A che punto è la città

Boris Battaglia | E l'ultimo chiude la porta |

La città in un angolo singhiozza.
Improvvisamente da via Saragozza
Le autoblindo entrano a Bologna.
C’è un ragazzo sul marmo, giustiziato
.

Roberto Roversi, Il libro paradiso

Se ti trovi a Bologna (per i più disparati motivi tuoi) e stai passeggiando per il centro, potrebbe capitarti di passare per via Mascarella, proprio dietro l’Università. All’altezza del civico 37, su una delle colonne del portico, la tua attenzione verrà attirata da una lastra di vetro che ricopre una piccola superficie grezza, priva del tipico colore rosso dei portici bolognesi (sai la mia sorpresa quando, anni fa, ho scoperto che Bologna era soprannominata la rossa non per le sue giunte ma per lo storico colore dei suoi muri!). A questo punto asseconda la tua curiosità, e avvicinati per osservare con attenzione quel pezzo di muro. Ci sono sette fori. Sono i segni lasciati dai colpi esplosi dal carabiniere di leva Massimo Tramontani con la sua Beretta calibro 9 d’ordinanza, durante gli scontri dell’11 marzo del 1977.

È un venerdì.
Facoltà di medicina. Sono circa le 10.00, nell’Istituto di Anatomia si tiene un’assemblea di Comunione e Liberazione. Le cronache riportano che i partecipanti fossero poco meno di 400. Cinque studenti del Movimento cercano di entrare. Comprensibile: andare alle assemblee di CL a far casino piaceva un sacco anche a me, che all’Università ci sono andato alla fine degli anni Ottanta. Comprensibile anche che il servizio d’ordine di CL li malmeni e li sbatta fuori. Solo che siamo nel 77, non nell’88 quando a noi quattro gatti spelacchiati e anarchici se i formigoniani ci menavano non gliene fregava niente a nessuno, quindi arriva a dar manforte ai cinque un’altra trentina di studenti. I ciellini si barricano nell’Istituto. Non è ancora successo niente. Insulti e slogan. E chissà, forse sarebbe finita così, se il rettore Carlo Rizzoli, non facesse quella cosa stupida che fanno sempre presidi e rettori appena vedono minacciato l’ordine costituito del loro potere: chiede l’intervento della polizia.
La polizia carica gli studenti e l’escalation è inevitabile.
Alla pioggia dei lacrimogeni si risponde con il lancio di qualche molotov. Una di queste incendia il telone di un gippone dei carabinieri. L’autista scende dalla vettura con un balzo, attraversa di corsa via Irnerio e, impugnata la pistola, spara sette colpi ad altezza uomo in direzione del portico di sinistra di via Mascarella, da dove erano arrivate le molotov.
I proiettili si schiantano tutti nella colonna davanti a cui stai sostando con lo sguardo incuriosito da quei segni. Uno però, prima di concludere il suo tragitto balistico contro la colonna, attraversa il torace dello studente Francesco Lorusso.
I soccorsi dei compagni e il disperato viaggio in ambulanza verso l’ospedale non servono a niente. Quando giunge al Policlinico, più o meno verso le 13.00, Lorusso è già morto.

La notizia della sua morte provoca una reazione emotiva immediata. Tutti i mezzi di comunicazione del Movimento, o vicini a esso, con Radio Alice in testa, chiamano alla mobilitazione. Migliaia di studenti e di militanti affluiscono nella zona universitaria di Bologna. Alle 17:30 un corteo che sembra infinito sfila per via Rizzoli (un’omonimia con il nome del rettore che, ironia della sorte, oggi ci induce a sorridere), e arriva a occupare Piazza Maggiore e poi la Stazione Centrale. Ed è qui, in stazione (luogo destinato a diventare il simbolo di una ferita sociale mai più rimarginata), che cominciano gli scontri più violenti.
Per due lunghissimi giorni Bologna è in preda a una vera e propria guerriglia. Finché – con buona pace di Andrea Pazienza che nell’ultima tavola del primo episodio di Penthotal (datata 16 marzo ’77) aveva confuso quello che era stato il canto del cigno dell’idea stessa di Rivoluzione con il suo inizio – l’allora Ministro degli Interni, Francesco Cossiga, ci mette la parola fine con l’invio dell’esercito e degli autoblindo.

Il Penthotal di Pazienza, con quell’ultimo sprazzo confuso per un inizio, è forse la più famosa delle cronache (lo so, che lo è solo superficialmente una cronaca di quegli anni, che in realtà è tutt’altra cosa, ma in questa sede è sufficiente assumerlo così: come testimonianza autobiografica di quel periodo) a fumetti sul movimento del ’77. C’è però un’altra opera a fumetti che, pur raccontando apparentemente d’altro, ci ha lasciato un’analisi molto più lucida su quel pezzetto di storia d’Italia. È un libro uscito nel gennaio dell’anno successivo, nella collana “Un uomo un’avventura” edita da Cepim, e intitolato L’uomo di Tsushima.
Vedo della perplessità nel tuo sguardo. Non ti convince il fatto che Bonvi, raccontandoci una guerra del 1904, ci stesse (e ci stia) in realtà parlando di un momento fondamentale e fondativo della nostra storia culturale e sociale?
Farò del mio meglio per convincertene, però devi seguirmi un attimo. Ci tocca risalire il flusso del corteo che abbiamo appena incontrato, fino al civico 24 di via Rizzoli. Vieni, fidati, non ci succederà niente.

I ricordi hanno una natura paradossale. Capita spessissimo, a ciascuno di ricordare qualcosa che non è mai avvenuto. O meglio, di ricordare qualcosa in modo diverso da come è accaduta è accaduta realmente. Quando raccordiamo quel fatto, che non è avvenuto come noi lo ricordiamo, non stiamo mentendo, perché noi lo ricordiamo davvero così, come lo raccontiamo. Chiunque però, dovendo stabilire la verità su quel fatto, si fidasse solo del nostro racconto, si comporterebbe da stupido.
Un concetto sbagliato, che ti inculcano a scuola, e che certi vecchi custodi di verità ottocentesche di cui la nostra cultura non si è, purtroppo, ancora liberata, è quello che la memoria sia un archivio storico di verità da preservare.
Cazzate. La nostra memoria è una collezione di fandonie, spesso divertenti, ma lontane sideralmente da qualsiasi statuto di verità.
Ecco. Stabilire come sono andati i fatti che sto per raccontarti non è un’impresa semplice. Gli unici documenti che abbiamo sono le testimonianze di due personaggi, per diversi motivi, non particolarmente attendibili. Gabriele Ansaloni e Francesco Guccini. Ma siccome questi fatti sono, a mio parere, indispensabili per comprendere la genesi e la portata de L’Uomo di Tsushima, cercherò di fartene la sintesi più plausibile possibile.

Al numero 24 di via Rizzoli aveva il suo studio/appartamento Bonvi. È ormai un autore di fumetti affermato. Le Sturmtruppen sono un successo internazionale, i francesi di “Métal Hurlant” pubblicano sue sceneggiature con i disegni di Silver, il progetto “SuperGulp!” con De Maria è prossimo ad arrivare in porto (comincerà proprio a fine marzo del ’77), Sergio Bonelli gli ha appena commissionato un volume per la sua collana “Un Uomo un’avventura”. Dal balcone di casa sua assiste all’inizio degli scontri. Dato che conosce un giovanissimo DJ, Gabriele Ansaloni, che l’anno prima lo ha intervistato per Radio Alice, lo ospita senza indugio sul suo balcone per fare la radiocronaca della guerriglia che il 12 marzo infiamma il centro di Bologna e via Rizzoli in particolare.
Questi i fatti.
Poi c’è la leggenda di Radio Marconi & Co. Questa fantomatica radio che, stando alle memorie di Ansaloni e Guccini, era stata fondata da loro due insieme a Bonvi e Lucio Dalla proprio nel marzo del 1977.
Così la racconta Guccini nel volume, scritto con Massimo Cotto, Portavo allora un eskimo innocente:

«Nel 1977 tentai con Lucio Dalla, Bonvi e un allora sconosciuto ragazzino, l’impossibile impresa di mettere su una radio privata o, come si diceva allora, una radio libera. […] La chiamammo Radio Marconi & Co., parafrasando la Shakespeare & Co. […] Superammo brillantemente le prove tecniche di trasmissione; poi quando si trattò di iniziare le trasmissioni regolari, Bonvi e Red Ronnie [l’allora sconosciuto ragazzino Ansaloni che, in realtà, non si era ancora trovato lo pseudonimo di Red Ronnie; nota di Boris], impazzirono. In occasione della guerriglia urbana scatenata a Bologna dalla morte di Lo Russo e dalla chiusura di Radio Alice, cominciarono a scambiarsi messaggi in codice nel tentativo di raccontare a modo loro la rivoluzione: “Orecchietta Rossa chiama Orecchietta Blu, questo il resoconto delle attività di ieri…”, e giù puttanate. Io e Lucio lasciammo fare per due o tre giorni, poi ci guardammo in faccia e chiudemmo la radio prima ancora di battezzarla.»

Questa invece la versione di Red Ronnie:

«Con Bonvi, Francesco Guccini e Lucio Dalla creammo Radio Marconi & Co. Ma l’11 marzo 1977 la polizia uccise Francesco Lorusso e a Bologna esplose la rivolta, repressa persino con carrarmati. Mentre Bonvi era eccitatissimo, Guccini e Dalla decisero di tenere la nostra radio fuori dalla mischia. D’altra parte il loro pubblico era sulle strade a protestare ma era il Partito Comunista quello che permetteva loro di fare concerti nelle Feste dell’Unità. Quindi: da che parte stare? Meglio il silenzio. Così io i miei reportage e le assemblee registrate li facevo trasmettere da Radio Alice, poi chiusa in diretta con una irruzione della polizia. E Bonvi dirigeva la rivolta da casa sua. Fu in quella occasione che mi chiamò Gabriele in una telefonata in diretta a Radio Alice, poi pubblicata sull’Espresso, e, visto che la polizia cercava questo Gabriele per arrestarlo, cambiai nome in Red Ronnie per continuare a trasmettere. Tornata la pace, Bonvi e io fummo contestati da Guccini e Dalla per il nostro comportamento scriteriato che aveva messo in difficoltà anche loro. Così ci separammo.»

Da entrambi i racconti solo una cosa appare chiara e assodata, che Radio Marconi non fu altro che una suggestione letteraria, probabilmente uno dei tanti irrealizzati progetti d’osteria. Radio Marconi non è mai esistita e Bonvi non diresse la rivolta della città dal suo balcone.
L’unica cosa che possiamo assumere come certa è che da quel balcone, il 12 marzo Bonvi e Red Ronnie trasmisero in collegamento telefonico con Radio Alice, come tanti altri da altri punti della città, la cronaca degli scontri. E il motivo non fu certo la sopravvenuta pazzia ventilata da Guccini, con la quale intendeva fare (sua antipatica abitudine di sopravvissuto) un paternalistico rimprovero a quella che lui interpretava come l’irresponsabilità caratteriale di Bonvi.
Il motivo di quel comportamento invece, per come la vedo io, è che Bonvi stava entrando nei panni del protagonista di L’Uomo di Tsushima, quel Jack London a cui darà le proprie fattezze, e per farlo, in quanto reporter di guerra, gli occorreva un fronte.

La storia glielo portò direttamente sotto al balcone.

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