Ammettiamolo, l’incubo di ogni buon gamer che si rispetti sono e restano le famigerate quest chain; o, per i meno avvezzi e i più italofoni, “missioni secondarie”. Se ho appreso qualcosa dalla mia modestissima esperienza videoludica, senz’altro imparagonabile rispetto a posture più esperte, è l’assunto in questione. È vero sì, il mio parere non è certamente accreditabile; mi reputo un giocatore per lo più occasionale (attualmente mi piace definirmi “in congedo”). Tra le esperienze dell’ultimo decennio che hanno, però, contribuito a fortificare questa tesi c’è l’amata trilogia Batman:Arkham targata Rocksteady Studios; una devozione, la mia, per lo più scandita da vezzi cinefili e fumettari, piuttosto che da un’inclinazione pavloviana al controller. E, per tornare alle fatidiche quest chain, va detto che in quell’articolatissima saga un personaggio in particolare ne era l’alfiere inespugnabile: sì, proprio lui, il signor Edward Nygma (per i più, noto come L’Enigmista). Inutile strologarmi nel riesumare i pomeriggi di vita sociale cestinati, nel tentativo di risolvere gli astrusi rompicapi di cui, il nostro, disseminava la caleidoscopica Gotham City dell’action adventure in oggetto (dalle atmosfere sospese, in bilico tra il dark immaginifico di Burton e l’algido rigore di Nolan).
Fino a qualche giorno fa ero avviluppato all’idea che quei giochi fossero gli unici baluardi dell’intermedialità, che avessero saputo maggiormente adattare l’intrigante villain DC; un’antagonista ideato da Bill Finger e Dick Sprang nell’immediato dopoguerra, in una fase di profondo riassestamento della Golden Age fumettistica. In generale, va detto che quei giochi, magnificamente sceneggiati dal maestro Paul Dini, demiurgo fondamentale del Gothamverse anni Novanta, spiccano per la loro fedeltà al canovaccio originale degli albi (resta straordinaria l’abilità nell’aver parcellizzato più trame parallele, senza per questo depotenziare la gravitas della storyline principale). Ebbene, l’Edward Nygma più meritorio, fino a pochi giorni fa, era per me stipato nei margini di quella parentesi interattiva. Ero però in attesa del nuovo The Batman di Matt Reeves. E veniamo a noi.
Primo grande merito dell’attesa pellicola di casa Warner Bros, lo avrete intuito, è nell’aver vivificato una delle controparti meno esplorate dell’iconico Crociato Incappucciato; probabilmente la nemesi più ostica e, non casualmente, di difficile traduzione audiovisiva. Al tempo ci si avventurò l’amico Nolan, su citato. L’idea embrionale di The Dark Knight Rises vedeva infatti un Enigmista impersonato da Leonardo Di Caprio (che ne fosse uscito un Memento cinecomic?); una suggestione, quest’ultima, destinata poi a smarrirsi nei dedali di una scrittura incerta e autocentrata (inutile a dirlo, Bane era l’ideale grimaldello per l’epilogo della saga, come faustamente insegnava Batman n. 497, Il Pipistrello Spezzato, di Doug Moench). Insomma, a fronte di quell’occasione sfumata, è lecito ora parlare di riscatto? Può darsi. Va detto che l’intera impalcatura edificata dall’abile Reeves si regge su fondamenta ben diverse dai suoi predecessori.
Si pensi allo stesso intreccio. Abbiamo un Cavaliere Oscuro neofita; un eroe, anzi, un antieroe in erba. Gran parte della storia si dipana di fatto durante il suo secondo anno di vigilanza su Gotham City. Il costume è ancora acerbo, da collaudare. La maschera è scarna; sembra quasi rabberciata con qualche toppa di cuoio. Per quel che ne sappiamo l’outfit potrebbe essere rivestito nel titanio, è ignifugo e immune ai proiettili; non sempre però sembra rendersi efficace. Il nostro plana a stento. È ancora raro vederlo spericolare in aria, tra le guglie della città. La vertigine sembra, a tratti, avvincerlo quando si trova a tu per tu con l’abisso. Lo sguardo febbrile, acuito dal trucco corvino, ricorda Brandon Lee e Kurt Cobain, la cui voce accompagna l’incipit in uno dei brani migliori dei Nirvana. È un Batman forse ancora impressionabile; paventa la stessa ombra nella quale è immerso. Teme che possa subissarlo, fino a non saperla più domare.
In una megalopoli immancabilmente plumbea dove, come in una San Francisco di Philip K. Dick, la pioggia ottunde ogni sguardo (non c’è piano che non sembri costantemente filtrato da vetri opachi), si staglia in cielo un segnale. Quel segnale che, come chiosa il Giustiziere nel voice-over introduttivo: «È un richiamo, ma è anche un avvertimento». Il Cavaliere della Notte, di cui tanto si parla ormai, potrebbe figurare da ogni pertugio; dagli interstizi più bui che meno sospettiamo. Può trasalire dalle tenebre come l’incubo più sopito dall’inconscio. E se non ne percepiamo la presenza, possiamo udire in lontananza il ruggito selvaggio del suo veicolo; una macchina che è più una creatura ancestrale, come il destriero del cavaliere senza testa di Sleepy Hollow. Per intenderci, parliamo della migliore Batmobile cinematografica post-Burton; un design eclettico figlio di due spunti d’eccezione: la temibile Pymouth Fury di Christine – la macchina infernale di Stephen King (riferimento apertamente dichiarato da Reeves) e l’inimitabile calco di Neal Adams, tra i disegnatori più dirimenti della DC della Silver Age. Altresì inimitabile fu la sua Batmobile: slanciata, sportiva e, al contempo, sfarzosa, vagamente richiamante la E-Type di Diabolik (non a caso parliamo di vetture coeve).
Ammetto che quando, in gioventù, recuperai le avventure illustrate da Adams, alcune delle quali memorabili (La vendetta in cinque atti del Joker! non ha certo bisogno di presentazioni), faticai non poco ad apprezzarne la foggia. All’epoca ero abbacinato dall’art déco di Bruce Timm degli albi contemporanei e della parallela serie cult animata (1992); mi riusciva quindi difficile accogliere quel tono retrò, dozzinale e ai miei occhi poco pertinente al caratteristico Batman imperioso degli anni Novanta. La sgargiante Batmobile di Adams raccontava in effetti un altro personaggio: più intuitivo, sillogizzante, sagace; insomma, un detective, un atipico Holmes in calzamaglia con a fianco un altrettanto anomalo Robin-Watson (lo stesso che, alcuni anni prima, Adam West scimmiottava con delle improbabili pose cogitanti alla: «mumble mumble»). Quell’automobile era il contrassegno di una tendenza ben specifica; quell’estetica posticcia, da me tanto bistrattata, negli anni Settanta era manifestamente debitrice del registro spionistico e del detection story.
Ecco, il film di Reeves pare proprio accodarsi a quel filone: Si presenta a tutti gli effetti come un detection movie; un thriller che ha per teatro una Gotham irretita da omicidi, collusioni e malaffare (tra loro annodati a doppio filo): «È una polveriera» sentenzia il sergente Gordon: «E l’Enigmista è la miccia». Attorno a questa spirale fraudolenta turbinano più attori; c’è chi ne è dentro in punta di piedi, e chi invece ne è più defilato: due gang criminali, le famiglie Falcone e Maroni (sempiterno lascito di Batman:Anno Uno di Miller), Oswald Cobblepot, aka Il Pinguino, e Selina Kyle, nota su ampia scala come Catwoman (sebbene lo pseudonimo non venga quasi mai esplicitato, se non per saltuarie allusioni un po’ didascaliche: «Il pipistrello e la gatta, suona bene»). E a proposito dell’anzidetto Batman: Anno Uno, ne approfitto per una postilla: Se avessi un nichelino per ogni cineasta che ventilava come base d’ispirazione per il suo Batman filmico l’opera di Miller, a quest’ora anch’io potevo permettermi un Batwing (come minimo). Batman Begins ne aveva emulato ottimamente diverse sequenze, una in particolare antologica (quella in cui il Cavaliere di Gotham raggira da solo l’incursione di una squadra Swat). Penso comunque che, a oggi, un solo film abbia saputo graficamente renderne giustizia: il capolavoro Batman – La maschera del fantasma (1993) di Eric Radomski e Bruce Timm (asserzione quest’ultima che, voglio precisare, a fronte delle considerazioni declamate su Timm qualche rigo sopra, non è affatto faziosa).
Intendiamoci, anche la pellicola di Reeves traligna non poco dal concept originale di Miller. Ciononostante non mancano i rimandi e le consonanze. Una fra queste, probabilmente la più puntuale, risiede nella caratterizzazione di Selina Kyle/Catwoman. In Anno Uno la dark lady DC non era affatto una ladra galante dai fini melliflui e doppiogiochisti (tipici del taglio misogino conferitole da Kane negli esordi su carta); era al contrario una outcast subalterna; un’orfana sottoproletaria (di gran lunga meno privilegiata di chi, da piccolo, al netto del terribile omicidio dei propri genitori sul retro di un cinema, si trovava comunque a ereditare un patrimonio milionario). Cresciuta negli antri malfamati di Gotham, e stretta nel giogo dello spaccio e della prostituzione minorile, Selina si apprestava a diventare una scaltra fuorilegge, più per etica, che per necessità. Nella disobbedienza civile trovava la vera via dell’affrancamento. Senza scadere nel mero citazionismo, Reeves è l’unico a oggi ad aver davvero tastato quel mood. Penso non sia un caso se l’effusione tra la Donna-Felino e il Cavaliere della Notte goda qui di un piglio abbastanza credibile, sebbene rimanga inscalfibile l’impronta de Batman – il Ritorno. Al tempo fu grande l’intuizione, squisitamente burtoniana, di sfruttare il potenziale freak dei due antieroi come collante del loro amor fou. Su come Nolan traspose la coppia vorrei dir poco, francamente (temo debba ancora riprendermi dal Fernet Branca decantato da Alfred). Reeves ha comunque saputo sapientemente intercettare criticità e sintonie di una delle coppie più dannate dell’action fumettistico (se non fosse che alcuni virtuosismi visivi e di scrittura per lo più effimeri).
Difficile sbilanciarsi allo stesso modo su Osy (nomignolo con cui viene vezzeggiato Il Pinguino nella pellicola). Il lettore borioso ed egoriferito interno a me, fortunatamente segregato in una regione subconscia molto molto remota, non avrebbe disdegnato più audacia. In alcune rivisitazioni biografiche degli albi, Il Pinguino ereditava dai facoltosi Cobblepot, suoi cari, il livore verso un’altra tra le famiglie più influenti di Gotham: Sì, proprio loro, i Wayne. In Batman Terra Uno Vol. 1 di Geoff Johns e Gary Frank, una delle versioni più eterodosse del villain, Oswald era arrivato addirittura a contendersi la fascia di sindaco con Thomas Wayne. La campagna elettorale non era stata esente da colpi bassi; tanto che il successivo omicidio dell’illustre benefattore fece acuire i sospetti sul suo avversario. Anni dopo, Bruce Wayne avrebbe vestito i panni di un sinistro giustiziere notturno per risalire all’identità del responsabile. No, il Cobblepot di Colin Farrel risponde a un altro spirito. Come negli adattamenti più noti ricopre il ruolo di gangster gregario. Sì, lo so, forse questa smania schifiltosa lascia il tempo che trova. Ora che tra l’altro è stata annunciata la serie stand-alone HBO Max, dedicata a Osy, sarà curioso vedere come l’arco narrativo andrà a diramarsi (che non si insceni la graduale ascesa al potere criminale del nostro simil-anfibio?).
A dispetto di qualsivoglia disinganno, Reeves dimostra di orchestrare la materia trattata; non dubito che albi come l’anzidetto Batman Terra Uno possano aver influito a plasmare l’immaginario Gothamiano proposto. Del resto, anche nel suo film, troviamo a sorpresa un Thomas Wayne dalle ambizioni politiche. L’Enigmista, come la Selina di Miller, e lo stesso Batman, è un outcast; un vendicatore ‘irregolare’ che sfrutta il potere del social per reclutare accoliti dell’anti-establishment. Una sfumatura, quest’ultima, in linea a una tendenza ormai invalsa; alludo al paradigma del ‘villain demagogo’ (si pensi alla relazione tra il Joker di Todd Phillips e il tilt semiologico siglato dai broadcast televisivi anni Ottanta, di cui Sidney Lumet aveva vaticinato la complessità in Quinto Potere). Elemento di demarcazione dell’impresa di Reeves è però nella natura propiziatoria del suo antieroe, ben resa dalla sua stessa titolazione. l’articolo “The” richiama esplicitamente i primordi editoriali della prole di Kane, in cui veniva nominato con la locuzione integrale de “L’Uomo Pipistrello”.
In un passaggio di Wonder Woman: Un’amazzone tra noi, mi sono biecamente allineato allo stuolo dei moderni profanatori di Nietzsche. Raffronto infatti un acclamato esergo de Al di là del bene e del male alla graphic-novel Batman: Nöel del grande Lee Bermejo: «Se guarderai a lungo nell’abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te»; frase a cui sembrava far eco un passaggio del fumetto su citato: «The darkness of the world had forced him into the shadow, and the only way to combat the monsters was to become one himslef». Questa bizzarra sinapsi è parte di un corposo paragrafo in cui ho cercato succintamente di delineare gli eroi (e antieroi) nichilisti, contestuali alla stagione revisionistica anni Ottanta (Moore, Wolfman e Miller ne sono stati i principali cantori). Incredibile a dirsi, Reeves sembra volersi smarcare da quella tradizione: come accennato, il suo Giustiziere Alato pare, al contrario, ridiscutere la sua stessa morale vendicativa. Rattrappirsi nell’oscurità può aiutare, ma forse non è abbastanza, specie se si vuole profondere speranza. Difficile solcare un sentiero verso la luce, se si è garanti soltanto dell’ombra (un’osmosi neanche troppo allegorica, viste alcune scelte grafiche del film). Non dubito che una rilettura così incendiaria, per la fanbase più rissosa, possa tranquillamente rivelarsi un vile affronto (quasi a prova di Biochetasi). Nulla di più distante, d’altronde, dal doppio crinale nel quale continua oggi a navigare il mainstream supereroistico. Se da una parte non mancano guizzi iconoclasti, dall’altro vanno riconosciuti i continui ammiccamenti a un mondo tristemente fidelizzato (verrà il giorno in cui i cinecomics torneranno a mitigare la loro durata? Salvo saltuarie eccezioni, mi verrebbe da propalare un hashtag: #ICinecomicsNonSonoPeplum).
Ammetto che, seppur tenui, queste spinte contro-narrative trovano ancora il mio consenso. L’anzidetto Joker di Phillips ha smosso per primo questa nuova compagine; si pensi alla decostruzione della Wayne Family. In un dialogo tra Arthur Fleck e Thomas Wayne, dai toni vagamente affini a una sequenza cult di Shining, si scopre la torbida essenza di quel magnate sedicente filantropo, tanto celebrato. Resta spontaneo un interrogativo (che avallerei come cliffhanger per successive analisi): al netto di questo afflato rinnovatore negli script, è però possibile inneggiare convintamente a un’originalità di stile?