[Arrivati al cinquantesimo numero di questa nostra “rivista che non legge nessuno”, se ti dici stufo di due editoriali – uno all’inizio del periodo e l’altro alla fine – firmati sempre da Boris e Paolo, hai proprio ragione.
Anche noi non siamo troppo contenti.
Per questo, abbiamo chiesto ad Arabella di scrivere queste note che, volenti o nolenti, rappresentano sempre il posizionamento di (QUASI) rispetto alla vita e alle narrazioni.]
Mi riesce difficile persino dirlo: il lupo perde il pelo, ma non il vizio.
Prima di tutto, perché il lupo dovrebbe perdere il pelo? Un conto sfilarselo, tipo cappottino, ma perderlo richiede un certo grado di distrazione, che nessun lupo potrebbe permettersi.
E che vizio dovrebbe perdere? La dipendenza da mdma?
Il concetto mi è chiaro, ma la formulazione dell’adagio nel mio cervello labirinto degli specchi suona semplicemente buffo.
La parola vizio, per esempio, credo di non averla mai pronunciata in vita mia. C’è quello zio di mezzo che mi confonde l’accordatura del parlato. Forse perché è una parola che non mi dice niente. Non è come “peccato”, che può scatenare una discussione se pronunciata nel contesto giusto. Non è “brutta abitudine”, così politicamente corretto. Il “vizio” è una roba di mezzo, brutta, riprovevole, ma senza il sistema di riferimento che hanno le altre due.
Fa pensare a una vecchia zia – ci dev’essere qualcosa di ipnotico in quella particella “zio” – che ti dice di smettere di mangiarti le unghie.
Un lupo non può lasciar lì la sua pelliccia per smettere di mangiarsi unghie, senza tra l’altro riuscirci. Non c’è proporzione tra le due cose.
Già il lupo veste d’agnello ha più senzo, almeno non è nudo e rosa. È poco credibile, ma batte il lupo che ha dimenticato il pelo sulla metro.
L’unica espressione che ho sicuramente usato “circolo vizioso”. Un circolo che fa tardi, si spacca di canne, frequenta falliti come lui, poi passano all’eroina e muoiono tutti. Lui accetta Gesù come suo personale salvatore e diventa un “circolo virtuoso”. Suona la chitarra in chiesa e fa volontariato.
Ma cercando di dominarmi, e costruire un saga a puntate sul circolo vizioso, vorrei parlare di pelo e lupi.
Ci sono moltissime favole in cui creature, di solito femmine, almeno all’apparenza, possono entrare e uscire dalla loro pelliccia e hanno accesso sia al mondo umano che a quello naturale. Le Selkies del mondo celtico e norreno, per esempio, che possono essere donne o foche, e di solito nelle fiabe qualcuno ruba la loro pelliccia per intrappolarle e sposarle. Non finisce mai bene. Ci sono le ragazze cigno: stessa storia. C’è qualcuno che vuole inchiodarle per sempre alla loro forma umana, ovviamente glabra e bellissima. Le donne fanno paura. Sono legate al mondo animale in molte fantasie maschili, pericolose e affascinanti, eterne, da privare del loro potere e possedere. Ma appunto, ragazze foca, ragazze cigno, ragazze bestia, alla fine vincono loro, e la pena per l’amante abbandonato è una profondissima solitudine, e il senso della propria finitezza, della vanità del desiderio non ricambiato ma imposto.
Vedo un’ombra di questa paura desiderio nell’ossessione della nostra cultura per la depilazione. Le donne devono esaltare al massimo la caratteristica sessuale secondaria dell’assenza dei peli, compensata dall’abbondanza dei capelli (per cui le vediamo trascinate in tanti dipinti del passato, e non le vediamo in tante case del presente). Soprattutta la depilazione della vagina e del monte di venere, che fa assomigliare le donne a bambine fuori tempo, è una cosa che mi lascia perplessa. Cos’è una figa normale? Troppo adulta? Troppo animalesca? Evoca una foresta in miniatura, in cui un bambino potrebbe perdersi?
La lupa può scegliere di non perdere il pelo, ma di indossarlo, mutando, completando la propria umanità, ritrovando una pienezza perduta, quella di essere immersa nel mondo vivente.
Uno dei miei libri illustrati preferiti è L’incantesimo della lupa, di Clémentine Beauvaise e Antoine Déprez (Terre di mezzo, 2014). È inverno. Fa molto freddo. In un villaggio, un cacciatore uccide una lupacchiotta nera, per fare un cappottino a sua figlia, che immediatamente cade ammalata. Una lupa grigia dagli occhi gialli comincia ad apparire, avvicinandosi ai confini del paese come i lupi non fanno mai. Un giorno al centro del villaggio appare una colomba di ghiaccio, accompagnato da un messaggio: la lupa ha perso la sua unica figlia per mano degli uomini, e se non gliela restituiranno, l’anima della bambina che ha imprigionato nella colomba di ghiaccio si consumerà, a mano a mano che il ghiaccio si scioglie, fino a farla morire. Una figlia per una figlia.
Ma Romane, la bambina protagonista del libro, una underdog senza famiglia, decide di salvare la sua amica ingannando la lupa. Indossa la pelle della lupacchiotta e comincia ad esercitarsi per sembrare una lupa.
La prima volta l’inganno fallisce, e così la seconda. E la colomba di ghiaccio sta tornando acqua, sgocciolando, portandosi via la vita di una bambina.
Ma Romane non si arrende, e ogni notte continua a esercitarsi a essere una lupa, a correre nella neve, a ululare, e piano piano si sente sempre più a suo agio, sente l’eccitazione della foresta, della neve, della propria agilità, degli occhi che si abituano al buio, dei mille rumori che la circondano. E quando per la terza volta, insieme ai suoi amici, si presenta alla lupa, che era «lunga e bella», la lupa la annusa, viso, testa, e dice, dolcemente: «Grazie». Romane è diventata una cucciola di lupo. E quando verrà l’estate si avvicinerà ai campi, dove giocano i suoi amici che la salutano un po’ impauriti, «Io rispondo con un lungo ululato. Poi torno a cacciare nella foresta, insieme a mia madre e al resto della mia famiglia.»
Non è un caso, credo, che il punto di fuga de L’origine del mondo di Gustave Courbet sia proprio la pelliccia della lupa, la foresta cupa e incantata che copre la pelle delicata del pube della donna sdraiata, a gambe aperte, un invito, un memento, la gloria della creazione della vita, del piacere, un luogo segreto.
Resto lupa. Resto mansueta col mondo, e feroce verso la slealtà. Verso chi ferisce il mio branco. Non mi privo di questo brivido segreto, che il mondo sia più di quel che gli occhi, ammaestrati, vedono.
E se anche sono caduta in molte trappole, non ho mai rinunciato alla mia natura selvaggia.
Solo che non la vedete.
Attenti.
Ho voluto parlare di un mondo selvatico ma sono assolutamente favorevole a qualunque tipo di modifica che chiunque possa voler apportare al proprio corpo. Inclusi i face tatoos. Figuriamoci la depilazione!
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.