Una domenica di sole come questa.
Un cielo azzurro limpido e un’aria fredda, tagliente, come solo certe giornate di marzo regalano. Non esattamente primavera, anche se il calendario segna il 29; non esattamente diaccio, come a inizio mese. Un anno, abitavo ancora a Rimini, nevicò in quei primi giorni e la città per cinque centimetri di neve andò nel panico.
Ma nel 2015, il 29 marzo, mangiammo un pasto frugale e raggiungemmo le amiche allo stadio.
Eravamo a Jesi, al Cardinaletti. Un impianto relativamente nuovo, quantomeno riqualificato, con il palazzetto, i parcheggi e, appunto, lo stadio (due tribune in cemento compreso di parcheggio interno, spogliatoio, presumibilmente un bar, mai trovato però) in uno spazio finalmente fruibile, verde, sia per l’agonismo sia per la passeggiata.
All’entrata, gratuita, le volontarie della società distribuivano il classico dépliant informativo con le foto delle giocatrici, informazioni sulla gara, qualche news relativa al periodo in una veste di carta plastificata formato A4 che poi è, per metà delle pagine, un obolo alla pressante pubblicità: della ditta di calcestruzzi, del negozio all’angolo che vende tendaggi e sdraio alla pasticceria che frequenta Roberto Mancini, CT della Nazionale, omaggiato in un murales sulla facciata della casa della signora Nadia davanti a un altro stadio, quello del campetto dell’Aurora Calcio dell’oratorio San Sebastiano a fianco della chiesa omonima, sul cui campo, polveroso e bianco, il Mancio nazionale calciò i primi palloni.
Nell’estate del 2021 ci hanno fatto anche il Mancini Day, al palazzetto a fianco il Cardinaletti, che è intitolato a Ezio Triccoli che è un altro per il quale servirebbe un altro articolo ancora. Brevemente: soldato nella Seconda Guerra Mondiale, catturato in Africa orientale viene portato nel campo di internamento di Zonderwater in Sudafrica, gestito dagli inglesi. Ne racconta pure Federico Buffa in uno dei suoi speciali su SKY. È comunque un campo di concentramento, non è sicuramente ostriche e champagne ma se qualcuno aveva delle qualità sportive riusciva a sopravvivere meglio. Lì, Triccoli impara da un sottufficiale inglese l’arte della scherma. Quando torna a Jesi, liberato, nel 1947 apre la sua prima scuola di scherma. Ora, avete presente tutte le medaglie che da decenni vincono le atlete e gli atleti azzurri alle Olimpiadi, agli Europei, ai Mondiali e a eventi vari per il mondo? Avete presente le varie Vezzali, Trillini, Di Francisca? Ecco, tutte jesine, tutte cresciute nella tradizione della scuola aperta nel dopoguerra da Triccoli. E così la stragrande maggioranza degli altri e altre che, a Jesi, diventata città della scherma, devono gloria e medaglie. Tutto partito da Triccoli.
Al Mancini Day al Pala Triccoli, una storia nella storia, mancai dolorosamente, non foss’altro per l’irreperibilità di biglietti volatili e venduti in un amen, già pochi per via delle condizioni sanitarie pandemiche.
Al Cardinaletti però quel giorno di marzo ci sono.
Si gioca Jesina femminile – Trevignano.
È la serie B 2014/2015 di calcio femminile, stagione di svolta, verrebbe da dire, per la categoria, per due episodi. Il primo: in uno stadio Bentegodi di Verona, piovoso e triste, grigio come solo le sconfitte brutte lasciano nell’umidità delle ossa, un 1 – 2 casalingo nello spareggio ai playoff per il Mondiale di Canada 2015, Italia – Olanda vale la qualificazione. La metà delle ragazze sono quelle che appena quattro anni dopo applaudiremo in Francia, all’omonimo Mondiale del 2019, quello delle “Ragazze Mondiali”. Ma nel 2014 quelle ragazze sono piuttosto “ragazze normali”, atlete che studiano o lavorano di giorno e la sera, un paio di volte a settimana, riescono ad allenarsi. È persino sorprendente che siano riuscite ad arrivare a giocarsela. Se la giocano, eccome se se la giocano, ma l’Olanda ha iniziato proprio in quegli anni la sua transizione, quella che in Italia stiamo vedendo adesso. Il Mondiale, vinto poi dagli Stati Uniti, ce lo guardiamo da casa.
Il secondo episodio è invece quello in cui il presidente della Lega Dilettanti è Felice Belloli, in stagioni non proprio eccellenti a livello dirigenziale delle leghe: si passa da Carlo Tavecchio la cui gestione disastrosa verrà ricordata principalmente per l’aver scelto l’allenatore Giampiero Ventura con il quale l’Italia maschile mancherà clamorosamente la qualificazione al Mondiale di Russia 2018. Proprio Belloli dirà, riferendosi ai finanziamenti per il calcio femminile: «Basta dare soldi a queste quattro lesbiche», scatenando indignazione e il cambio radicale di direzione.
Da allora, i primi a investire nel femminile aprendo di fatto alla più o meno parità di trattamento (quantomeno negli stipendi, seppur da dilettanti, e nelle strutture, oltre che nella linea abbigliamento e nelle divise e accessori) furono i Della Valle all’epoca proprietari della Fiorentina. Il resto, come si suol dire, è storia e oggi le ragazzine di nuova generazione possono sognare di intraprendere la carriera di calciatrice come fosse la carriera di matematica, di astrofisica, di pallavolista, di avvocato in quel ventaglio di possibilità reali, concrete.
Jesina – Trevignano è la partita di calcio femminile che richiama ai miei ricordi: un mondo lontano di sacrificio quotidiano, con mezzi molto, molto scarsi e per una gloria che pochissimi si ricorderanno. Come il pullman della squadra avversaria che scende dal Veneto noleggiato dalla società come fosse una gita domenicale nelle città d’arte o per la Marcia della Pace Perugia – Assisi, amiche o parenti che fanno macchinate anche, perché no?, per andare nella trattoria di carne marchigiana in un posto consigliato dal cugino di un amico, e poi digestivo allo stadio, o anche solo per quella straordinaria disciplina del credere fortemente in qualcosa: la squadra ha bisogno di noi, tifosi, supporter, appassionati, e noi ci siamo.
Tutte queste partite di calcio femminile, vissute e viste, perse nei meandri della memoria, memoria di campi che, nel migliore dei casi se esistono ancora sono stati trasformati in parcheggi del nuovo supermercato del paese, tutto quel fiato e quel sudore, tutti quei “numeri”, scivolate, calci al volo, rovesciate, sombreri, rabone, biciclette e doppi passi, di cui io e persone che si contano sulle dita di una mano ormai, fedelmente, ne conserviamo un ricordo.
Come questa partita.
La numero 6 della Jesina si chiama Silvia. Silvia Scarponi.
Scarponi non mi dice gran che come cognome, è un cognome comune nell’anconetano e nelle zone dell’entroterra della provincia. Filottrano, per esempio, è un paese carino come altri, alte mura di mattoni chiari marchigiani, struttura romana e archi a manetta, casette e vicoli incantevoli per Instagram col giusto filtro, qualche azienda di maglieria conosciuta, piccole realtà locali di persone che si conoscono tutte tra loro.
Le radioline, la tattica, le squadre con un Capitano che deve sempre vincere: il ciclismo è cambiato moltissimo.
In tanti lo hanno accusato di aver perso la poesia. Peccato che, nonostante tutto, di poesia nel ciclismo ce ne sia ancora.
Io Michele Scarponi non lo conoscevo. Il primo ricordo che ho è quello nel Giro d’Italia 2016 in quella tappa che sfiora davvero l’epica del ciclismo d’altri tempi, quella dell’ “un uomo solo al comando”, quella del 27 maggio, tappa Pinerolo – Risoul.
Il Giro è bellissimo ma Vincenzo Nibali è solo quinto nella classifica generale. Dovrebbe vincere, o quantomeno attaccare nelle tappe di montagna, come questa, piena di salite e discese e che affronta il Colle dell’Agnello che è anche la Cima Coppi (a ogni Giro la vetta più alta viene dedicata a Fausto Coppi).
Scarponi è un gregario, ma è anche uno scalatore.
A un certo punto, Scarponi attacca, si stacca dal gruppo e va da solo a valicare il Colle dell’Agnello ancora innevato.
È così innevato che l’olandese Kruijswick, sorpresa di questa edizione (sarà poi Tom Dumoulin nel 2017 a essere il primo olandese a vincere un Giro), fa una capriola pazzesca scivolando sulla strada bagnata e perdendo secondi su secondi infossandosi nel muro di neve che lo accoglie morbido.
Il colombiano Esteban Chavez e lo spagnolo Alejandro Valverde, secondo e terzo in classifica, tengono botta.
Scarponi continua ad andare. Non lo prende più nessuno su quelle montagne, sta staccando tutti. Ma il capitano è Nibali che, nel frattempo, tiene il passo degli altri.
E allora è l’ammiraglia dell’Astana (squadra di Scarponi e di Nibali) che decide; decide di affiancarsi al gregario solitario e dirgli di rinunciare alla vittoria di tappa per favorire Nibali.
Michele Scarponi allora si ferma, frena in mezzo alla strada e aspetta, aspetta Nibali che intanto scatta a sua volta.
Le telecamere indugiano su Scarponi, lui ha quel suo solito sorriso aperto, un ghigno da uomo buono che si diverte sempre, che ha capito cosa sia importante nella vita.
Sembra fuori dal mondo che da quel momento, un momento nel quale i commentatori si sperticano in lodi per il corridore marchigiano, Michele abbia appena meno di un anno da vivere ancora su questa terra.
Negli occhi io lo ricordo ancora così: sorridente, appunto quel suo sorriso, presumibilmente scherza con l’ammiraglia, appoggiato comodo alla canna della bicicletta, gomiti sul manubrio come uno qualunque che aspetta il verde al semaforo.
Quando Nibali si avvicina, Scarponi riparte e tira il gruppetto dei primi. Poi, esausto, si stacca. Arriverà 19esimo con 6 minuti di ritardo, Nibali vincerà la tappa e conquisterà mezzo Giro, andando a vincerlo il giorno dopo.
Silvio Martinello, ex ciclista e commentatore RAI, dirà: «Non abbiamo più aggettivi per definire Michele Scarponi oggi».
Michele Scarponi arrivò comunque sorridente.
Michele Scarponi morirà l’anno dopo, il 22 aprile 2017, a 37 anni, mentre si allenava centrato in pieno da un furgone in una curva della SP 362 nella sua Filottrano nella provincia di Ancona.
Si allenava con un pappagallino sulla spalla e che volava con lui, Frankie.
Nel luogo dell’incidente, sotto il cartello stradale ai cui piedi giacciono i fiori, Frankie è tornato più volte. Dicono torni ancora oggi, ogni tanto.
L’investitore, affranto dall’incidente, morirà qualche mese lasciandosi consumare dal cancro che lo aveva colpito qualche tempo prima.
Silvia è la sorella di Michele.
La riconosco in un servizio di approfondimento in una trasmissione di ciclismo mentre parla di suo fratello.
Silvia io l’ho vista giocare in una domenica di sole a marzo.
Incontrerò, nel tempo, anche l’altro fratello, Marco, che aprirà la Fondazione dedicata a Michele per sensibilizzare la sicurezza in strada, dirò «Scarponi!», chiamandolo, come non avevo mai detto riferendomi a qualcuno di sconosciuto con quella strana familiarità, faremo due chiacchiere e una serie di selfie durante l’arrivo a Jesi della Tirreno – Adriatico 2018, quella dedicata a Michele.
Un unico filo a collegare cose di per loro inconcludenti, eppure che per qualche motivo si uniscono in un disegno collettivo grande e incredibile.
La Jesina scende in campo nella sua bella uniforme rossa, il Trevignano in bianco con righe blu sulla maglia.
Il 2 – 2 finale è un risultato che sta stretto alla Jesina che in quel campionato arriverà quarta: il pareggio rocambolesco avviene nei minuti di recupero del secondo tempo e il malumore serpeggia sugli spalti. Per quanto Silvia, capitano con la fascia bianca al braccio e la lunga coda nera oscillante a ogni intervento, giochi benissimo, le jesine escono a testa bassa rientrando negli spogliatoi, deluse da quel gol che si sarebbe potuto evitare.
Oggi, dopo tanto tempo, un oggi nel quale ci si è messa pure una pandemia che ha chiuso per un paio d’anni tutti gli impianti delle società sportive dilettanti, le partite sono riprese. Nei campi di terra battuta fuori dalle mura di Jesi, genitori con bicchieri di carta in mano dietro a una rete verde di plastica intrecciata guardano i loro figli correre dietro a un pallone, ragazzini e ragazzine che si sentono Dybala o Bonansea.
Al Cardinaletti non ci sono più tornata.
È ora di farlo.
Rimini 1975, disegnatrice di fumetti, fumettara, illustratrice. Pubblica dal 1999. Qualche titolo: la fanzine “Hai mai notato la forma delle mele?”, le graphic novel Io e te su Naboo e Cinquecento milioni di stelle, il fumetto sociale Dalla parte giusta della storia, il reportage a fumetti scritto dalla giornalista Elena Basso Cile. Da Allende alla nuova Costituzione: quanto costa fare una rivoluzione?.