Un simpatico coglione

Francesco Barilli | Il tradrittore |

Questa rubrica non sempre si è occupata di cose serie, a volte persino drammatiche, come ti ho abituato ultimamente. I primi tempi ho parlato anche d’altro, specie delle mie gaffes. Un esempio puoi trovarlo qui.
Già all’epoca raccontavo che in materia di figuracce ho un master, potrei quasi farci una rubrica autonoma. In quell’arte ho un punto di forza: generalmente non mi fermo alla corbelleria inopportuna che può uscire di bocca a chiunque. Riesco ad aggiungere qualcosa, uno slancio che fa dire agli altri «Questo è un Maestro nelle figure di palta!» e mi fa primeggiare.
Questa, però, è la storia di una volta in cui la figuraccia nacque perfetta: non fu necessario aggiungere nulla. È anche una storia che mi costringe a invertire l’ordine naturale della rubrica, ossia a posticipare il consueto HA DETTO e partire con ciò che mia madre, quel giorno, VOLEVA DIRE. Ossia:

«Figlio mio, sei un simpatico coglione!»


Mi spiego. Non sono quel che si dice un orso, ma tanto tanto socievole non sono. In qualsiasi situazione, generalmente sto in silenzio per i cazzi miei, a meno che il livello alcolico non oltrepassi la soglia della post-sobrietà e si attesti sulla pre-ubriachezza. Insomma, l’essere scostante non è pelo, ma non so se sia proprio un vizio. Altrettanto sicuro è che non lo perdo, per cui mi sa che è proprio vizio.
Però, seguimi, vengo da una famiglia numerosa. Chiaro, si è assottigliata negli anni, come è naturale e non per questo meno doloroso. Mio padre era il decimo di dodici figli. Mia madre la penultima di sei, tra fratelli e sorelle. I pranzi familiari somigliavano a convegni aziendali. Il ristorante, più che per il menù, lo si sceglieva in base alle dimensioni della sala, che doveva essere bella grande. Insomma, non il massimo per uno come me. Destino ha voluto che i parenti, oltre che tanti, fossero dispersi per l’Italia, alcuni pure in Europa. Tutto questo ha diradato quei conclavi familiari, diluendo anche i rapporti, annacquando conoscenze e sentimenti. I pranzi erano segnati via via da un disagio solo in parte temperato dall’etica familiare e da un affetto comunque sincero.

Insomma, non sto parlando di situazioni del genere…

… ma neanche così, intesi?

Veniamo al sodo. Ti parlo di un’occasione fra le ultime in cui erano presenti tutti, o quasi. Sala enorme, dunque. Non bastava una tavolata senza fine, c’erano pure tavoli sparsi.
Non so dirti esattamente l’anno, figuriamoci la data. Ero già adulto e sposato con Maria, forse ancora con un solo figlio. Diciamo suppergiù venti o venticinque anni fa. Parlando di un fatto dell’era prepandemica, va forse spiegato (non senza amara nostalgia) che all’epoca ci si abbracciava e baciava sulle guance senza problemi. Specie fra parenti, almeno noi facevamo così. Il rito pre-abbuffata era una lunga serie di «Oh ciao, zio PincoPallo! Come stai?», e vai con abbraccio e smack smack (doppio bacio, uno per guancia) per tutti i presenti. I cui volti, in parecchi casi, neppure ricordavo. A volte nemmeno i nomi, a dirla tutta.
Fu così anche quella volta. Una cosa (giuro, non ti sto perculando e neppure me la sto tirando) persino faticosa fisicamente. Mi lasciò spossato, ma pure con la piacevole sensazione di un lavoro ben compiuto.

Fu con l’appetito di chi sente la coscienza a posto che tornai al mio posto a tavola, pronto per gli antipasti. Le mie sorelle e Maria sogghignavano. Mia madre pure, ma più contenuta e un’aria sorniona.
«Beh», osservai, «dici sempre che potrei essere più affettuoso con gli zii. Stavolta sono stato bravo, no?»

Fu in quel momento che lei HA DETTO:

«Ah, sì tu stado brào, nò digo gninte: ghe tu basà’ anca quei dee altre tòee!»

Ossia:

«Ah, sei stato bravo, non dico niente: hai baciato anche quelli degli altri tavoli!»

Cosa intendesse te l’ho già detto. Continuo a pensare che gli estranei avrebbero potuto rifiutare il bacio, dicendomi «ma tu chiccazzo sei?!». Ma tutto sommato penso che l’analisi di mia madre sia stata abbastanza precisa…

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