»), Starlin inizia a raccontare una saga di cui vuole essere l’unico autore: Metamorphosis Odyssey è la prima parte del lunghissimo, e ancora incompiuto, ciclo di Dreadstar, un personaggio che, ancora oggi, gli garantisce un approdo dopo avere, per l’ennesima volta, abbandonato i porti sicuri di Marvel.
Il resto delle pagine della rivista è dedicato a fumetti brevi e brevissimi – la cui qualità è decisamente discontinua – di autori che si ispirano esplicitamente al lavoro di Les Humanoïdes Associés, la casa editrice di “Métal Hurlant” il cui nome sembra sottintendere alla composizione eterogenea del gruppo di bipedi che sforna quella magnifica rivista: ci sono Leopoldo Durañona, Bob Larkin, Ray Rue, Mirko Ilić, Ernie Colón e Arthur Suydam.
Merita di essere menzionato il fumetto che chiude il primo numero di “Epic”: Topaz di Carl Potts. L’autore di questa storia di tre pagine un po’ scolastica è il tipo che, di lì a qualche anno, sarebbe stato, in veste di sceneggiatore insieme a Mike Baron, complice del rilancio e dello straordinario successo delle testate legate a The Punisher. Su “Epic” è l’autore unico di un piccolo fantasy con satiri azzurri, alfi con le orecchie puntute e donne nude che ruota attorno a un’ideuzza formale sull’uso del fumetto che si concretizza in un’ultima pagina ispirata alle opere di Escher. Un ribaltamento di prospettiva che funzionerà meglio nei numeri successivi della rivista (di cui ti diciamo tra un mese).
[continua]