(ovvero: come inaspettatamente e innocentemente inizia la fascistizzazione della narrazione supereroistica USA)
Col tempismo degno di una tartaruga che risponde allo sparo dello starter, ti parlo di un fumetto e di un film che hanno fatto parecchio rumore, ormai anni fa, e di cui oggi si ricordano in pochi. Che di acqua ne è passata sotto i ponti dal maggio 2006 (primo numero della miniserie) e dal 2016 (film di grande successo al botteghino). È passata acqua, assieme a fatti e tragedie e fumetti e film. Una pandemia che adesso non è ancora storia lascia la cronaca a una guerra che, mentre scrivo, confonde e atterrisce. Così il mondo di Civil War, quello fittizio come quello reale, oggi sembra lontano quanto un altro sistema stellare. E la mia riflessione può sembrare altrettanto lontana, ma non per questo è meno attuale…
Prima di iniziare, alcune note pratiche, per non peccare di poca serietà filologica. Civil War è una serie di 7 episodi (più vari tie-in, con conseguenze su tutte le testate) scritta da Mark Millar e disegnata da Steve McNiven, pubblicata dalla Marvel Comics da maggio 2006 a febbraio 2007. In Italia è uscita in tutte le salse, ma io ti parlo della prima edizione, 7 albi Panini Comics nella collana ombrello “Marvel Miniserie” a partire da marzo 2007.
Svolto il compitino enciclopedico posso partire, cominciando dalla realtà diegetica del fumetto.
La fiducia che la popolazione statunitense ripone nei supereroi è al minimo storico, in seguito ad avvenimenti narrati in Avengers Disassembled, House of M e Decimation. Una tragedia descritta in CW 1, avvenuta anche per la sventatezza dei New Warriors, fa esplodere la reazione rabbiosa della società americana, che spinge il governo ad accelerare e inasprire misure già da tempo allo studio. Per prima cosa un atto di registrazione degli eroi mascherati: ogni individuo dotato di superpoteri dovrà rivelare al governo la sua identità segreta e proseguire la propria attività sotto controllo politico. Già questo è un evidente riferimento alla società reale, in anni in cui in nome di una crescente ansia di sicurezza vengono limitate le libertà individuali. Ma restiamo al mondo delle nuvolette. Gli eroi si dividono in due fazioni, senza possibili mediazioni. Chi accetterà la supervisione governativa sarà legittimato, gli altri passeranno allo status di illegalità, con tutte le conseguenze del caso.
Ora, se non si vuole scrivere la solita storia di supereroi basata su “buoni contro cattivi” e dare, invece, un taglio più adulto, il tema del rapporto tra superpoteri e potere istituzionale è imprescindibile. L’ha fatto Alan Moore in Watchmen, Frank Miller nel Dark Knight Return, pure la Disney sul grande schermo con Gli Incredibili, in un elenco per nulla esaustivo. E Civil War fin dalle prime battute si dimostra coraggiosa dal punto di vista editoriale, perché il conflitto viene calato in un mondo consolidato e in modo devastante. La frase «dopo questa saga nulla potrà essere come prima» appare diversa dalla solita promessa acchiappa-lettori. Non è cosa da poco nell’universo narrativo Marvel, in cui buona parte della formula seriale sta nel far balenare al massimo un’illusione di cambiamento, per tornare poi in fretta allo status quo.
Insomma, ci troviamo davanti a una storia intrigante e narrata con buon ritmo, un crossover compatto e coerente. C’è tensione e un senso di smarrimento nei personaggi, che si trovano davvero a ridiscutere la loro presenza nella società in relazione alla percezione che la stessa ha di loro. Millar è bravo, più asciutto e meno eccessivo che in altri lavori, e McNiven è efficacissimo, con una menzione particolare per l’intera scena della fuga di Capitan America dopo lo scontro con gli uomini dello Shield.
Abbiamo due fazioni, insomma. E Millar è piuttosto attento a mettere dalla parte dei filogovernativi non solo Stark, in origine miliardario, costruttore di armi, ma pure Reed Richards, geniaccio che non ha mai sprizzato simpatia o empatia. Uno che in passato ha usato un cannone sparabubbole (non saprei come definirlo) per spegnere il cervello del proprio figlio, figurati! L’ha fatto per evitare un disastro, ok, però anche meno, dai…
Fai un tuffo nel passato in “Fantastic Four” vol.1 n. 141 (“Fantastici Quattro” n.139, Corno):
Vabbè, poi col tempo la mente di Franklin si è riaccesa… Torniamo a CW, non perderti nei miei incisi. Volevo dirti che già nel primo numero Reed appare scostante verso Sue, ma soprattutto totalmente insensibile, considerando che Johnny, fratello di Susan, è in coma proprio a causa di un episodio di violenza contro i super-esseri. La Torcia Umana è stata assalita da una folla inferocita che lo ha pestato come un tamburo. Insomma, esattamente come in “FF” 141 l’iper-pragmatismo di Reed lo rende anaffettivo. Esattamente come in quella vecchia storia, anche in CW si arriva alla rottura della coppia più famosa e solida dell’universo Marvel. Si ricomporrà, si ricomporrà, tranquillo…
Se nei primi numeri lo scontro tra le due fazioni può essere riassunto in una dicotomia in cui appare chiara la parte scelta da Millar, andando avanti nella miniserie appaiono delinearsi ambiguità e distorsioni ideali di entrambe le fazioni. Se fino a un certo punto la saga poteva riassumersi in uno scontro tra la parte di Iron Man (reazionaria, seppure guidata da intenti positivi) e quella guidata da Capitan America (più attenta alle libertà personali) lentamente entrambe le squadre prendono decisioni discutibili, inasprendo ulteriormente il proprio approccio verso il conflitto.
Certo, il cuore di Millar continua a battere per la fazione di Cap. Il progetto di Tony e Reed di sbattere gli eroi dissidenti in un supercarcere nella zona negativa rende evidente, e neppure troppo metaforica, la critica ai sistemi di detenzione stabiliti dagli USA, specie quando riservati a soggetti “speciali”: supereroi non registrati, nella finzione; combattenti non riconosciuti finiti a Guantanamo, nella realtà. Nel quarto numero l’evento più grave è l’omicidio di Bill Foster, Golia Nero, da parte dei “registrati”. Anche la scelta di reclutare dei criminali fra le fila di Iron Man e Mr Fantastic fa pendere la bilancia dei torti verso quella fazione. Però, nella scena dello stesso episodio che ritrae gli eroi ribelli nella loro base segreta, Millar ci mostra un Capitan America duro e cinico come non lo si era mai visto, gli occhi spiritati, dispotico verso i suoi alleati, accecato dai suoi stessi ideali.
«La guerra abbrutisce sempre e comunque, al di là di torti e ragioni» sembra dirci Millar. Una riflessione ancora più attuale oggi, quando illustri commentatori indossano l’elmetto e cercano di convincerti che la complessità è cosa superata o inadatta in tempi di guerra. Schierati anche tu contro il Male Assoluto, cosa aspetti!
Procediamo nella saga, sarà meglio.
Numero dopo numero, matura lo scontro definitivo fra le due correnti, che al termine del n. 6 si fronteggiano al gran completo in attesa della battaglia finale. Particolarmente significative sono le modalità con cui s’innesca l’ultimo confronto. Cap sa di avere nel suo gruppo la doppiogiochista Tigra, mentre Iron Man non sa che nel proprio drappello Hulkling ha sostituito il Calabrone. Insomma, entrambi i contendenti utilizzano il tradimento verso l’altra squadra, quasi a far capire al lettore che i rapporti si sono talmente deteriorati da cancellare anche l’ultima goccia di rispetto verso avversari che un tempo erano alleati. Ma l’intento di Millar va oltre. Lui vuole farti capire che quelle distorsioni dell’animo TU le vedi solo ora, ma dentro quegli eroi sono sempre esistite. Tony Stark è DA SEMPRE arrogante e segnato dal senso di superiorità; Reed Richards confida DA SEMPRE nella propria razionalità, a costo di ritenerla assoluta, e come ti ho detto non è la prima volta che questa attitudine lo lascia isolato nella sua famiglia e nel suo gruppo; Steve Rogers è DA SEMPRE un idealista che potrebbe anteporre l’ortodossia del proprio idealismo ad altre considerazioni.
Tutte queste inclinazioni in Civil War sono esasperate. Quasi stemperano momenti che sono entrati nell’immaginario di ogni Marvel Fan come da tempo non succedeva. Penso a Peter Parker che rivela la sua identità in conferenza stampa…
… fino al confronto finale fra Iron Man e Capitan America.
Non so se ora ti aspetti un giudizio finale sul fumetto o un confronto col film. Credo entrambi. Farò entrambi, ma dovrai avere pazienza. Fatti un prosecco e mettiti comodo, la faccenda si è fatta lunga. Del film ti parlerò nella seconda parte, fra qualche giorno.
Civil War (il fumetto, dico) è una storia non bella, non brutta, e nemmeno mediocre.
Non è bella perché, al di là di un punto di partenza interessantissimo, risente di troppi accumuli. Alcuni personaggi forzati; altri che appaiono perché devono apparire, ma si limitano a un cameo neppure troppo riuscito o a fare da tappezzeria; alcuni dialoghi e rapporti interpersonali affrettati e sbrigativi. L’atto conclusivo è discutibile. Una scazzottata in cui i due eroi simbolo delle diverse e antitetiche posizioni verso il “Registration Act” finiscono, manco a dirlo, col fronteggiarsi direttamente. Tutto è prevedibile e scontato fino all’epilogo, con la vittoria di Iron Man (meglio: la resa di Cap). E se è vero che il confronto finale fra Capitan America e Iron Man doveva avere un valore simbolico, è pure vero che anche questo finisce annacquato nella spettacolarizzazione gratuita, nella ricerca del “botto” che deve regalare l’effetto speciale.
Certo, la lettura dei vari tie-in solleva il livello qualitativo, creando un affresco coerente dell’universo Marvel come da tempo non si vedeva, approfondendo a dovere talune scelte apparse frettolose nella trama principale. Un esempio lo puoi vedere nello speciale Civil War: vittime di guerra, che propone un duro faccia a faccia fra Tony Stark e Steve Rogers, precedente la conclusione della saga.
Questo albo si basa, oltre che sul serrato confronto fra i due personaggi, su una carrellata retrospettiva delle occasioni in cui Capitan America e Iron Man si erano già trovati in contrasto. Uno sguardo al passato forse ingenuo, ma importante dal punto di vista filologico e comunque ben costruito. Questo estremo tentativo di comporre la frattura fra i due eroi più rappresentativi delle fazioni in lotta appare una ragionevole pezza messa su uno degli aspetti più controversi dell’intera guerra civile: il precipitare degli eventi troppo repentino e privo di tentativi di dialogo, fra personaggi che vantavano rapporti di collaborazione e amicizia di lunga data.
Però, se ricordi, io ho detto: «non brutta e nemmeno mediocre». Perché la maxi-serie centra egregiamente l’obbiettivo principale, proietta il mondo Marvel nella contemporaneità post 11 settembre con un approccio il più possibile realistico, ferma restando la sospensione dell’incredulità propria del fumetto supereroistico. L’America fittizia dell’Uomo Ragno ha fatto i conti con le tensioni, le paure, le contraddizioni, le forzature del “suo” 11 settembre e le ferite non si rimargineranno facilmente. Se il carcere speciale nella zona negativa richiama Guantanamo, il “Superhuman Registration Act” è chiaro riferimento al “Patriot Act”. Analogo, nella realtà e nel mondo Marvel, è il senso di paura e insicurezza che domina l’opinione pubblica. E non è un caso se l’Uomo Ragno, il personaggio più rappresentativo dell’universo Marvel e contemporaneamente icona dell’americano medio, finisce disorientato fra le due fazioni, incerto fra diverse moralità che lo sballottano fra repentini cambi di campo.
Ma il messaggio di Millar, nel fumetto, resta chiaro. Molti personaggi sono coinvolti nella guerra civile supereroistica e quasi tutti compiono decisioni discutibili. Uno solo, però, ne esce rafforzato in termini di potere. Tony Stark/Iron Man diventa Direttore dello Shield, nemmeno scalfito da pallide accuse sugli indiscutibili soprusi commessi. Primo fra tutti, la deportazione di eroi che, fino a poche settimane prima, si erano distinti nel salvare il mondo.
La saga, insomma, si chiude con amarezza, con una vittoria del cinico pragmatismo sull’idealismo. Siamo ancora lontani da quella fascistizzazione che ti ho promesso nel titolo e di cui ti dimostrerò l’rvidenza se mi seguirai nella prossima puntata.
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.