Nino è nato nel 1968. Ha «le scarpette di gomma dura, dodici anni e il cuore pieno di paura». Strano, visto che quando sento questa canzone per la prima volta è l’estate del 1982 (Titanic era appena uscito e girava sullo stereo di mio padre) e io, che sono nato come Nino nel 1968, di anni ne ho quattordici. Questo paradosso temporale lo svelerò anni dopo, quando comincio a leggere riviste musicali e in un’intervista scopro che Francesco De Gregori aveva scritto La leva calcistica della classe ‘68, nel 1980. Quello che conta è che sta per cominciare il Mondiale e questa canzone sembra messa lì proprio apposta, una dannata metafora proprio come il calcio.
Non è solo il fatto che Nino, pur essendo nato il mio stesso anno, nel 1982 ne ha due di meno. Il fatto è che il 1982 è un anno davvero strano e paradossale. Come ti ho già detto nell’editoriale, è una specie di soglia. Mia Martini vince al festival di Sanremo il premio della critica (istituito per la prima volta proprio quell’anno), con questa canzone, prodotta da Ivano Fossati, ed è come se ci tuffassimo all’indietro, nel decennio precedente.
Poi, sempre scritta e prodotta da Fossati, ad accompagnare la mia (e la tua e quella di Nino) estate è questa canzone qui, che invece è un pezzo tutto anni Ottanta: quasi un reggae gainsbourghiano o clashista (Aux armes et cætera e Sandinista, i due album che insegneranno a tutti i musicisti europei ad usare nelle loro canzoni i ritmi giamacaini, sono rispettivamente del ‘79 e dell’80). Loredana Bertè nel 1982 di anni ne ha trentadue. Ma mentre canta Non sono una signora a me sembra esattamente un’adolescente incazzata come me. Me ne innamoro. Per sempre.
Restando sul tema della paradossalità del 1982, io non so se te lo ricordi questo tormentone superdance, retaggio dei Settanta, dei tedeschi Trio che andava di brutto nell’82.
Ecco, magari non ti ricordi nemmeno la cover che ne fecero Paolo Paltrinieri, Lorenzo Canovi e Romeo Corpetti subito dopo il trionfo azzurro ai mondiali. A me piaceva tantissimo questa parodia, dopo che gliene avevamo suonate 3 a 1, e ho perso il conto delle volte che l’ho messa nel jukebox.
Nel jukebox mettevo un sacco anche questa:
Dice che era un pezzo punk rock. Mah! Non mi convince, ma era un tipo di pop molto di moda quell’anno.
Il punk però era altra roba. Non è durato un cazzo, il punk, se ci pensi. Never Mind the Bollock è del 1977, ma Unknow Pleasure, che chiude l’esperienza è del 1979. E a questo proposito, lo sai che i New Order (eredi direttissimi dei Joy Division) composero la canzone ufficiale dell’Inghilterra per i mondiali del 1990 (vinti paradossalmente dalla Germania)?
Poi, anche i Francesi avevano la loro canzone per il mondiale di Spagna, ma nonostante Dalida, mica regge il confronto con Da da da; sembra un pezzo vecchissimo già in quell’anno, non sei d’accordo?
Per restare ai francesi molto meglio questa di Miossec, ma qui di acqua ne è passata (più di dieci anni) e siamo in piena post-modernità.
Certo, il meglio i francesi lo danno con l’hip hop. Ad esempio, questo pezzo di Vegedream, scritto per i Bleus durante i mondiali del 2018, mi piace molto.
Comunque, per tornare alla postmodernità, di cui anche l’hip hop francese delle nuove generazioni è figlio, per noi era cominciata sempre in quello strano Festival di Sanremo del 1982, quando Vasco Rossi, cantore (almeno da Non siamo mica gli americani , 1979, fino a Cosa succede in città, 1985) della differance se ne andò via mettendosi il microfono in tasca. Figura portante del postmoderno, formulata da Jacques Derrida, la differance serve per raccogliere in un’unica parola i due diversi significati di differire (cioè l’essere diverso e il rinviare).
I passi di Vasco, lo vedi, sono dettati dall’incertezza e dall’improvvisazione. Un vago sentire di quello che va fatto. Ben altri passi, misurati e organizzati fin nel dettaglio chiuderanno l’anno, e apriranno la nuova epoca. Quelli mossi da Michael Jackson nella canzone (e nel disco, va da sè) più postmoderna di sempre. Un gioiello che ha cambiato la nostra percezione della musica: Thriller.
Quello che siamo, lo dobbiamo – volenti o nolenti, nel bene e soprattutto nel male- a Paolo Rossi, a Enzo Bearzot, a Michael Jackson e a Quincy Jones.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.