Innanzitutto, ascolta (e guarda) Fanny Ardant:
«Ascolto canzoni perché dicono la verità. Più sono stupide più sono vere… E poi non sono stupide…»
La scena è tratta da La signora della porta accanto. Se non sei rimasto travolto dal fascino tragico e intenso di Fanny Ardant vuol dire che «hai un bidone dell’immondizia al posto del cuore», tanto per abbassare la qualità delle citazioni fino al livello tera-tera (ossia: Buffon nel 2018, sull’arbitro che gli mostrò il cartellino rosso dopo aver fischiato rigore per il Real Madrid, decretando l’eliminazione della Juventus).
Comunque. La frase d’apertura, decontestualizzata dalla dolorosa storia d’amore raccontata da Truffaut, ha un suo perché, riferita a ciò che incontrerai in queste righe. Mettiti comodo, già sai che sintesi non è mia amica.
Le categorie antropologiche di chi guarda o evita il Festival di Sanremo sono mutate negli anni, arricchendosi di sfumature. Chi lo guarda come intrattenimento, chi come specchio del Paese, chi lo evita per scelta di vita, snobismo… Varie sfumature, dicevo.
Io non lo guardo. Avrai notato, ho usato il presente narrativo. Intendo che il rifiuto non si riferisce alla sola ultima edizione. Però, attento, non sono fra quelli che negli anni hanno spiegato sui social il proprio rifiuto come una presa di distanza intellettuale. Semplicemente (già detto in queste pagine in tempi non sospetti) guardo pochissima TV e figurati se riesco a seguire una cosa così lunga. Mi scogliono dopo poco.
Ti sarà più chiaro grazie a un aneddoto. Come sai, sono un incontinente di storielle e incisi.
I primi due giorni neppure ricordavo dell’esistenza di Sanremo. Sono finito in studio a scrivere, e a fine serata mi sono visto, spalmato in due volte, i R.E.M. dal vivo su DVD. Questo:
Non era il sussiego di chi dice «ah, pezzenti, guardatevi Amadeus, io ascolto Michael Stipe e compagni!». Semplicemente non c’ero sopra. Anzi, Sanremo m’incuriosisce e di solito finisco col recuperarlo a spizzichi e bocconi, con giorni di ritardo.
Quindi, dopo le prime due serate, eccomi a orari impensati a cercare qualcosa su YouTube. Sarò sfigato, ma la prima cosa che mi capita è Ana Mena in Duecentomila ore:
Ana sembra simpatica. È dolce e perfettina. La voce piccola e tremolante. La sua voce e il suo fascino sono come un budino: sussultanti e troppo dolci. Io, poi, ho un’idiosincrasia particolare verso i ritmi latini, con poche eccezioni.
Insomma, anche per rispetto della mia rubrica di Tradrittore, più o meno dopo un minuto HO DETTO:
«Davvero sto ascoltando ‘sta roba?»
(c’è poco da tradurre o tradire. VOLEVO DIRE proprio: «Davvero sto ascoltando ‘sta roba?»)
Ripeto. Sfigato io, non lo nego. Però anche basta, ho pensato. Solo che vado sui social e …
Aspetta, mi autocito: giusto un paio di articoli fa, guarda te il caso, scrivevo: «I fatti del mondo li seguo grazie a pochi e fidati amici, mi arrivano col filtro della loro sensibilità». Quindi, dicevo, finisco sui social e ritrovo amici fidati che stanno lì a dire quanto sia bello Sanremo, quanto sia TRASGRESSIVO!
Allora iniziamo con questi due:
Il “battesimo” di Lauro è un fatto sanremese, mentre la foto di Victoria precede di pochi giorni il festival, ma ha causato uguale baccano.
Non entro nella discussione se i Maneskin siano o no una grande rock band. Dell’argomento puoi leggere, sempre su queste pagine, un parere ben più articolato. Il poco che ho sentito a me è piaciuto. Se non sono i Led Zeppelin non m’importa. Per dire: non ho mai preteso che i fumetti che compro abbiano tutti la qualità di Manu Larcenet. L’avessi fatto, avrei molto più spazio in casa e più euro in saccoccia. Ben vengano i Måneskin e la chiudo qui.
Veniamo alla biancheria di Victoria. Ecco come viene presentata su fanpage:
«I Måneskin sono provocanti, eccentrici e per nulla disposti ad omologarsi: l’unicità è la chiave del loro successo, fatto di talento ed energia. I loro look parlano di ribellione, autodeterminazione e libertà…»
È superfluo dirti che la ragazza può mettersi quello che le pare, così come uguale libertà ha Lauro. E ho già scritto da altre parti che qualsiasi cosa utile a far venire la gastrite a Pillon e Adinolfi (o a qualsiasi bigotto differentemente connotato) va più che bene. Però Pillon e Adinolfi sono macchiette. Odiose, ma macchiette. Tutti/tutte capaci di sfidarli o sbeffeggiarli. Fatelo con Bonomi, poi ne parliamo. Provate a sostenere il diritto ad abortire in Lombardia, dove la sanità è in mano a CL e non si trova un medico non-obbiettore, poi vedrete se dovrete scontrarvi solo con patetiche macchiette.
Ricordi l’assurda menata fatta a Damiano, cantante dei Måneskin, accusato di aver sniffato durante l’Eurovision? Non gli fu concesso di limitarsi a dire che era una cazzata, che se deve sniffare mica lo fa in diretta televisiva. Dovette aggiungere (me lo ricordo perché per qualche strano caso lo vidi in diretta sul TG1) che lui è, loro sono, contro la droga.
Oh, io sto scrivendo sorseggiando un brandy da 40 euro. E ne ho vista di gente andare via «Lungo le strade che non portano mai a niente, cercare il sogno che conduce alla pazzia, nella ricerca di qualcosa che non trovano». Per dire: figurati che fascinazione, la droga… E non voglio che Damiano diventi il Lou Reed de noantri o, peggio, il Jim Morrison. Però non vendiamo per trasgressivi dei “bravi ragazzi”, belli e con le battaglie giuste, inclusive e prêt-à-porter. I Måneskin, Achille Lauro, sono giovani. Se sono lupi, hanno ancora tutto il pelo, beati loro. E nessuno gli chiede di perdere vizi: ne hanno solo di innocui.
Insomma, i gesti di Victoria e Achille Lauro dovrebbero portarci a un quesito: sono davvero gesti trasgressivi? E la domanda, chiaro, si estende ad altre vicende sanremesi. È il caso di spostare il focus della riflessione.
Magari sbaglio, ma ho l’impressione che l’artista non sia più chi va a scombussolare l’idea stessa di normalità. L’artista, oggi, è chi crea una nuova normalità. Con buona pace dell’unicità di cui parla Drusilla nel suo monologo (pazienta, ci arrivo fra poco). L’artista attuale deve PARLARE A TUTTI, creare un nuovo schema ACCETTABILE DA TUTTI. Non è anticonformista, crea un “nuovo conformismo”. Un tempo parlava a pochi, rompeva gli schemi graditi alla maggioranza. Di più sfigato c’è solo il collaboratore di (QUASI), che scrive per non essere letto da nessuno.
Eccomi dunque al monologo di Drusilla, di cui non trovo tracce complete su YouTube. Accontentati di questa versione parziale e testuale, da Open on line:
«Diversità è una parola che non mi convince. Quando la verbalizzo, sento sempre che tradisco qualcosa che sento o che penso. Trovo che le parole siano come le amanti, quando non funzionano più vanno cambiate subito. Ho cercato un termine che potesse sostituire una parola così incompleta e ne ho trovato uno molto convincente ed è: unicità. Unicità mi piace, piace a tutti, perché tutti noi sappiano notare l’unicità dell’altro e tutti noi pensiamo di essere unici. Ma non è per niente facile. Per capirlo, dobbiamo comprendere di cos’è fatta la nostra unicità, di cosa siamo fatti noi. I valori, le convinzioni, i talenti, però i talenti vanno allenati, seguiti, delle convinzioni bisogna avere le proprie responsabilità…»
Giusto, davvero. Qualcuno ha obbiettato che, tanti anni fa, Paolo Poli faceva la stessa cosa, con rischi (personali e di carriera) più alti, fino a denunce per vilipendio alla religione. E per la sua versione insolente di Santa Rita non ebbe a che fare con scartine da briscola come Pillon e Adinolfi, ma con un’interrogazione parlamentare firmata Oscar Luigi Scalfaro.
Ti tolgo una soddisfazione, Ok boomer me lo dico da solo. Però, occhio, sarei davvero un boomer se dicessi, come quel qualcuno ha fatto, che Poli faceva la stessa cosa di Drusilla. Io ti sto dicendo: manco per il cazzo!, lui faceva ALTRO. Lui ha giocato in uno sport diverso da quello di Drusilla. Poli trasgrediva, Drusilla no.
E torno ancora alla domanda di prima, senza neanche una risposta a soffiare nel vento. Al massimo, il quesito si è definito un po’ meglio: se quei gesti trattati come trasgressivi, ma compiuti in un contesto reazionario come Sanremo, NON SONO trasgressivi, allora COSA SONO, come possiamo classificarli?
Il mio tasso di stronzaggine non arriva a farmi dire che, se non sono trasgressivi, sono giocoforza reazionari. Sono qualcosa di diverso… Ma, bada bene, partecipano comunque al disegno di cui fa parte Sanremo. Magari inconsapevolmente e in buona fede, per quel che conta.
Ora. Prendiamo per vero che Sanremo sia davvero lo specchio del Paese e dei suoi costumi. Quindi, nel caso dell’ultima edizione, una manifestazione in cui si è parlato di diversità (declinata come “unicità”, vedi il monologo di Drusilla), in cui è emersa la necessità di liberare l’amore in tutte le sue manifestazioni di genere. Un inno laico e condivisibile alle libertà individuali.
Bene così. E non mi sfugge, per dirne una, che nella serata delle cover Giovanni Truppi abbia scelto Nella mia ora di libertà di De André, portando sul palco il mondo del carcere. Insomma, non voglio fare benaltrismo d’accatto dicendo che (mi) mancano accenni a problematiche politiche o collettive. Forse anche questo è specchio, più che del Paese, dei tempi. Tempi in cui sono maggiormente sentite le istanze individuali che non quelle collettive.
Sarai stanco, vedo di concludere e la faccio ancora più semplice.
Sanremo è una manifestazione intrinsecamente reazionaria. Anche quando finge di essere trasgressiva, anche quando crede in buona fede di esserlo.
Ho letto commenti entusiasti alle “trasgressioni” sul palco. Altri hanno criticato le stesse performance, con toni speculari e feroci. Questi ultimi non mi hanno sorpreso, e se quei gesti sono serviti a far andare di traverso il Festival ai bigotti a me sta bene. È già qualcosa, ma nulla di più. Semplicemente, se tu sei rimasto sollevato dalla lettura del “dove va l’Italia” che emerge dal Festival, io – al contrario – sollevato non sono.
Ma la mia NON è una crociata contro Sanremo. Anzi, ha ragione Fanny Ardant. Ascolta le canzoni, perché dicono la verità. Più sono stupide più sono vere… E poi non sono stupide.
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.