Una recensione (s)ragionata in tre atti di Top Gun: Maverick
Erano diversi mesi che non andavo al cinema. Un po’ per la pandemia e un po’ per la strabordante offerta delle piattaforme di streaming che pago mensilmente – sicuramente superiore alla mia capacità di assorbirla – e che mi fanno sentire enormemente in colpa ogni volta che scelgo di sborsare ulteriore denaro per vedere un film al cinema. Ma l’altra sera avevo voglia di passare una serata fuori di casa, al riparo dal rischio di appisolarmi sul divano e quindi, alla fine, di non vedere proprio niente. E così, con un nemmeno troppo vago presentimento di déjà vu, mi preparo ad affrontare Top Gun: Maverick, un film di due ore e undici minuti diviso in tre atti che, senza nessuna sorpresa, scoprirò poi pieno di missili, virate, sudore e lacrime. Le lacrime mie quando un giovane spettatore, seduto due poltrone accanto a me e ormai disabituato dalla pandemia al rispetto delle regole minime della socialità, deciderà di liberarsi i piedi dalle scarpe da ginnastica per affrontare con maggior comodità la visione del film.
Mai la FFP2 al cinema fu più benedetta…
Ouverture
Dopo il solito balletto di segni e mossette in controluce che da sempre, al cinema, preannuncia il decollo di un jet americano da una portaerei e che qui accompagna i titoli di testa del film, esattamente come succedeva nel 1986 nel primo capitolo della storia (sì, dal punto di vista del franchise, possiamo considerarlo l’equivalente della passeggiata di James Bond inquadrata dal punto di vista della canna di pistola), Top Gun: Maverick sfodera prepotentemente i suoi loghi e finalmente inizia. Avevo letto in giro che prima ci sarebbe stato anche una breve sequenza con Tom Cruise che ringraziava gli spettatori per essere andati al cinema a vedere il film (tradotto: caro spettatore, noi di Paramount non siamo come quelle brutte persone della Disney che i loro film li portano su Disney+ il mese dopo l’uscita in sala, in base a una politica distributiva che i cinema li vuole sacrificati sull’altare del più remunerativo e controllabile streaming), ma nella mia proiezione non c’è stata. Non mi stupirei che l’odore dei piedi del mio vicino di posto avesse fatto fuggire il povero Tom…
Atto I
Dunque, uno stato canaglia ha deciso che è arrivato il momento di dotarsi di un impianto per arricchire l’uranio. Lo chiameremo per comodità Bugliano, visto che nel film il suo vero nome non viene mai detto – si dice solo che i suoi piani preoccupano gli alleati NATO –, un po’ perché a Hollywood piace esportare il proprio cinema ovunque (e, se a qualcuno dai della canaglia, poi è più difficile vendergli la tua merce) e un po’ a indicare che, nell’attuale politica estera USA, qualunque stato può svegliarsi un giorno marchiato come “canaglia” e, quindi, trovarsi automaticamente bombardabile e sotto embargo. Oltre al fatto che, se gli USA decidono che sei una preoccupazione per un paese della NATO, è facile che ti trovi comunque i loro bombardieri sulla testa.
Ora, l’obiettivo di Bugliano è chiaramente dotarsi di armi nucleari e, sapendo benissimo che questo agli Stati Uniti non andrà giù, i furbi buglianesi hanno costruito l’impianto di arricchimento dell’uranio sull’equivalente montanaro della Morte Nera di Star Wars: sotto terra, al centro di una vallata circondata da montagne ripidissime a cui si accede solo attraverso un lungo canyon sorvegliato da un tot di postazioni anti-aeree.
Insomma, puoi arrivare a bombardare l’impianto solo se la Forza scorre potente in te.
E proprio a quella l’esercito USA pare essersi affidata da tempo, visto che sviluppare nuove tecnologie militari costa certamente di più rispetto a formare giovani piloti in grado di agire senza pensare e di resistere a svariati G di accelerazione. Alla Forza e ai droni, i cui piloti cresciuti a pane e Playstation possono tranquillamente fare a meno pure della capacità di resistenza agli svariati G di accelerazione.
Ricordate Good Kill? È un film del 2014 diretto da Andrew Niccol che racconta proprio la vita quasi impiegatizia di uno di questi piloti, interpretato da Ethan Hawke. Comodamente seduto in un compound rinfrescato in Nevada, il pilota guida droni in battaglia su vari teatri di guerra di giro per il mondo, fino al giorno in cui tutta questa spersonalizzazione dell’omicidio lo manda un po’ in crisi. Tutto questo solo per dire che, a suo tempo, la critica lo definì il Top Gun della guerra moderna.
In ogni caso, il risultato è che ora Bugliano ha la superiorità nei cieli, quindi per i piloti USA affrontare i caccia buglianesi in un duello aereo non è l’idea migliore.
Mentre a Bugliano succede questo, l’eroe eponimo della storia, Pete “Maverick” Mitchell (trent’anni dopo il precedente film, cosa che obbliga Tom Cruise a tingersi vistosamente i capelli e a sbiancarsi altrettanto vistosamente i denti), si trova in Nevada dove, quando non avvita qualche bullone del suo vecchio velivolo a motore (uno scintillante P51 Mustang, l’aereo feticcio di Jim Ballard ne L’impero del sole), porta avanti una carriera di collaudatore di aerei militari super segreti che non lo fa avanzare di grado ma che, dopo aver rassegnato le dimissioni da istruttore della Top Gun, gli permette comunque di non abbandonare il suo sogno di volare. Che lo sappiamo cosa diceva Freud sui sogni che riguardano il volo…
L’esercito però, per i motivi di cui sopra, pensa che gli aerei pilotati da tizi siano ormai decisamente inadatti a fare la guerra e quindi ha deciso di tagliare il programma che paga lo stipendio a Maverick. Dopotutto – sostiene il retroammiraglio Chester “Hammer” Cain, venuto a chiudere tutta la baracca e che sullo schermo ha il volto masticato di Ed Harris – questo programma di smidollati non riesce nemmeno a portare a Mach 10 il jet super segreto che sta collaudando da mesi.
Ma Maverick, che vuole proteggere il suo posto di lavoro ma soprattutto – dice lui – quello dei suoi colleghi, sale a bordo del segreto e costosissimo jet, lo porta a Mach 10 e qualcosa per dimostrare che non è uno smidollato (a Mach 10 dimostrava che non era uno smidollato e lui e gli altri si tenevano il lavoro; a Mach 10 e qualcosa dimostra che ce l’ha più lungo di tutti). A quella velocità, il segreto e costosissimo jet probabilmente fa il giro della Terra una volta e mezza. E poi si schianta.
Risultato: pilota salvo (estrema sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore) ma, senza più jet da testare, programma probabilmente chiuso. “Grazie mille!” esclamano i colleghi di Maverick, ora disoccupati.
Ma, invece di licenziare pure lui, Cain comunica a Maverick che è stato scelto per ritornare alla United States Navy Fighter Weapons School.
Esatto: la Top Gun!
Primo interludio
È esistito veramente Maverick? Praticamente sì.
Ok, c’è stato “Top guns”, cioè l’articolo scritto nel 1983 da Ehud Yonay per la rivista “California” e che ha inspirato la sceneggiatura di Jim Cash e Jack Epps Jr. per il film del 1986. L’articolo raccontava del pilota Alex Hnarakis (nome di battaglia, Yogi) ed è stato lui la probabile fonte di ispirazione per il personaggio di Maverick. Tanto che gli eredi di Yonay – il giornalista è scomparso nel 2021 – hanno recentemente fatto causa a Paramount per non aver riacquistato i diritti di quell’articolo prima di produrre il film uscito quest’anno.
Ma non mi riferivo a Yogi.
Il riferimento più specifico al personaggio di Maverick è un altro, anche lui un pilota militare statunitense, ma di un’altra epoca: il Colonnello John Richard Boyd, nato nel 1927 e morto settant’anni dopo.
Boyd è stato uno stratega militare e consulente del Pentagono, un anticonformista (in inglese, appunto, “maverick”) che ha cambiato radicalmente il modo in cui ancora oggi pensiamo la guerra e, come vedremo fra poco, non solo quella. Capì infatti che buona parte del successo (o dell’insuccesso) di un’azione militare si basa sui cicli decisionali delle persone coinvolte e che la tecnologia aiuta (oppure ostacola) tali decisioni ma di sicuro non è l’unico fattore nel conseguimento di un obiettivo. Uno stratega che non scrisse mai un libro sulla strategia militare, ma che diede origine a quella teoria del combattimento che, oltre a essere ancora studiata in tutto il mondo, fu alla base della rapida e decisiva vittoria degli Stati Uniti nella Guerra del Golfo del 1991.
Durante la sua carriera gli affibbiarono vari soprannomi: “the mad major”, “Genghis John”, “Ghetto colonel”, tutti mirati a sottolineare il suo essere fuori dagli schemi, appassionato sostenitore delle proprie idee e assolutamente devoto alla causa di un’industria militare in grado di evolversi e superare la strategia del massacro e della sconfitta.
Boyd cominciò la sua carriera militare durante la II Guerra Mondiale e poi, nel 1953, servì come pilota in Corea, proprio in coda alla guerra. Lì, negli scontri aerei, gli F-86 Sabre americani stavano avendo 9 volte su 10 la meglio sui MiG-15 del nemico, nonostante questi ultimi fossero degli aerei migliori di quelli americani.
Secondo gli analisti, questo risultato era dovuto alla forma a lunetta della cabina di pilotaggio del F-86 (che dava al pilota una visuale più ampia sui lati) e ai suoi controlli idraulici (quelli dei MiG-15 erano invece manuali) che, oltre ad affaticare meno il pilota, permettevano al velivolo di passare da un assetto offensivo a uno difensivo più velocemente.
L’F-86 era meno manovrabile del MiG-15 ma i suoi piloti disponevano di più elementi per prendere una decisione e potevano adattarsi a una situazione in continua evoluzione in meno tempo e con meno fatica rispetto ai loro avversari. Dati preziosi questi che sicuramente ispirarono a Boyd diverse riflessioni.
Alla Fighter Weapons School presso la base Nellis dell’Air Force, in Nevada, dove negli anni ‘60 svolgeva il ruolo di istruttore, tutti conoscevano Boyd come “Boyd Quaranta Secondi”: partendo con l’avversario in coda in un combattimento aria-aria simulato, Boyd scommetteva che entro 40 secondi era in grado di ribaltare la situazione e quindi di abbattere virtualmente il suo avversario. Chi “restava in vita” più di 40 secondi, vinceva 40 dollari.
Inutile dire che nessuno incassò mai quel denaro, anche perché Boyd era un asso a pilotare il suo F-100 Super Sabre, il primo velivolo operativo a raggiungere la velocità del suono in volo livellato ma anche quello che si guadagnò la triste fama di “fabbricante di vedove” sulla base dell’alto numero di incidenti a cui andò incontro.
La specialità di Boyd era una manovra chiamata “flat plating the bird”, ed era proprio quella che spesso gli permetteva di vincere la scommessa dei 40 secondi. Avete presente il momento in cui Maverick, in Top Gun, frega il MiG «tirando il freno a mano» del suo F-14 in modo da farsi superare dal jet sovietico? È quella manovra lì. Solo che con un aereo ingombrante come l’F-14 pare che sia abbastanza improbabile farla.
Ma Boyd, oltre che come pilota, aveva una grande fama anche in aula dove si dedicò a insegnare le tecniche di combattimento aereo e, nel suo tempo libero, a mettere insieme un manuale dedicato alla materia che fino ad allora non esisteva. Prima di Boyd, infatti, si pensava che il combattimento aereo fosse un’arte piuttosto che una scienza e che, quindi, non potesse essere codificato. Boyd dimostrò invece che per ogni manovra esiste una serie di contromanovre e che, per ogni contromanovra, ne esiste un’altra ancora. In un combattimento, se adeguatamente istruiti su tutta questa materia, i piloti che seguivano il manuale di Boyd erano in grado di conoscere ogni opzione a disposizione del loro avversario e, quindi, sapevano come comportarsi di fronte a qualunque sua scelta.
Perché la cosa più importante – e Boyd l’aveva vista messa in pratica in Corea – era che vinceva chi si inseriva validamente nel ciclo decisionale dell’avversario. Un ciclo secondo Boyd fatto di quattro fasi: Osservazione, Orientamento, Decisione e Azione. Il celebre ciclo OODA il cui padre è proprio lui, John Boyd. Chi si inserisce per primo nel ciclo dell’avversario e mantiene questo vantaggio, costringe l’avversario a inseguirlo e, visto che il ciclo è ricorrente, a investire sempre maggiori energie per colmare il divario.
Il ciclo OODA, nato per scopi militari, è un concetto divenuto nel tempo molto importante in ambito giuridico, nello sport, in economia, ma anche per chi si occupa di comprendere e migliorare i processi di apprendimento. Se siete lettori di fantascienza è probabile che conosciate il romanzo Il gioco di Ender di Orson Scott Card e che abbiate notato che ciò che rende il giovane Ender un combattente così eccezionale è proprio la sua capacità di applicare il ciclo OODA alle simulazioni di guerra (che poi simulazioni si scoprirà che non sono). E quindi non vi stupirà sapere che, nella Commandant’s Professional Reading List (cioè la bibliografia che il corpo dei Marines consiglia ai proprio membri), il romanzo di Orson Scott Card è presente fin dal 1988.
Insomma, tutto torna.
Con il matematico Thomas P. Christie, Boyd elaborò anche la teoria della manovrabilità energetica del combattimento aereo, che non solo dava uno strumento in più ai piloti per valutare il proprio potenziale energetico a qualunque altitudine e con qualunque manovra (il proprio e, soprattutto, quello dell’avversario), ma divenne poi anche lo standard per progettare il design degli aerei da combattimento.
Boyd si rese infatti conto che le leggi della termodinamica sulla conservazione e dissipazione dell’energia potevano essere applicate alle tattiche di combattimento. Non erano la velocità o la potenza che consentivano a un pilota di caccia di superare il proprio avversario (e che erano invece i parametri fino a quel momento seguiti per costruire gli aerei da combattimento) ma, appunto, il livello di energia. Potendo analizzare il combattimento aereo in termini di energia, quindi, si sarebbero potute sviluppare equazioni che avrebbero descritto e rese confrontabili le performance dei velivoli. E progettare velivoli ottimizzati sulla base di questi parametri.
La teoria di Boyd fu il fulcro del programma Lightweight Fighter Program (LWF) che, dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, cercò di immaginare un nuovo modo per ridare la superiorità aerea agli USA (soprattutto dopo la disastrosa esperienza dell’U.S.A.F. in Vietnam) e, in questo, portando alla produzione di tre velivoli da combattimento che hanno poi fatto la storia dell’aviazione militare: l’F-15, l’F-16 e l’F/A-18.
E ora che ne sapete abbastanza di John Boyd e di come abbia ispirato il personaggio di Maverick, possiamo tornare al film, domani, con la seconda parte (di tre) di questa lunga recensione (s)ragionata. Non mancate, birbantelli!
(continua)
Lettore lento e disordinato. Curioso discontinuo. Viaggiatore carsico.
Da sempre, legge parecchi fumetti e alcuni li pubblica anche. Collabora volentieri con QUASI perché gli pare il modo migliore di vagare senza rischiare di perdersi irrimediabilmente.