Un eterno presente che capire non so

Lorenzo Ceccherini | Interni di un bassista |

Ho finalmente riletto un romanzo per intero.

L’ho scritto male. Sono riuscito ancora una volta, dopo molto tempo, a leggere un romanzo per intero. Ora si capisce meglio.

Ah, vi comunico che non ho nessuna intenzione di preoccuparmi se sto spoilerando il romanzo in questione. Quindi, quando si arriverà a parlarne, procederete a vostra discrezione. Non iniziate a commentare per protestare perché vi ho detto che nel finale di Seven nella scatola c’è la testa della moglie o che tutta la storia de I Soliti Sospetti era inventata sul posto da Verbal Kint, ok?

In omaggio alla modalità Hieronimo is Mad Againe che ho scelto come tagline per il mio brand personale,in chiave piccolo borghese, ho puntellato le mie rovine con un numero finito di frammenti. Quindi pesco spesso dagli stessi cassetti, dalla stessa gente, e spesso non tutto il repertorio. Guardate a Eliot, mi fermo a giusto prima dei Quattro Quartetti. Mai andato oltre.

Per leggere Madame Bovary ci ho messo almeno vent’anni, da quando avevo letto L’Educazione Sentimentale. Tra i francesi in gioventù amai Stendhal, Il Rosso e Il Nero e La Certosa di Parma. Ma ero un romantico, leggevo pure Il Capitan Fracassa di Theophile Gauthier, per dire. Balzac niente. Alla nozione della commedia umana ho voluto arrivarci senza spoiler, a quanto pare. Ma non starei qui a fare l’excursus delle mie non letture – sappiate, ma era già evidente, che chi scrive qui è un raccoglitore, un ruzzolatore tritovagliatore di opere che se vai a rimetterle insieme a mo’ di collana ci sono dei buchi grossi così  e non ci componi una storia della letteratura o una lista di raccomandazioni à la Harold Bloom. Pazienza, non ho usurpato nessuna cattedra né rivendico chissà quale autorità, sto qui sulla mia scatola da speaker’s corner a scrivere cose che potete tranquillamente derubricare a farfugliamenti da ignorante. Se vi va.

Se vi fosse andato, e alcuni di voi sono sicuramente anche andati ben oltre, potevate prestare attenzione all’antologia di letteratura delle scuole superiori. Se era di quelle buone, valeva la pena scorrersela e scoprire tante opere, più o meno belle, per avere un quadro, antologico, è chiaro, di un paio di millenni (di più se facevate anche latino) di tribolazioni umane cadute più o meno regolarmente tra il chiedersi che cazzo fare e il tentativo di essere più ganzi degli altri. Tra l’essenza e la maniera. Questo teatro di operazioni non ha mai smesso di essere lo stesso. Anche ora, qui, adesso. Ma, come il guitto di Rosencrantz e Guildenstern Sono Morti, non posso fornirvi essenza senza maniera, non c’è modo di scollarla da tutto questo eccipiente abbondante che vi tocca sorbirvi.

Se togli la maniera diventa quasi impossibile raccontare una storia, serve comunque una modalità, usare quella più essenziale soggetto-predicato-complemento-punto e a capo non vuole dire togliere del tutto uno stile, una maniera, solo usarne una, e una piuttosto estrema:

Il re è morto.

Amleto vede un fantasma.

Il fantasma è del padre.

Il padre era il re.

Il re è stato ucciso.

ecc. ecc. fino a:

Molti personaggi muoiono nel finale.

«Voi gl’aspettate invan, son tutti morti», diceva il suggeritore, salito sul palco del finale di Rutzvanscad il Giovine, Arcisopratragichissima tragedia di Zaccaria Valaresso, per comunicare che i personaggi erano stati, in effetti, tutti eliminati da questo piano di esistenza. Che son cose che ti arrivano, se come antologia avevi il GuglielminoGrosser e magari poi l’edizione Garzanti delle Operette Morali di Leopardi (non ricordo più in quale dei due fosse spiegato il riferimento), una cosa tira l’altra e la brava gente che ha curato quelle edizioni ti porta sui ballatoi lignei delle biblioteche più belle d’Italia e dentro volumi che non ti saresti mai sognato di andare a sfogliare.

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Il Valaresso era un patrizio, più opportuno usare uno pseudonimo, facile da ricordare, tipo Cattuffio Panchianio, no?

Sapresti una sega te (o io) di Zaccaria Valaresso, altrimenti. E potresti andare a pensare che quello stile tarantiniano l’ha inventato Tarantino. Eh no, ma manco l’ha inventato Valaresso, c’è una linea genealogica che passa per la tragedia elisabettiana e, più all’indietro, alla culla delle idee della Grecia classica. Solo che è intrinsecamente bello seguire il filo di seta delle idee e solo pochi riescono a farlo su più puntate perché tocca studiare per bene e per davvero. Però, a quelli con qualche frammento, non manca la possibilità di puntellarsi nella contemplazione di questa inconsulta realtà. Come Ulisse ci si lega al palo maestro, ma il canto delle sirene è una cacofonia. O, forse, i messaggi sono sempre gli stessi, cambiano gli arrangiamenti, le scenografie, le scelte di tono, ma gli ingredienti restano i medesimi, da che abbiamo memoria come specie.

Non avendo fatto il classico non so se vi propinano l’Edipo a Colono di Sofocle e, se lo fanno, se attirano mai la vostra attenzione su quel passaggio dove il coro dice a chiare lettere che la miglior sorte per l’uomo è non esser mai nato, con, al secondo posto (delle migliori sorti, intendo), il tornare più rapidamente da dove è venuto, perché quando è passata la dolce ala della giovinezza quello che resta non è che fatiche su fatiche, dolori a non finire, discordie, stragi, guerre e dissidi, con un epilogo segnato dalla vecchiaia.

A tale told by an idiot, full of sound and fury, in pratica.

Lo sguardo del dilettante che scrive si appunta su questo: duemilacinquecento anni a dirci sempre la stessa cosa – e, soprattutto, a ignorarla puntualmente, perché non sappiamo cosa farcene di questa consapevolezza. Gli autori sono le nostre avanguardie, o i nostri buffoni, quelli a cui è concesso pronunciare certe parole e toccare certi argomenti perché tanto sono diversi. Non sono noi, la società dei produttivi, dei lavoratori – sono dei perdigiorno drogati e narcisisti che fanno i poseur mentre noi portiamo avanti la vita sana, quella dove si dice «nonostante tutto», quella dove a ogni piè sospinto ci si ricorda e si ricorda agli altri che «la vita vale la pena di essere vissuta», stendendo, più o meno inconsapevolmente, la rete antiscivolo sotto al tappeto perenne della conservazione e della reazione. Molti di noi sanno che sotto al tappeto c’è una botola, non sappiamo dove porta (la direzione promette però di essere infera), ma ce ne guardiamo bene dall’andare a scoprirlo.

E quindi giù a scrivere per millenni sempre dello stesso dramma, a ripercorrere la stessa strada, con abiti diversi, usi diversi, ammennicoli diversi, ma sempre la stessa.

È in questa luce che mi viene da parlare di Annientare, l’opera più recente di Michel Houllebecq.

Così come è vero della storia della letteratura occidentale che non ne ho che una nozione parziale, allo stesso modo di Houellebecq ho sia letto che non letto. Esempi: ho letto Le Particelle Elementari ma non Estensione del Dominio della Lotta, Sottomissione ma non Serotonina, La Possibilità di un’Isola ma non La Mappa e il Territorio, Piattaforma ma non Lanzarote. Un po’ sì, un po’ no. Però non mi è mai sfuggito che Houellebecq stesse parlando dello stesso materiale che preoccupava il coro tragico di Sofocle, esattamente allo stesso livello. Quello di noialtri occidentali che, come anti-falene, facciamo costantemente a capocciate contro l’emittente oscura degli interrogativi essenziali sulla vita, l’universo e tutto il resto. Non abbiamo apparati filosofici o testi guida (tipo il Vijñāna Bhairava Tantra dello shivaismo) per consentirci di abbandonare l’interrogativo e al contempo cogliere livelli essenziali della realtà naturale che non sono né buoni né cattivi ma antecedenti, apprezzandone la pervasività universale, oltre questo io maledetto che crediamo di essere. Tanto per dire, un precetto del tipo «feel your substance: bone, flesh and blood, saturated with cosmic essence, and know supreme bliss» ci risulta completamente alieno, incomprensibile, fricchettonissimo. Quando diciamo che l’abbiamo capito stiamo probabilmente fingendo. Altro che bliss, sentiamo lo schiacciamento L5-S1.

Bhairava - Wikipedia
Quando hai un pantheon elaborato viene meglio la rappresentazione del tremendo. Ma è fricchettona uguale, a noi non ci parla veramente…

Ecco, a Houellebecq mi pare che siano accadute cose che l’hanno portato, in modo coerente, a mettere in scena, costantemente, una propria tragedia percepita (i segni sono innumerevoli e smaccatamente espliciti, talvolta – per dire, la madre dei protagonisti de Le Particelle Elementari ha il cognome della madre di Houellebecq e la stessa storia di madre non più interessata al figlio che lo spedisce a vivere con la nonna) inserita in un quadro sociale e collettivo in cui gli elementi del tragico vanno a incastonarsi, raccontando di qualcosa che è sia molto personale ma anche no. La riduzione drastica della tangibilità delle relazioni nella società digitale, l’eros e il desiderio come fattori saldamente inquadrati nel mercato e nel consumo, incerti sospetti su come la tecnologia possa modificare strutturalmente il concetto di umano, la china discendente delle religioni e della politica, deragliamenti nella follia e nel suicidio, atti di terrorismo, sette improbabili ispirate a vere sette improbabili, tensioni sociali che sfogano nella rivolta o giù di lì.

In Annientare tutto questo più o meno continua a esserci, il materiale è quello, ma molta esacerbazione si è smussata, il bisogno lancinante di urlare o sbattere in faccia qualcosa si è un po’ acquietato – del resto l’enfant terrible ha ormai sessantasei anni – e gran parte dell’indecifrabilità ottusa da cui vengono investiti i protagonisti e il lettore incontrano una lettura più intima, in parte rassegnata, quasi pietista, in parte più stoica, meno lancinante, appunto. Da un certo momento in poi la narrazione si sposta, in modo pressoché esclusivo, sulla vicenda del protagonista, con il suo cancro terminale e il ritrovato amore per la moglie. Fino a un certo punto comparivano grandiosi attentati terroristici, le elezioni politiche del 2027, un padre colpito da ictus con un passato nei servizi segreti, una storia familiare con colpi di scena anche drammatici, uno si sarebbe aspettato chissà quali rivolgimenti. Invece l’attenzione si sposta sulla mortalità via via sempre più certa, non ipotetica, di Paul, il protagonista, e il resto finisce in secondo piano. In qualche misura il quadro che compone Houellebecq è quasi idilliaco: Paul e sua moglie Prudence hanno finito di pagare il mutuo del loro costoso appartamento, lui è in aspettativa (forzata) lei lavora un po’ di meno, già non ricordo più bene, però hanno il tempo e l’agio di trascorrere i mesi finali di lui insieme. Una preparazione che di solito non riesce così bene, perché le risorse materiali mordono il culo e manca sempre qualcosa. Paul ha cinquant’anni e non riesco a evitare di pensare a La Condizione Umana di Malraux. Se per fare un uomo ci vogliono cinquant’anni, di prove, esperienze, errori e altro ancora, e poi non è buono che per morire, Paul non perde tempo, appunto e procede incontro alla propria morte – accompagnato dal lettore. I percorsi narrativi che si sono intessuti fino a circa metà romanzo vengono via via depotenziati fino a venire silenziati. Il mondo va avanti da sé, sai che scoperta. E stai meglio quando riesci a non ascoltarlo, una possibilità che l’esperienza di una malattia mortale offre a chi sa coglierla.

E quindi, un Houellebecq che è sempre lui, ma più misurato, sempre con quella capacità di scrittura che, almeno nella lettura in traduzione, ti fa leggere tutto con attenzione e trasporto. Anche tutti quei rimandi, non si sa quanto provocatori o effettivamente sentiti, a nostalgie reazionarie, la scoperta della predilezione del padre del protagonista per un De Maistre, uno Spengler che salta fuori di qua e di là, con quella insistenza quasi ragazzesca (ma condivisa anche nel mondo reale da tante voci di orientamento destrorso), quel bisogno di andare a trovare padri nobili per quella voglia sempiterna di prendere a calci in faccia lo straniero, il diverso, il sapiente, affidandosi, ma tu pensa, a magisteri feudali e ecclesiastici – e alle loro superfetazioni moderne. L’autore comunica in banda larga il suo disprezzo per l’Islam, sia nelle sue opere che fuori, senza farne troppo mistero (tra l’altro con coincidenze singolari come l’uscita di Sottomissione, avvenuta il 7 gennaio 2015, giorno dell’assalto alla sede di Charlie Hebdo) e, in pari misura, anche se in modo meno virulento, fa professare qua e là ai suoi personaggi forti nostalgie per un passato senza immigrati, senza «alternativi», con la religione a svolgere un ruolo primario da amuleto contro l’angoscia esistenziale.

Tra l’altro Houellebecq è anche sulla copertina del numero del 7 gennaio 2015, con una profezia per il 2022

Ma conviene fermarsi, anche perché uno ha a che fare con un tizio che dice un po’ tutto e il contrario di tutto. Sulla religione? Che è sempre radicata nell’odio, anche se poi viene ricordata con nostalgia. Trump? Uno dei migliori presidenti americani di sempre. I promotori della Brexit? Dei coraggiosi. Cosa vota? Macron, perché è troppo ricco per votare Le Pen o Melénchon. E via e via. E la critica si applica, si dà un gran da fare a tracciare l’identikit del reazionario. Di sicuro l’uomo ci flirta parecchio con certe idee, e lo fa anche attivamente. Non so se sta cercando di célinizzarsi, il sospetto viene. Non ne avrebbe bisogno – dal mio punto di vista potrebbe seguire la strada che traccia Cormac McCarthy rispetto al suo rapporto con i giornalisti: non serve rilasciare interviste, è già tutto nei libri. Houellebecq invece ha sempre fatto di tutto per essere sulla scena, anche quando l’intenzione esplicita era di non esserci o quando, forse, era meglio stare zitto. Come scrive un critico, ci sono poesie di suo pugno che ti fanno passare la voglia di considerarlo una penna infallibile.

È possibile pure che tutto quell’astio dal sapore conservatore, quel vagheggiare una Francia antica, ideale, praticamente «ariana», non globalizzata, non corrotta da un capitalismo che non conosce frontiere, una posizione abbastanza puerile, ancorché diffusa, come sappiamo, provenga da un inveterato e giustificato odio verso quei genitori, la madre hippie e il padre istruttore di sci, evaporati verso esperienze più interessanti quando il figlio ha appena sei anni, mollato alla nonna comunista, della quale prenderà il cognome (un altro che prende il nome dalla nonna…). Non ho elementi per dirne di più e meglio ma forse Houellebecq confonde patria e famiglia, la seconda è ormai sbriciolata, viene semplice rivolgersi a un’idea conservatrice della prima – visto che i sessantottini, essi stessi in parte hippie, l’hanno fottuta. Per taluni è, letteralmente, un profeta della destra. Io non credo che sia così, o meglio, non lo trovo interessante o rilevante, almeno finché non ci si mette d’intento, a scrivere qualcosa di assolutamente fascista e reazionario. Si atteggia, corteggia delle idee, ammicca, ma non sai mai se sta facendo sul serio, se ci crede veramente o se la fascinazione la sta provando solo il personaggio.

In Annientare sono rari i personaggi terribilmente, univocamente negativi, senza appello. Il leit motiv sembra essere quello di una impotenza complessiva, di una storia collettiva che scorre senza potervisi effettivamente connettere, di una storia familiare nella quale raggiungersi è esigenza risvegliata dal dolore più che da altro (anche se non vana o insensata), dove la cosa migliore che si può fare è stare all’interno di questa società capitalista e consumista e estrarne le risorse necessarie per pagarsi conti e sfizi borghesi, ancorché ancora si riesca a desiderarli, e un po’ di sicurezza materiale, prima della dipartita.

Sono combattuto. Il libro mi ha assorbito, la lettura è stata all’insegna di voler proseguire ancora venti minuti, rubando tempo alle ore di sonno notturno, però ho come la sensazione di essermi trovato di fronte sia a vera maestria narrativa che predilezione per le scorciatoie. La storia del ritrovato amore tra Paul e Prudence evoca un sentire positivo, caldo, accogliente – ma quanto è veramente plausibile? Non ho una risposta. Mi viene il sospetto che quella storia porti con sé il rimpianto di qualcosa che forse non è avvenuto nel mondo fuori dalla pagina stampata e che forse viene portato a esistere in quel contesto, probabilmente aggiungendovi, per soprammercato, il sacrificio prospettico del protagonista. La tragedia esige il suo tributo di sangue – la vita ordinaria procede più per logoramento, corrosione e sommessi piagnistei.

Menandro, come sappiamo, avrebbe detto che muore giovane colui che al cielo è caro. Possiamo dirgli che oggi come oggi, a cinquanta sei ancora giovane, quindi, missione compiuta. In più non trascuriamo la rilevanza del fatto che Paul e Prudence avessero finito di pagare quel costosissimo appartamento…

Non so, devo ancora rifletterci su – o magari era troppo tempo che non leggevo un romanzo. Sia come sia, mi è piaciuto, almeno un po’.

Ultimamente la musica ascoltata è rimasta al palo – quella suonata è fatta di esercizi di tecnica e di una sequela di brani scelti solo in base a esigenze didattiche. Metterò su il Requiem di Mozart nell’esecuzione diretta da Solti a Vienna nel ’91, per il bicentenario della morte di Wolfgang Amadeus.

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Michel Houellebecq, Anéantir, edizione italiana Annientare, La Nave di Teseo, 2022, 752 pagine (a occhio in corpo sedici, con pagine a densità di testo a livello Isabella Santacroce, non so se per venire incontro ai problemi di presbiopia del cluster di mercato a cui si rivolge il libro o per esaltare le ansie da mattoncino di certi lettori – l’editore non si è risparmiato, quanto a carta)

W.A. Mozart, Requiem, K626, Sir Georg Solti, Wiener Philarmoniker, Decca (non ne ho ascoltati altri, questo avevo e a questo mi sono affezionato…)

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