Jean-Paul Sartre muore il 15 aprile del 1980. A giugno avrebbe compiuto 75 anni, ed è straordinario come il suo corpo, minato dall’abuso di alcol, tabacco, anfetamine, ansiolitici e di un farmaco, il corydrane, che gli erano necessari a reggere i ritmi della sua iperattività letteraria e politica e della sua frenesia sessuale, abbia resistito comunque così a lungo. Molte rockstar, ammantate della stessa trasgressività, sono cadute ben prima.
Insomma. Non essendo scomparso nel fiore degli anni come un Jim Morrison della filosofia, gli toccarono almeno vent’anni (dal 1960 al 1980) di lento e progressivo declino fisico. Anche la sua influenza culturale segue, proprio in quegli anni, il decadimento fisico, progressivamente sostituito da nuove figure intellettuali che avevano ben altra presa sulle giovani generazioni: Michel Foucault, Guy Debord, Gilles Deleuze. L’ultima grande opera letteraria la pubblica nel 1964. Un’autobiografia della propria infanzia in cui la scrittura raggiunge punte di rara bellezza e raffinata ironia. La sua riflessione filosofica invece, dopo due testi imprescindibili come L’immaginario (1940) e L’essere e il nulla (1943) che rivoluzionarono l’ontologia occidentale, si richiude su se stessa in un inconcluso tentativo di conciliare marxismo e libertà reinterpretando Marx alla luce dell’anarchismo. Tentativo oltremodo originale ma al quale Sartre non riesce a dare una quadratura convincente. La pubblicazione postuma di L’intelligibilità della storia sta lì, a dimostrare il suo, tutto sommato grandioso, fallimento. Mi sento però di affermare che il principio di questa riflessione, cominciata con la pubblicazione, nel 1960, dell’altro (oltre ai due che già ti ho detto) dei testi filosofici di Sartre (Critica della Ragione Dialettica) che non puoi non aver letto se vuoi capire qualcosa dell’eterno presente in cui, dalla fine degli anni Settanta, si agita il nostro immaginario, fu davvero deflagrante.
Lo scudetto della serie A italiana 2009-2010 fu combattuto fino all’ultima giornata. L’Inter lo vinse con due soli punti di distacco dalla Roma, che a causa di una sconfitta inflittale dalla Sampdoria alla 35° giornata, non riuscì a mantenere il vantaggio di 1 punto che aveva guadagnato la domenica precedente grazie a una splendida vittoria sulla Lazio. Non so se te lo ricordi, ma la schermaglia settimanale tra Claudio Ranieri, allenatore della Roma, e Josè Mourinho, allenatore dell’Inter, era decisamente esilarante. Uno dei miei moneti preferiti della settimana. Non sono sicuro di che giornata fosse, forse proprio l’ultima, quando, in risposta a Ranieri che si diceva annoiato dal tecnico portoghese, Mourinho rispose: «la noia di Ranieri? Che cos’è la noia di Ranieri? Ho studiato e conosco solo quella di Jean-Paul Sartre, filosofo, premio nobel e grande appassionato di calcio». Mi sembra ovvio che Mourinho a proposito di noia confondesse Sarte con Alberto Moravia. Oltre ad averla scritta, La Noia, Moravia era profondamente annoiato dal calcio e ne aveva un’idea da intellettuale snob considerandolo: «un mezzo utile a distrarre i giovani dalla contestazione, a tenere buoni i lavoratori». Però su una cosa Mourinho aveva ragione. Sartre era un grande appassionato di calcio e ne aveva una visione che andava ben oltre quella superficialmente epica degli scrittori sudamericani (come Eduardo Galeano o Osvaldo Soriano) o a quella altrettanto superficiale, ma ammantata di antropologismo, di Pier Paolo Pasolini.
Per Sartre, che non firmava moravianamente appelli per il popolo, arricciando il naso perché il popolo puzza e gli piace il calcio, e senza muovere il culo dalla propria villa di Sabaudia, ma che la contestazione degli studenti e le lotte degli operai le aveva generosamente condivise e partecipate, il calcio non era tanto, come gli è stato messo in bocca (deve essere una roba tipo la citazione di Voltaire, sul dare la vita per difendere la tua libertà di dire cazzate) con una citazione che io non ho trovato da nessuna parte, «una metafora della vita», quanto piuttosto un laboratorio per studiare e comprendere le dinamiche che strutturano le società umane. Ecco. Questo Sartre lo dice, in modo straordinario (non dimenticarti mai che oltre a un filosofo era un grandissimo scrittore, e nessuna sua riga ti annoia mai) e con una chiarezza cristallina (Sartre non è Hegel, non puoi addurre la scusa che non si capisce un cazzo di quello che scrive per non leggerlo) nella Critica della Ragione Dialettica.
Piccolo inciso: se Il Saggiatore non ce ne dà, colpevolmente, una riedizione dal 1963, non è che Gallimard si comporti molto meglio, non ristampandola dal 1985.
Nell’estate del 1982 avevo 14 anni, avevo chiuso il ciclo delle medie e passavo le vacanze, come sempre, a Sestri Levante. Del calcio non me ne fregava niente, almeno così dicevo, ma mica era vero. È che a giocarci ero una vera sega, e in quel rito sadico che durante la ricreazione divideva gli elementi maschili della classe in due fazioni, di cui i due maschietti più alfa degli altri facevano le squadre, non venivo mai scelto se non per esclusione. La mia indifferenza nasceva dalla mia incapacità. La sera dell’11 luglio però è successo qualcosa che ha cambiato quella mia indifferenza nell’interesse di uno spettatore. Quello che so fare meglio e che faccio da tutta la vita: leggere e guardare.
Niente di sartriano, allora. Lo diventai dopo. Era successo che dopo la vittoria dell’Italia sulla Germania per 3 a 1, era scoppiata una festa incredibile e quello che mi ricordo con maggior vividezza è che si finì tutti, senza distinzione di classe, di età e di sesso, a fare il bagno nudi nella Baia del Silenzio. Quella cosa lì, non dico che mi ha fatto amare il calcio (negli anni successivi, quelli del liceo, essere una mezza sega a giocarlo, essere una mezza sega in ogni sport, è stato ancora più doloroso, sia dal punto di vista della mia collocazione sociale – gliene fregava un cazzo a nessuno, al liceo, delle mie performance intellettuali in letture critiche ardite di film e canzoni – sia dal punto di vista del successo sessuale… non erano più gli anni Settanta, con Sartre e Camus mica si scopava, dovevi essere un emulo di Platini, di Rumenigge, di Gullit o di Van Basten) ma di sicuro me ne ha fatto intravvedere la bellezza.
Paolo Castaldi è un mio carissimo amico. Su quell’11 luglio di quaranta anni fa ci ha fatto un libro. Quando ci vedevamo a pranzo o a cena, mentre lo faceva, me lo ha raccontato tutto, con l’entusiasmo di chi, pur non avendoci assistito (Paolo è nato nell’ottobre del 1982), conosce la portata storica di un avvenimento che ha segnato un cambio d’epoca. Solo quando l’ho letto nella sua completezza, però, mi sono reso conto che la prospettiva in cui Paolo ha posto quei fatti è sostanzialmente sartriana.
La storia si sviluppa lungo due linee, da una parte, quella principale, racconta il viaggio di Lucia, una madre di estrazione operaia, con il figlio maggiore Claudio e incinta di due gemelli, verso la Sicilia. È domenica. Ed è proprio l’11 luglio del 1982. Quando Marcello, il padre ha comprato i biglietti, non ci pensava nemmeno che l’Italia sarebbe arrivata in finale. La squadra aveva fatto sempre schifo! Tutto il viaggio sarà scandito dalla radiocronaca della finale che Claudio ascolta, insieme a tutti gli altri passeggeri, in una specie di rito collettivo.
L’altra linea del racconto, sviluppata in una sorta di montaggio alternato, è quella della partita vera e propria, con le necessarie digressioni (a volte va detto, un po’ troppo didascaliche) necessarie a inquadrare il periodo storico e a raccontarti come l’Italia di Enzo Bearzot arrivò in finale.
Non so se Paolo abbia letto la Critica della Ragione Dialettica, ma nello scorrere delle sequenze dedicate alle partite dell’Italia, ci mostra come la libertà d’azione e di iniziativa dei singoli giocatori, su tutti Paolo Rossi, quella che Sartre avrebbe definito come «prassi», sia necessariamente integrata alla squadra per poter funzionare, e come contemporaneamente – per ottenere il risultato – la trascenda. La continua dialettica, tra l’attività comune della squadra e quella dei singoli, è perfettamente illustrata dalle tavole che a Paolo riescono meglio, quelle dell’azione sportiva.
Con la scelta ideologica del montaggio alternato, che ci mostra i due avvenimenti (il viaggio e la partita) nella loro simultaneità, Paolo sembra far sua la tesi sartriana di fondo, è cioè che una squadra di calcio, come qualsiasi società umana, sia una forma dinamica e mutante, la cui organizzazione plasma il rapporto tra azione individuale e collettiva. Anzi, con la scelta ambientale dell’intercity Milano-Palermo, Paolo va oltre. La similitudine non è più tra la società e la squadra di calcio, ma tra la squadra e una precisa classe sociale: quella lavoratrice.
Di solito il montaggio alternato viene usato per far convergere i diversi accadimenti narrati, in un unico punto conclusivo. Invece, con uno scarto quasi godardiano, i punti in cui convergono le due linee narrative del libro di Paolo sono antitetici. La vittoria per la Nazionale, la rassegnazione per la classe lavoratrice. Perché alla fine del suo lungo ragionamento Sartre specificava una cosa: la dialettica interna tra azione collettiva e azione individuale di una squadra o di una società (o di una classe sociale) è complicata da un fattore esterno: l’avversario. Questa contrapposizione crea un intero immaginario. Se per la Nazionale di Bearzot l’avversario era chiaro ed esterno: la Germania Ovest, per la classe lavoratrice italiana l’avversario non era più visibile, come una specie di “Alien” era un pericolo oscuro e interno. Un merito del libro di Paolo (anche se è qui che purtroppo gli scappa quel didascalismo di cui ti dicevo) è sicuramente il tentativo di dare una spiegazione di come questo sia potuto accadere.
L’11 luglio 1982 segna la fine di un’epoca, l’ultima volta che la società si trovava, come in una battaglia della modernità, di fronte al proprio diretto avversario. Finita l’estate sarebbe uscito Blade Runner a raccontarci come, da allora in poi, non sarebbe più stato possibile un fronteggiamento diretto. Benvenuti nel postmoderno.
Jean-Paul Sartre muore il 15 aprile del 1980. Amava il calcio e sono certo che gli sarebbe interessato un sacco il mondiale del 1982 e ce ne avrebbe dato una lettura illuminante. Non ha potuto assistervi e ci ha lasciati da soli sulla soglia della postmodernità. Non so mica se ce la siamo cavata.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.